l'analisi

Internet, il mito della decentralizzazione: quanti danni fa

Le tecnologie digitali ci avevano promesso libertà e autonomia, ma non è andata come dicevano. Anzi, abbiamo assistito alla centralizzazione del controllo e della sorveglianza, nella logica del sistema tecnico e capitalista. Questo comporta molti rischi, come ci sta dimostrando il conflitto in Ucraina

Pubblicato il 22 Apr 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

guerra ucraina

De-centralizzazione del potere, invece della centralizzazione/centralismo del passato; orizzontalità delle organizzazioni, invece di gerarchia, non solo nel management; rete libera e democratica invece della vecchia democrazia politica rappresentativa, formale e poco sostanziale: erano e sono le favole (false o irreali come tutte le favole) che ascoltiamo sempre affascinati – senza mai gridare che il re è nudo! – da quarant’anni a questa parte, favole raccontate dalle imprese del Big Tech, dai governi che ne sono i promotori, insieme ai tanti mass-media propagandisti dell’innovazione e della digitalizzazione a prescindere.

La de-centralizzazione/orizzontalità promessa non è infatti vera e produce soprattutto – e al contrario – accentramento accresciuto, perché questo è nella logica del sistema tecnico e capitalista, anche se ben mascherato da (falsa) libertà e (falsa) autonomia; e che comporta molti rischi – e pensiamo alle armi, bombe atomiche comprese, tornate di attualità con la guerra in Ucraina, ma che esistono da quasi ottant’anni.

De-globalizzazione? Ecco perché è (quasi) impossibile tornare indietro

De-centralizzazione e sorveglianza

L’occasione per riparlare di centralismo tecnologico e di mercato è un libro che sostiene la tesi opposta – “Power to the people. How Open Technological Innovation is Arming Tomorrow’s Terrorists” (Oxford University Press) – scritto da Audrey Kurth Cronin, esperta di sicurezza e terrorismo, docente di International Security all’American University di Washington. Dove si riprende il tema della tecnologia buona e/o cattiva e dove le due facce del problema possono essere definite in questo modo: we have more and more technologies that make-up decentralized capacities to create a catastrophe. And – on the other side – governments are able, with surveillance at scale, to take up and monitor more and more space. 

Il tutto in un mondo ipertecnologico e sempre più automatizzato dall’AI, dove i social media possono essere – sono – anch’essi armi di distruzione ma soprattutto di distrazione di massa, apparentemente de-centrati ma in realtà fortemente accentrati e usati da poteri che agiscono sul fronte della dis-informazione con strategie e tattiche articolate, globali ma soprattutto integrate, cioè, appunto, accentrate e coordinate. Nessun complottismo, ovviamente, perché questa è piuttosto la tragica realtà dei fatti. Non da oggi, posto che propaganda, disinformazione, manipolazione del consenso sono pratiche antiche, antichissime. Ma oggi potenziate, grazie alle tecnologie di rete/digitale, in modi molto più pervasivi/persuasivi rispetto al passato.

Un libro comunque utile, quello scritto da Cronin to understand how new technologies and innovation can change society, the nature of conflict, and our world, ma soprattutto per comprendere how non-state actors adopt technology for violence, secondo un processo che però solo erroneamente può essere definito di democratizzazione della violenza e comunque il libro ponendo una enfasi eccessiva sul potere dell’open source e della open technological innovation.

La de-centralizzazione della violenza, via tecnologia

Perché (e lasciamo Audrey Kurth Cronin) non di democratizzazione – della tecnologia e anche della violenza – bisogna parlare, bensì – semmai – di de-centralizzazione o di socializzazione della violenza, via tecnologia. Processi che sono militari/terroristici, certamente, ma anche sociali e basta guardare a come la violenza gratuita, il vandalismo e il bullismo si stiano diffondendo – sempre grazie alle tecnologie di rete – nelle società appena si sono allentati i freni inibitori psicologici e i vincoli di legge imposti dalla pandemia.

