Il processo di digitalizzazione della PA sembra attraversare una fase di grande fermento. Nel corso degli ultimi mesi, a seguito della costituzione della Cabina di regia (prima) e dell’emanazione del «Decreto Crescita 2.0» (poi), tutte le attenzioni e le discussioni sono state calamitate dall’Agenda Digitale.
Se è sicuramente un bene il fatto che vi sia una rinnovata attenzione sui temi dell’innovazione, bisogna evitare il rischio che la concentrazione sulle nuove norme (in particolare, il D.L. n. 179/2009) non distolga l’attenzione dall’esecuzione di altri provvedimenti – come il Codice dell’Amministrazione Digitale (D. Lgs. n. 82/2005) – che da anni, ormai, attendono regole tecniche per la loro compiuta entrata in vigore.
Fattura elettronica, sottoscrizioni informatiche, conservazione documentale, bollo virtuale: questi istituti esistono già (sono, tra l’altro, alla base di molte norme del «Decreto Crescita 2.0») ma non sono pienamente operativi proprio per la mancanza di “decreti attuativi” (su questo vedi anche l’affondo di Brunetta, “per ansia riformista il governo ha perso un anno”).
Sarebbe quindi auspicabile che – parallelamente ai lavori di attuazione del D.L. n. 179/2009, il Governo curasse – con tempi finalmente certi – la piena definizione delle regole tecniche previste dal Codice dell’Amministrazione Digitale. A quanto dicono i soliti “bene informati”, la gran parte del lavoro è stata fatta e circolano già alcune bozze.
Tuttavia, fino alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, queste disposizioni non possono essere applicate dalle PA (e quindi usate per avviare il percorso di reingegnerizzazione dei processi), non possono stimolare il mercato a sviluppare soluzioni per gli Enti, non possono dare certezza ai cittadini in ordine ai loro diritti e rapporti con le Pubbliche Amministrazioni.
In poche parole, senza la piena attuazione del “vecchio” CAD, anche l’Agenda Digitale corre il rischio di rimanere sulla carta.
Vale la pena anche citare i motivi per cui è così difficile attuare il CAD. Un’analisi interessante è quella di Ancitel, secondo cui ci sono due tipologie di problemi.
“La prima tipologia raccoglie tutti i fattori interni all’ente, mentre nella seconda tipologia possiamo inserire tutto ciò che prevede un coinvolgimento di stakeholder esterni nel processo di cambiamento che l’ente vuole attuare.
Nella prima categoria rientrano, ad esempio, tutti i cambiamenti organizzativi e tecnologici che non hanno altri vincoli nella loro attuazione, se non la volontà e la capacità dell’ente di metterli in atto. Esempi di fattori interni possono essere quelli legati all’adozione della posta elettronica per le comunicazioni tra uffici della stessa amministrazione, all’impiego della Pec al posto delle raccomandate oppure alla definizione di un piano di formazione sul Cad per il personale.
Nella seconda categoria, ovvero i fattori esterni, possiamo raccogliere altri aspetti come: la difficoltà ad interagire con le altre PA coinvolte nel cambiamento, l’assenza di regole tecniche oppure la mancanza di chiarezza delle stesse, l’inadeguatezza di documenti programmatici sull’innovazione in grado di definire scadenze e responsabilità. Chi si occupa ed opera quotidianamente nel campo dell’innovazione della pubblica amministrazione si ritroverà quasi sempre a dover affrontare contemporaneamente entrambe queste tipologie di fattori, anche se è ragionevole attendersi che vengano in primis appianate le criticità interne che ostacolano il processo di digitalizzazione, per evitare che i fattori esterni possano diventare un pretesto per non avviare affatto tale processo di reingegnerizzazione. Tale cambiamento, in conclusione, può essere attuato solo con un coordinamento interistituzionale tra i diversi livelli di governo, tra i fattori interni e quelli esterni. Prima ancora di proporre soluzioni operative e adottare nuovi strumenti e tecnologie è essenziale definire le politiche di gestione dell’innovazione, dunque interrogarsi sulle competenze, sui nuovi modelli organizzativi e sui processi decisionali”.