È stata chiamata pomposamente in tanti modi: Carta dei diritti di Internet, Magna Charta dell’Internet, Bill of Rights, Costituzione dell’Italia Digitale e di essa è stato detto che una Dichiarazione dei diritti di Internet è strumento indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale. Alla fine l’elefante ha partorito un inutile topolino: l’attuale “Dichiarazione dei diritti in Internet”, disponibile oggi nella sua versione definitiva, dopo che una Commissione di studio sui diritti e i doveri relativi a Internet, istituita il 28 luglio 2014, ha proceduto a una serie di audizioni di associazioni, esperti e soggetti istituzionali, oltre che a una consultazione pubblica durata “addirittura” cinque mesi.
Una splendida mescolanza tra istituzione e privato – forse dovuta a motivi tecnici irrisolvibili, come ha recentemente sottolineato Massimo Melica.
Provo a spiegarvi i cinque fondamentali motivi per i quali, a mio avviso, questo lavoro dal carattere più o meno scientifico non solo è profondamente inutile, ma rischia di rivelarsi persino dannoso, considerando la situazione in cui versa il nostro Paese dal punto di vista normativo e digitale:
1) Non siamo un Paese di common law e per adesso siamo lontani dal diventarlo. Pensare che sia utile oggi consegnare al Parlamento (considerando anche cosa esso è diventato) un documento di indirizzo che dovrebbe orientarlo nelle scelte legislative future mi sembra semplicemente una barzelletta!
2) Il nostro Paese si è caratterizzato in questi ultimi anni per un caotico stato di ipertrofia legislativa che ha generato un’accozzaglia di norme ordinarie e tecniche in materia di digitale: si pensa davvero di poter risolvere tutto con una dichiarazione di principi generalissimi sui quali si è più o meno tutti d’accordo da anni? È quasi come pensare che si possa risanare una brodaglia puzzolente aggiungendoci un pizzico di paprika.
3) Nel nostro Paese la maggior parte dei principi generalissimi elencati in questa inutile Dichiarazione sono già abbondantemente presenti e richiamati in diverse normative ordinarie. Mi sembra paradossale come ancora oggi non ci si renda conto che l’Italia è comunque all’avanguardia nella regolamentazione di queste materie: non è certo necessario ricordare al nostro legislatore quali sono i principi generali ai quali uniformarsi (come invece servirebbe ancora oggi in alcuni Stati europei o non europei), ma invece fare ordine, con il bisturi del chirurgo, all’interno di un sistema normativo che oggi è saturo, debordante, caotico e contraddittorio. Aggiungere qualcosa che vorrebbe essere quello che non è (e, cioè, una Costituzione) rischia di generare una ulteriore superfetazione.
4) Inoltre, ribadire oggi in modo altisonante e retorico principi che nella maggior parte dei casi costituiscono diritti già presenti nel nostro ordinamento, sottolineando più volte che – come riportato nella Carta – non sono cogenti e che tale documento è, quindi, solo e soltanto una “autorevole guida” per il legislatore che verrà, rischia di far dimenticare ai tanti svogliati lettori che invece molti di quei diritti esistono già e sarebbero addirittura, in molti casi, esercitabili giudizialmente.
5) Alla radice dell’inutilità di questa Dichiarazione c’è la considerazione che il concetto di regolamentare l’Internet come se fosse un luogo è proprio sbagliato. Internet è e rimane uno strumento, pur incredibile che sia. Come giustamente ricordato da Daniele Minotti: Internet non è un luogo, ma un mezzo, come lo sono il telefono, il fax, financo il piccione viaggiatore che ho voluto, provocatoriamente, sostituire ai termini “Internet” e “Rete”[1]. È un po’ come pretendere di regolamentare il diritto di un trapano o di un ventilatore. Oggetti utilissimi e che democraticamente tutti dovrebbero possedere in casa (soprattutto il ventilatore, con queste temperature…), ma ciò non significa che dobbiamo ritenere giustificata l’istituzione di un complesso consesso di autorevoli studiosi che oggi presentano alla nostra attenzione questa, lo ripeto ancora, inutile Carta di diritti[2].
Se questa Dichiarazione è profondamente inutile, sono invece altrettanti mesi che si annuncia in Italia una mirabolante Riforma per la pubblica amministrazione che sembra ormai essere vicina al traguardo. Per quanto riguarda gli aspetti legati ai benefici per il cittadino digitale, la Riforma prevede l’istituzione della carta della cittadinanza digitale che, legandosi alla normazione del FOIA (Freedom Information of Act), ribadisce il diritto di tutti i cittadini di accedere, anche via web, ai dati e ai documenti della PA[3]. In particolare, all’art. 1, comma 1 del DDL si legge che al fine di garantire ai cittadini e alle imprese, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il diritto di accedere a tutti i dati, i documenti e i servizi di loro interesse in modalità digitale, nonché al fine di garantire la semplificazione nell’accesso ai servizi alla persona, riducendo la necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici, il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con invarianza delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, uno o più decreti legislativi volti a modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione, il codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, di seguito denominato «CAD».
L’incipit di questo articolo ribadisce, ancora una volta, una serie di concetti già espressi in altri decreti, come il diritto di accesso civico, normato dal Decreto Trasparenza, e il diritto all’utilizzo delle nuove tecnologie, normato dal CAD. Ma quello che dovrebbe far riflettere, a parte l’ovvietà che ormai contraddistingue tutta l’ipertrofica e recente attività normativa in materia di digitale nel nostro Paese, è la pretesa di garantire una rivoluzione digitale, ma sempre assicurando “l’invarianza delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”!
In verità nel nostro Paese ci sarebbe estremo bisogno di formazione e alfabetizzazione in materia di digitalizzazione per imprese, PA, professionisti e cittadini. Ma come si può oggi anche solo immaginare di realizzare questa rivoluzione se, leggendo tra le righe di ogni norma, non si vuole investire neppure un euro per sviluppare un’Italia che respiri davvero digitale?
[1] Ecco la Costituzione dei Diritti del piccione viaggiatore immaginata dal Collega Daniele Minotti:
1.RICONOSCIMENTO E GARANZIA DEI DIRITTI
Sono garantiti in “piccione viaggiatore” i diritti fondamentali di ogni persona riconosciuti dai documenti internazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalle costituzioni e dalle leggi.
Tali diritti devono essere interpretati in modo da assicurarne l’effettività nella dimensione del “piccione viaggiatore”.
Il riconoscimento dei diritti in “piccione viaggiatore” deve essere fondato sul pieno rispetto della dignità, della libertà, dell’eguaglianza e della diversità di ogni persona, che costituiscono i principi in base ai quali si effettua il bilanciamento con altri diritti.
[2] L’attuale documento ha perso inoltre lo stesso spirito del progetto originario portato avanti da Stefano Rodotà, il quale – per quanto utopico – puntava a coinvolgere l’intera comunità internazionale.
[3] Questa sembra potersi già considerare come un’iniziativa “manifesto”, per la quale peraltro si sottovaluta il necessario bilanciamento con il diritto dei singoli alla tutela della riservatezza dei dati personali.