Un processo di de-centralizzazione della violenza che non riguarda quindi solo il terrorismo e soggetti non-statali, ma che ha in realtà le sue ascendenze nella logica di guerra che ha accompagnato gli umani per tutta la loro storia, ma che poi si moltiplica con la tecnologia (Prima guerra mondiale) e poi con la nascita del complesso militare-industriale degli stati – e il termine complesso militare-industriale venne usato per la prima volta dal Presidente americano Eisenhower per avvisare gli americani (ovviamente inascoltato, troppo grande era già allora la potenza di quel complesso) il pericolo implicito negli accordi segreti fra potere politico, industria bellica e militare degli Stati Uniti – cui oggi si è potentemente aggiunta l’industria dell’hi-tech digitale.

Già, perché oltre alla guerra in Ucraina, da tempo viviamo in una condizione di Terza guerra mondiale in frammenti, come aveva denunciato (anch’egli inascoltato) Papa Francesco. Non solo: le guerre vengono fatte sempre più da eserciti di professionisti e/o appaltate sempre più a mercenari (anche in Ucraina, ma altri paesi non sono da meno rispetto alla Russia); mercenari oggi strutturati e organizzati da società private e che si offrono/vendono sul mercato della guerra e della violenza cercando di massimizzare i loro profitti privati esportando/esternalizzando appunto violenza e guerra. E poiché ogni impresa – in un mercato capitalistico (anche della guerra) – punta alla massimizzazione del proprio profitto (privato), è ovvio che più guerre ci sono e più violenza c’èmeglio se a bassa intensità mediatica come quelle, oggi, per il controllo delle materie prime legate anche al digitale – maggiore è la produttività della guerra/violenza e quindi maggiore è il profitto (privato).

Poi c’è stata – ne abbiamo accennato – la violenza creata della proliferazione delle armi nucleari – qualcosa che un tempo metteva paura, ma che oggi è stata normalizzata dall’abitudine – che è un’altra forma di de-centramento della violenza, questa praticata sempre da stati e nascosta sotto l’esigenza di bilanciare il potere politico e nucleare degli avversari. Per la felicità e i profitti e il potere del complesso militare-industriale e tecnologico, che oggi è diventato globale e insieme è de-centrato e policentrico, cioè articolato su un insieme di complessi militari-industriali e tecnologici nazionali, tra loro nemici ma perfettamente funzionali all’accrescimento infinito di questo sistema/complesso militare e industriale globale e che ha necessità di alimentare la violenza e la paura per giustificare sé stesso. E questo perché per ogni sistema tecnico, tutto ciò che tecnicamente si può fare, si deve fare (Anders) e quindi non ci sono (ancora) limiti a questo accrescimento dell’industria anche delle armi e insieme – le due cose sono strettamente collegate e tra loro funzionali – della violenza.

Di cui è ovviamente parte anche il terrorismo – perché più aumenta il rischio (reale o fatto percepire attraverso le opportune biopolitiche della paura e dell’amico/nemico) del terrorismo, più deve aumentare la spesa nel sistema/complesso militare e industriale (e il suo business e il suo potere), più deve aumentare l’industria della sorveglianza nel grande e ulteriore business del Big Data anche militare. E quindi la tecnologia è abilitante anche la guerra e il terrorismo in forme apparentemente nuove ma soprattutto sempre più diffuse. Apparentemente però – di nuovo – è una de-centralizzazione/esternalizzazione (anche) della violenza, permessa dalla tecnologia (se posso costruire qualcosa con una stampante 3D, posso anche costruirmi una bomba atomica, basta seguire le istruzioni in rete…). Ma in realtà è sempre tutto dentro (centralizzato e integrato) alla e governato/attivato dalla logica sistemica del complesso tecnico e capitalista, perché mercato e tecnica (il tecno-capitalismo nei suoi diversi reparti di produzione e di consumo, dalle fabbriche alle piattaforme, dalla catena di montaggio al digitale, dai mercati di quartiere ad Amazon, compreso il complesso militare-industriale e tecnologico) sono per propria essenza e per propria logica accentratrici e integranti. E questo perché, oltre l’apparente de-centralizzazione, orizzontalità, autonomia, libertà, democrazia sempre offerte e incessantemente promesse dal sistema tecnico e capitalista (basta ricordare le retoriche degli anni ’90), in esso sempre predomina (ma lo dimentichiamo sempre) la logica della convergenza (ancora Anders) di uomini e macchine: cioè non esistono più macchine singole, non esistono più uomini autonomi e liberi, ma tutti sono connessi e tutto è integrato in un sistema di macchine), cioè in qualcosa di sempre maggiore e soprattutto di sempre più integrato/connesso/sussunto e soprattutto automatizzato e amministrato da algoritmi: sia che si parli di mercato (la globalizzazione come integrazione di mercati), sia che si parli di macchine (appunto la mega-macchina della rete/digitale/social/A.I./IoT), sia che si parli di industria. In apparenza – lo ribadiamo ancora – sembra de-centralizzazione, in realtà è centralizzazione, come vi è centralizzazione nella Fabbrica 4.0 e nelle piattaforme – così come nei social e nei motori di ricerca – dove l’apparente autonomia (de-centralizzazione/esternalizzazione) dei lavoratori è in realtà governata centralmente/centralisticamente da un algoritmo, just in time e just in sequence.

