In un recente articolo pubblicato sul sito www.voxeu.org tre economisti della Commissione Europea, gli stessi impegnati a valutare la nostra legge di stabilità, hanno riproposto un tema che, nel dibattito nazionale sulla politica economica, è spesso negletto: la sfida della produttività.
Una sfida che il nostro Paese sta clamorosamente perdendo.
È un fatto che nel nostro Paese la crescita della produttività totale dei fattori – una misura del progresso tecnico e dei miglioramenti nella conoscenza e nei processi produttivi – è in stagnazione dalla seconda metà degli anni ’90. Anzi sarebbe piu’ corretto dire che è in lenta quanto inesorabile regressione (-0,3% medio annuo nel periodo 1995-2014), mentre ha continuato a progredire nei Paesi europei a noi più vicini, come Francia e Germania. Ormai il divario con i maggiori competitor europei si è progressivamente allargato, e ha raggiunto i 15 punti percentuali.
Nella misura raggiunta da questa distanza sta tutta l’esigenza e l’urgenza di dare continuità al sentiero riformista, aggredendo i fattori strutturali che impediscono alla nostra produttività di crescere. Quelli prioritari sono tre:
Crescita dimensionale del sistema imprenditoriale. La produttività è particolarmente deludente nel vastissimo mondo della micro e piccola impresa ed è proprio qui che si annida la principale causa del ritardo. Imprese più grandi possono infatti sfruttare le economie di scala e investire in fattori abilitanti quali innovazione e organizzazione aziendale. Imprese più grandi possono poi collocarsi sui segmenti di mercato e di prodotto a maggiore valore aggiunto ed emanciparsi da posizioni di svantaggio nelle catene di fornitura e subfornitura. In Italia al crescere della dimensione d’impresa la produttività migliora a tal punto che, on average, la media impresa italiana è persino più produttiva di una media impresa tedesca o francese.
Inefficiente allocazione del capitale finanziario. Finché il sistema di intermediazione finanziaria continuerà a considerare il credito come una merce indifferenziata, da offrire sempre e comunque a buon mercato, l’allocazione del credito rimarrà sub ottimale e influirà negativamente sulla produttività del capitale producendo inefficienze di varia natura: i) un ciclico costituirsi di un’importante mole di sofferenze bancarie (l’Italia detiene oltre 1/3 delle sofferenze bancarie dell’Area Euro), ii) un mercato aperto dei capitali che non trova spazi di sviluppo, iii) imprese che rimangono strutturalmente sotto patrimonializzate e quindi piccole. Senza un’efficiente allocazione del capitale gli investimenti più produttivi rischiano di non essere finanziati. In particolare nel nostro Paese si è investito troppo in capannoni e capacità produttiva (oggi inutilizzata) e troppo poco in ricerca, innovazione e capitale IT. Il ritorno sul capitale rimane strutturalmente basso e poco competitivo. In questo modo il risparmio nazionale trova modestissime ragioni di impiego sull’economia reale del nostro Paese. E viene in larghissima parte concentrato su allocazioni poco rischiose e spesso fiscalmente avvantaggiate, come titoli di stato e buoni postali, o “esportato” andando a finanziare le economie di altri Paesi.
Ritardi nella digitalizzazione del sistema produttivo. Nel nostro Paese il gap di produttività è anche spiegato da un bassissimo investimento in capitale IT. Le tecnologie ICT, abilitando una migliore combinazione dei fattori produttivi, possono fortemente accrescere la produttività totale dei fattori. Le tecnologie e le infrastrutture digitali – grazie a una maggiore capacità di interconnettere e far cooperare le risorse produttive (macchinari e persone ma sempre di più anche dati e informazioni), sia all’interno dei luoghi di produzione, sia lungo l’intera catena di fornitura e di creazione del valore – stanno prepotentemente cambiando non solo il modo di fare impresa e di organizzare il lavoro, consentendo una gestione in real time del processo produttivo, ma stanno anche rivoluzionando i modelli di business, in taluni casi in modo inaspettato e dirompente. Nella prospettiva dell’industria 4.0 tende a essere superata la tradizionale divisione fra prodotto e servizio, come quella fra processo di produzione e fase di commercializzazione e distribuzione del prodotto/servizio. La rivoluzione digitale del manifatturiero costituisce una imperdibile occasione per recuperare efficienza e produttività e per far scalare alle nostre imprese – anche di piccola dimensione – importanti posizioni strategiche lungo le catene internazionali del valore.
