Il tema del come affrontare le “fake-news” o “bufale online” sta dilagando sulla stampa e sulla rete. Complice, sicuramente, quanto successo nella campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti, dove la produzione e l’amplificazione di notizie false in rete è stata una delle strategie messe in atto nella campagna elettorale del vincitore (anche se, sembra, non in modo decisivo per il risultato finale).
Il dibattito e le proposte
Ne sono seguite, anche in Italia, dichiarazioni di proposte di “soluzioni” di diverso genere, che sostanzialmente
- individuano nello Stato, o nelle sue emanazioni, l’organismo deputato a sovrintendere alla veridicità delle informazioni (come espresso dal presidente AntiTrust Pitruzzella “istituzioni specializzate, terze e indipendenti che, sulla base di principi predefiniti, intervengano successivamente, su richiesta di parte e in tempi rapidi, per rimuovere dalla Rete quei contenuti che sono palesemente falsi o illegali o lesivi della dignità umana”);
- individuano negli operatori di piattaforma (i cosiddetti Ott-Over The Top, come Google, Facebook) coloro che hanno la responsabilità di filtrare le notizie rispetto alla loro veridicità, oltre che al loro contenuto illegale (vedi la posizione del ministro Orlando, in linea di quella di alcuni paesi UE come la Germania) o in ogni caso la responsabilità di dare un’indicazione per la loro valutazione (questa la posizione di Stefano Trumpy, che propone ad esempio che gli Ott “non dovrebbero agire in modo da filtrare le informazioni classificate come “bufale” poiché questo sarebbe equiparabile ad una censura ma, almeno, dovrebbero segnalare una sorta di “cartellino giallo” segnalando che certe informazioni sono classificabili come bufale, in modo che i lettori possano almeno domandarsi se sia opportuno credere in certe affermazioni dei politici.”
- individuano negli utenti coloro che possono, votando, etichettare un contenuto come vero o falso e quindi indicare in questo modo i contenuti non affidabili, sulla base della logica per cui i grandi numeri degli utenti di Internet permettono di rendere il “giudizio della piazza” per questo stesso un giudizio obiettivo.
Credo che questi approcci partano certamente da un problema reale (la Rete amplifica le possibilità di informazione e disinformazione, e quindi il fenomeno di diffusione di notizie false è molto più frequente e rapido), ma scelgano la via breve di identificare un regolatore-risolutore prescindendo dalle condizioni di base dello sviluppo del problema.
In più, quando il regolatore è individuato a livello di istituzione o di organizzazione, è molto elevato il rischio di far intravedere dietro l’angolo il Ministero della Verità di Orwell, negazione assoluta dei principi della libertà di pensiero, di espressione e della democrazia in generale.
Il nodo cruciale della consapevolezza
Approcci, così, che non tengono in considerazione la base stessa del processo di costruzione delle convinzioni, che poggia su conoscenza e pensiero critico, sulla disponibilità delle informazioni e sulla capacità di valutarle. Mi sembra in questo senso illuminante quanto scrive Luca De Biase commentando un intervento di Juan Carlos De Martin “La democrazia è un sistema di equilibri. Quello che la distingue non è il momento del voto: è tutto ciò che avviene prima e che porta i cittadini informati a votare in modo consapevole. In assenza di questo requisito, la democrazia non esiste: esiste una forma di manipolazione del popolo male informato e diseducato che viene governato autoritariamente da chi riesce a fargli credere qualunque cosa.”
Non ci sono scorciatoie organizzative utili a una democrazia compiuta. Nel momento in cui la Rete diventa spazio fondamentale della discussione, della circolazione delle informazioni, e amplifica la possibilità di conoscenza di contenuti informativi (di varia fonte), l’unica vera arma di difesa individuale è la capacità di analisi, così come l’arma di difesa collettiva diventa la proposizione di un sistema di valori che dia enfasi alla qualità delle informazioni.
Ancora citando De Biase, oggi invece gli incentivi prevalenti nei media (sulla base di un sistema di valori che paga la superficialità dell’apparire e il mito della tempestività) “tendono a condurre le scelte di chi informa con i media in modo tale che viene privilegiata la ricerca dei picchi di attenzione piuttosto della qualità culturale dell’informazione che viene condivisa; la qualità dell’informazione segue altre forme incentivanti, che hanno a che fare con la verifica tra pari e la documentazione metodologicamente corretta, in funzione della conquista di una rilevanza sulle decisioni operative che vengono prese.”
