La notizia recente è che il Governo Letta ha prorogato le detrazioni IRPEF per le ristrutturazioni edilizie, estendendole anche all’acquisto di arredi.
Ottima notizia, ovviamente. Due settori in grossa difficoltà, l’edilizia e l’arredamento: posti di lavoro in pericolo, ed è quindi cosa buona e giusta “dare ossigeno” attraverso un meccanismo fiscale che incentiva la domanda.
Peraltro, l’intervento ha anche l’obiettivo di mettere in sicurezza tutti quegli edifici non costruiti con criteri antisismici: un’altra ottima cosa, assolutamente. Grandi e piccole opere, con un comune denominatore: il laterizio. Ovvero: la primazia del mattone.
Esattamente come quando un imprenditore va in banca per chiedere un finanziamento e scopre che qualsiasi asset della sua azienda che non sia accatastabile o comunque riconducibile a un “manufatto” non vale un centesimo.
Siamo una repubblica fondata sul lavoro e sul mattone, facciamocene una ragione.
Ma è davvero così difficile, provare a considerare le infrastrutture tecnologiche conferendo loro la stessa importanza di quelle murarie?
Il fatto è che tendiamo più o meno inconsapevolmente tutti a impressionarci di più guardando una parete “malata”, aggredita da infiltrazioni o da crepe, piuttosto che immaginare un’infrastruttura IT “pericolante” o “vetusta”. Sarà forse perché il muro pericolante “si vede”, mentre un’infrastruttura quasi completamente immateriale la si può solamente “percepire”.
Sarà forse che il danno provocato dal crollo di un muro (o di un tetto) appare “più grave” rispetto al “crollo” di un sistema informativo. Appare, si badi bene: perché, a volte, il costo di un “down” (o di un’intrusione) assume dimensioni decisamente significative.
Ma tant’è: il bit non ha la stessa dignità e lo stesso valore del mattone e il programmatore Java non ha la stessa risonanza mediatica del muratore. Sarà perché i programmatori non salgono sui tetti delle loro aziende e non fanno scioperi della fame, sarà perché gli imprenditori dell’ICT fanno fatica a dare vita a iniziative precompetitive di demand generation (giro di parole aulico per non dire “lobby”), fatto sta che il bit perde e il mattone vince.
L’industria italiana dell’Information Technology dà lavoro a più di 250 mila persone, sviluppando un mercato “piccolo rispetto al PIL” (meno di mezzo punto) ma comunque ragguardevole.
Alcune decine di migliaia di queste persone, ogni giorno vanno al lavoro presidiando sistemi informativi al limite dell’obsolescenza, con qualche punta di autentico vintage.
Se ci limitiamo a considerare gli asset IT della Pubblica Amministrazione e della Sanità, parliamo di poco meno di due miliardi di righe di codice sorgente, con una ancora netta preponderanza di software scritto in linguaggi che definire “desueti” è puro eufemismo. Per non parlare di qualche migliaio di server (sui quasi sessantamila in attività) tenuti in vita non si sa come.
Altro che “crepe nei muri”: qui siamo nella categoria “edificio a poche ore dal crollo”. Eppure, nessuno pare scandalizzato a sufficienza.
Se è vero (e lo è sicuramente) che siamo alla vigilia della “Operazione Cloud”, grazie al “Piano Data Center” voluto dal governo precedente e confermato da quello attuale, diventa di straordinaria attualità il tema della qualità del software che quotidianamente “fa andare avanti” la PA e la Sanità italiana e della sua capacità di migrare sul cloud. Pari a zero, sia ben chiaro, per almeno la metà dei casi.
Tutto questo significa, volendo essere ottimisti, una vera e propria esplosione del mercato per i prossimi cinque anni.
Volendo essere pessimisti, invece, significa un ostacolo insormontabile collocato di fronte al “G-Cloud”. Quale dei due scenari avrà la meglio?
La risposta è tutta quanta nella capacità, da parte di tutti gli stakeholder, di portare una volta per tutte il bit al centro dell’attenzione dei decisori pubblici. Quanto più la delega sull’Agenda Digitale sarà portata vicino a Palazzo Chigi, tanto più varrà la pena di scommettere sul bit.