Centralismo capitalista e tecnologico

Nell’apparato tecnico e industriale, come nel mercato. Ed erano stati già Marx ed Engels a scrivere di quella che oggi chiamiamo globalizzazione – nella prima parte del “Manifesto del partito comunista” (1848) – e cioè che: “Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti, spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale, la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo in tutti i paesi” – ed è la fase della de-centralizzazione e della apparente diversificazione; ma poi “col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. […]. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa crea un mondo a propria immagine e somiglianza”, ed è la fase della omologazione e della standardizzazione del mondo, facendo convergere tutto e tutti nel sistema capitalistico, dopo avere colonizzato (antropologicamente, cioè nel senso di way of life) il mondo intero ed avere ora messo a profitto privato anche la vita emozionale/relazionale/sociale degli stessi uomini (il Big Data).

Inutile quindi domandarsi se la de-centralizzazione sia intrinsecamente, in sé e per sé una cosa positiva. Certo, che lo è (tranne quella delle armi); ma, appunto è strutturalmente (intrinsecamente) incompatibile con il sistema delle macchine e del mercato, dove l’apparente de-centralizzazione anche delle armi e della violenza (della guerra e del terrorismo) è perfettamente funzionale alla centralizzazione del controllo e della sorveglianza; su tutto, dell’accrescimento (ormai quasi autopoietico) del sistema tecnico e capitalista. Perché criptovalute, stampanti 3D, social e social media, piattaforme, droni, e smart-working hanno appunto solo l’apparenza della de-centralizzazione e della di-intermediazione (e dell’autonomia), ma sono in realtà nuove forme di intermediazione (comprese le piattaforme, compreso il blockchain) e di integrazione, secondo il modello, anche se da remoto, della fabbrica integrata.

Perché vale sempre, anche con le tecnologie di rete e anche per le armi (fisiche o mediatiche che siano) ciò che Marx descriveva quali caratteri intrinseci del capitalismo industriale (ma lo stesso vale anche per i sistemi tecnici), cioè: organizzazione (e non esiste un’organizzazione industriale e capitalista e tecnica che non sia centralistica e tendenzialmente autocratica); comando (il comando è oggi nell’algoritmo/digitale/piattaforma/IoT – diventati i nuovi padroni); sorveglianza (non esiste un’organizzazione che dopo avere dato il suo comando non eserciti il suo controllo – oggi via rete – sull’intera organizzazione e su ogni parte dell’organizzazione). Caratteri intrinseci anche del complesso militare/industriale e tecnologico, dei social e dei social media; e anche del terrorismo.

Tutto il resto è retorica o propaganda.

Bibliografia

Anders G., “L’uomo è antiquato”, 2 voll. Bollati Boringhieri, Torino

Demichelis L., “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene”, FrancoAngeli, Milano

Ellul J., “Il sistema tecnico”, Jaca Book, Milano

Gruppo Ippolita, “La Rete è libera e democratica. Falso!”, Laterza, Roma-Bari

Gruppo Ippolita, “Tecnologie del dominio”, Meltemi, Milano

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