Su questi tre fronti dovrebbe concentrarsi l’agenda economica di un Governo interessato a un’azione di politica industriale che abbia come obiettivo primario il recupero di produttività.
Che cosa si sta facendo?
Nella legge di stabilità è stata introdotta una norma che consente un più veloce ammortamento delle sopravvenienze da aggregazione e fusione fra aziende. È un primo passo per aiutare le aggregazioni e la crescita dimensionale, tuttavia ancora moltissimo occorre fare per rendere il “piccolo” un luogo meno protetto, dove tanti imprenditori possono ancora permettersi di scaricare inefficienze e ritardi competitivi. Occorre un vero e proprio “ribaltamento” dei tanti incentivi che oggi spingono il sistema a rimanere piccolo per liberarne il potenziale di crescita. Soprattutto molto occorre fare per consolidare le nostre principali filiere produttive, a partire da un necessario rafforzamento dei capi-filiera e delle aziende pivot (ovvero quelle che fanno da riferimento di più filiere). Una novità importante che si muove proprio nella direzione della costruzione di una vera e propria finanza di filiera è data dal nuovo piano industriale di CDP, a cui occorre dare veloce execution.
Sul fronte della modernizzazione del nostro sistema finanziario molto, va riconosciuto, si è cercato di fare. Dal provvedimento coraggioso sulle banche popolari che ha rottamato un sistema di incestuoso rapporto banca-impresa – senza tuttavia ancora produrre le aggregazioni sperate – alle iniziative di liberalizzazione dei canali non bancari di finanziamento alle imprese. Tuttavia il nostro sistema bancario, dopo gli inascoltati richiami post stress test della BCE, continua a essere in ritardo: poche ricapitalizzazioni e molti “collocamenti” di obbligazioni subordinate (la banche italiane ne hanno collocate per 70 miliardi di euro), pochi processi di aggregazione e ristrutturazione e ancora troppo credito a basso prezzo. A ciò si aggiunga l’incapacità di mettere a frutto l’ingente risparmio nazionale canalizzandolo su opportunità di impiego sulla nostra economia reale. Un’azione maggiormente incisiva e meno retoricamente rassicurante da parte delle autorità di vigilanza sarebbe auspicabile per uscire dall’immobilismo e rendere piu’ produttivo il nostro capitale.
Per cogliere la prime opportunità della trasformazione digitale del nostro manifatturiero, nei prossimi 5 anni, saranno necessari almeno 10 miliardi di euro di investimenti annui aggiuntivi. In teoria non sono tantissimi ma, visto il vero e proprio sciopero degli investimenti che ha caratterizzato e sembra continuare a caratterizzare il recente passato e il presente del nostro Paese, in realtà costituiscono una cifra davvero sfidante. A questi vanno aggiunti gli investimenti per accelerare l’infrastrutturazione a banda ultra larga nelle aree a maggior intensità industriale, una copertura che rimane ad oggi ancora estremamente lacunosa e su cui occorre concentrare gli interventi anche in chiave pubblico privata. Un ruolo cruciale dovrà essere svolto dai capi-filiera e da quelle aziende pivot che possono utilizzare le tecnologie digitali e muovere gli investimenti per integrare e consolidare le filiere di riferimento, riportando a nuova vita competitiva catene di fornitura e subfornitura oggi estremamente frammentate e poco propense a lavorare in un’ottica 4.0 ovvero integrata e cooperativa.
Su questi temi, il prossimo febbraio, il Ministero della sviluppo economico chiamerà a raccolta i principali attori del nostro sistema industriale. L’obiettivo e’ costruire una visione e una strategia condivisa di politica industriale in cui manifattura, finanza e tecnologie digitali possano trovare ragioni per lavorare insieme al rilancio della nostra produttività.