Legge di stabilità

Che fare, dopo il taglio di 3 miliardi alla spesa digitale PA

Una brutta sorpresa nella Legge di Stabilità: taglio indiscriminato del 50% alla spesa informatica della PA e della Sanità italiana.
Un provvedimento da modificare: non fa bene al mercato, ma non fa niente bene soprattutto alla PA. La riforma Madia rischia di passare dal “digital first” al “digital chi?”. Che fare, quindi?

Pubblicato il 28 Ott 2015

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Sorprende, e non poco, leggere provvedimenti quali quello inserito in Legge di Stabilità 2016 all’articolo 29: taglio indiscriminato del 50% a tutta la spesa informatica della PA e della Sanità italiana, per un volume complessivo pari a quasi 3 miliardi di Euro se si considera una spesa IT media annua (nel triennio 2013-15) pari a poco meno di 6 miliardi IVA esclusa, riferita ai soli costi per acquisti di beni e servizi di PA centrale, Regioni, PA locale e Sanità.


Sorprende in quanto il Governo che propone questa norma è lo stesso Governo che a più riprese elogia le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni come leva strategica per il riefficientamento della pubblica amministrazione. Lo stesso Presidente del Consiglio, qualche giorno fa da Santiago del Cile, ha avuto modo di spiegarci come la lotta all’evasione fiscale passa attraverso i big data e la capacità di incrociare velocemente informazioni detenute nelle varie banche dati della PA.
E tutti abbiamo fatto sì con la testa, pensando: “ha ragione!”.

E allora perché, questo famigerato articolo 29?
Per meglio dire: perché, questo obiettivo di riduzione indiscriminata della spesa IT della PA e della Sanità?
Avrebbe senso se fossimo tutti quanti sicuri del fatto che la spesa attuale è sovradimensionata, che tutti i fornitori attuali navigano nell’oro di abbondanti e lucrosissime commesse pubbliche.
Ma sappiamo bene che non è così nella stragrande maggioranza dei casi.
Da almeno 6-7 anni la spesa IT di PA e Sanità ha subito contrazioni notevoli sotto la mannaia delle varie spending review e che il grosso delle gare si aggiudica al massimo ribasso.
Per tanto che possa fare la Consip, sarà difficile immaginare che possa ottenere uno sconto del 50% a quantità e qualità invariate di beni e servizi acquistati.

Da più parti, in questi giorni, si è detto che la norma ha effetto solo sui progetti nuovi, sulla spesa in conto capitale. Peccato che il testo approdato in Parlamento non dica questo ma si riferisca a tutta la spesa informatica pubblica posta all’interno del perimetro delle amministrazioni e società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione e che l’obiettivo del risparmio del 50% sia riferito alla “spesa annuale complessiva media relativa al triennio 2013-15 nel settore informatico”.
Spesa corrente compresa, quindi.
E qui proprio non ci siamo.
Non ci siamo lato domanda, in quanto le amministrazioni pubbliche da anni lamentano esiguità di risorse a fronte di un incremento delle necessità di tenersi al passo con un mondo che inevitabilmente si fa ogni giorno sempre più digitale.
Non ci siamo lato offerta, perché una “botta” da quasi 3 miliardi di Euro certamente non aiuta un settore sufficientemente “torturato” fra revisioni unilaterali dei budget, gare al massimo ribasso e dilatazioni dei tempi di pagamento.
Non ci siamo lato erario, perché un taglio di 3 miliardi su un mercato come quello della PA dove l’IVA è un costo significa 660 milioni di mancato introito.
Non ci siamo, soprattutto, lato Palazzo Chigi: perché una norma siffatta stride clamorosamente rispetto a un Governo che si dice “amico del digitale”.
La Consip e le centrali regionali d’acquisto, per quanti miracoli possano riuscire a fare, non potranno mai garantire quantità e qualità invariate di beni e servizi acquistati a fronte di un taglio di spesa del 50%. E quindi si faranno meno cose, inevitabilmente.

Che fare, quindi?
Possiamo immaginare di mantenere invariato il comma 1, confermando l’obbligatorietà del ricorso a Consip e/o agli altri aggregatori della domanda (comprese le centrali d’acquisto regionali): si tratta di una norma ragionevole, i cui obiettivi sono evidenti e ampiamente condivisibili.
Le cose si fanno più complicate al comma 2: se gli effetti della legge di stabilità devono valere a partire dall’esercizio 2016, l’AgID avrebbe due mesi di tempo per “portarsi a casa” una mole di dati riguardanti i prezzi standard di beni e servizi IT anche in ambiti sinora praticamente inesplorati come la Sanità e il mercato del software e servizi per gli enti locali.
E veniamo al comma 3. Qui l’obiettivo è davvero irraggiungibile: pensare di tagliare del 50% i budget senza incidere sulla quantità e qualità dei beni e servizi acquistati è un’esercitazione di pura fantasia. Il mercato non è in grado di reggere uno “sconto” del 50%, senza se e senza ma.
Peraltro, non è neppure ragionevole ipotizzare una diminuzione di quantità (e peggio ancora, di qualità) dei beni e servizi acquistati: andremmo contro a ognuna delle singole parole che compongono il “Piano Crescita Digitale” e che costituiscono parte qualificante del programma di Governo.
Ci sono contesti come la Giustizia e la Sanità dove paradossalmente (ma neppure poi troppo) c’è bisogno di nuovi importanti investimenti finalizzati alla razionalizzazione: tagliare “informatica” significa ridurre la capacità di incidere sul resto (infinitamente più grosso) della “cattiva spesa”.
La stessa lotta “infotelematica” all’evasione fiscale, abbondantemente annunciata dal Presidente del Consiglio, rischia di venire affossata da tagli ai quali – se abbiamo letto bene l’art. 29 – è assoggettata la stessa SOGEI.
L’intera riforma Madia, che giustamente parte con l’enunciazione di una PA “digital first”, rischia di non avere scarpe per camminare e di trasformarsi in un “digital chi?”.

E torniamo al problema di sempre: quello che manca, è un piano.
Un “vero” piano.
Una visione del Paese nella sua trasformazione digitale. Come e quanto vogliamo che si trasformi la PA e la sanità in questo Paese?
Quanto vogliamo renderla più efficiente ed efficace, anche utilizzando l’ICT come leva strategica per il cambiamento?
Quanto pensiamo sia possibile incidere sui bilanci di Stato, Regioni e Autonomie Locali attraverso questa razionalizzazione? Quante risorse sono necessarie per farlo? Soprattutto: sono possibili modelli di partenariato pubblico-privato che possano innescare circuiti virtuosi di investimenti alimentando un fondo rotativo per l’innovazione tecnologica?

Un “vero” piano. Una “vera” spending review. E qui l’appello si fa diretto al Presidente del Consiglio: ci ripensi, Presidente.
Si faccia spiegare bene dagli addetti ai lavori come stanno veramente le cose nell’informatica pubblica, non caschi anche lei nella trappola del “è tutto un magna-magna”.
Ammesso che lo sia stato un tempo, adesso non lo è più.

Fare il fornitore di IT alla PA e alla Sanità italiana è un’esercitazione ai limiti dell’eroismo: gare al massimo ribasso, pagamenti a babbo morto, difesa a spada tratta dell’orticello da parte dei soliti noti.

Diamoci tempi un tantinello più lunghi, cercando di “aggredire” l’esercizio finanziario 2017.
Il 2016 dedichiamolo a fare un piano serio: le persone capaci di farlo non le mancano, a Palazzo Chigi.
L’hashtag è #primaunpianopoiitagli.
L’alternativa è il disastro, mi creda.

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