In questo senso la scarsa capacità di individuare le “bufale” è il risultato della scarsa capacità di affrontare un mondo complesso che richiede capacità di analisi, approfondimento, valutazione critica, come sostiene da sempre Piero Dominici.
E che richiede tempo, per una prospettiva a medio e lungo termine. Invece, siamo in un cortocircuito logico che per mirare al cambiamento rapido mina le basi del cambiamento duraturo.
D’altro canto, certamente può essere utile un sistema di “allerta bufale” come quello identificato da This is fake e sostenuto da Paolo Attivissimo, che può essere attivato dall’utente per essere avvisato di quelle notizie che sono reputate poco affidabili, e avvisare a sua volta. Ma, anche questo, si basa sull’adeguata diffusione tra gli utenti della Rete della capacità di pensiero critico. Altrimenti, si ricade nel rischio della confusione informativa, dove nulla è affidabile e quindi tutto lo diventa.
Mettere al centro competenze e pensiero critico
Questo della necessità di partire dalle competenze e dall’alfabetizzazione non è però un tema nuovo, e se si coniuga adesso con la necessità di padroneggiare un ambiente virtuale il fenomeno è sempre quello ben definito da Tullio De Mauro, in una recente intervista: “Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni”. Siamo lì. Quello è il punto.
Più di un anno fa avevo cercato di mettere in evidenza quanto fosse importante porre in massima priorità il tema delle competenze informative e digitali, in gran parte attingendo alle analisi di De Mauro, imprescindibile faro di riferimento su queste tematiche.
La situazione non è molto cambiata: l’Italia, che ha ben il 38% di popolazione con insufficiente alfabetizzazione (linguistica, numerica) secondo l’ultima rilevazione 2015 realizzata dall’Ocse (studio PIAAC sul grado di alfabetizzazione degli adulti) e ben il 57% di analfabetismo digitale, secondo i dati 2016 di Eurostat, non ha un programma nazionale su questo fronte.
Eppure, una delle competenze di base proposte nel framework europeo DIGCOMP (riferimento per tutte le rilevazioni europee sul livello di competenze digitali di base), nell’ambito dell’area di competenza informativa, è relativa a “Valutare dati, informazioni e contenuti digitali” e si declina così: “Analizzare, confrontare e valutare criticamente credibilità e affidabilità delle fonti di dati, informazioni e contenuti digitali. Analizzare, interpretare e valutare criticamente dati, informazioni e contenuti digitali.”
Pensiero critico come competenza di base. Se la democrazia diventa reale quando tutti sono messi nella condizione di partecipare alle decisioni, ecco che questa competenza diventa chiave nell’esercizio stesso della cittadinanza. Non solo perché questo consente la necessaria autonomia di convinzione e quindi di partecipazione reale alle decisioni, ma anche perché così è possibile comprendere l’importanza, sostenuta da Michele Mezza, della “negoziazione sociale” sugli “algoritmi con cui [Facebook e Google, ndr] profilano e indirizzano i nostri pensieri” e che devono essere resi “spazi pubblici”, consultabili.
Non basta però che di questa priorità si faccia carico il sistema educativo nel suo complesso (dalla scuola alle Università, dalle amministrazioni pubbliche al mondo della formazione): anche il sistema dei media è chiamato a favorirne lo sviluppo.
Da questo dipende certamente il futuro delle democrazie (ancora, riemerge lo spettro di 1984), ma anche il carattere che assumerà la Rete in questo processo: luogo formidabile di condivisione e di sviluppo oppure spazio di fabbricazione della convinzione collettiva.
Per questa ragione ritengo ancora che “la consapevolezza digitale deve diventare l’ossessione di tutti gli attori istituzionali, di tutto il sistema educativo”. Non è tanto in gioco il numero di utenti dei servizi digitali o il risparmio dei costi della Pubblica Amministrazione. Si tratta dell’ampiezza del nostro spazio di democrazia. Della società che vogliamo.