Mentre stanno piovendo emendamenti bipartisan all’art.29 della legge di stabilità: “Razionalizzazione dei processi di approvvigionamento di beni e servizi in materia informatica nelle pubbliche amministrazioni”, credo sia utile fare un passo indietro e capire meglio lo spirito centralista di questo Governo, nonché l’impatto che ciò avrà sulla digitalizzazione del paese.
Premetto che non credo sia possibile fare innovazione senza investimenti e dunque anche la spesa, se non fine a se stessa, spesso giustifica una giusta attenzione al cambiamento.
Infatti sarebbe difficile, e al tempo stesso azzardato, immaginare un cambiamento nel campo dell’innovazione digitale senza l’adozione di nuovi strumenti, applicazioni e servizi. Inoltre va sottolineato che anche il cambiamento di processo ha un costo: formazione, riorganizzazione, dismissione, ecc.
Detto questo però dovremmo avere la capacità di guardarci indietro e di guardare a come ci guardano, ci misurano e ci giudicano gli altri in questo particolare settore. E’ indubbio che negli ultimi vent’anni il settore della Pubblica Amministrazione ha speso cifre enormi per rimodellarsi in funzione alle esigenze di cittadini e imprese. Si son spese non solo parole (leggasi leggi e regolamenti) ma soprattutto si son spesi denari pubblici per ammodernare una macchina tecnologica vecchia e spesso sgangherata.
Provate a chiedere ai cittadini e alle imprese cosa pensano dei servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione. O provate a chiederlo all’Europa, che ci misura con indicatori di efficacia ben precisi, cosa pensa dei nostri servizi e della loro efficacia.
Se questa sensazione di inefficienza è così trasversale, non è forse giunto il momento di ripensare anche agli investimenti e soprattutto a come vengono gestiti?
La grande autonomia richiesta a gran voce da Regioni, Comuni, e poi ASl, nonchè Camere di Commercio ed altre agenzie o istituzioni pubbliche cosa ha generato?
Innanzitutto ha generato un’autonomia nel sistema del procurement pubblico a cui il comma 1 dell’art. 29 cerca di porre rimedio. E’ indubbio infatti che l’autonomia di spesa non sempre è sinonimo di risparmio, mentre una centrale di committenza unica per alcuni settori (penso alla sanità) e un ricorso obbligatorio ad aggregatori della domanda come Consip (gestiti dallo stato) potrebbe determinare forti economie.
E’ indubbio anche che l’autonomia ha generato un ricorso (dunque acquisto e/o affidamento) a tecnologie magari anche economiche ma spesso non coerenti con gli standard e qualche volta preludio al ‘locking tecnologico’ che spesso le ha rese molto inefficaci e dispendiose nel tempo.
Basti pensare a quante carte servizi (con o senza chip) son state rilasciate negli anni e che ora siam costretti (spendendo nuovamente) a far dialogare fra di loro.
Vogliamo poi parlare della razionalizzazione dei Data Center o della dismissione di alcuni di essi per incompatibilità con gli standard e/o incapacità ad interoperare?
Certo direte, ma il comma 3 del famigerato articolo indica un generico 50% di contenimento della spesa ICT che va interpretato come taglio lineare a prescindere e questo non è mai un bene perchè magari colpisce anche le formichine a dispetto di chi ha gettato alle ortiche milioni di euro con inHouse tecnologiche in perdita o appalti che si son dimostrati solo una voragine.
Certo è che da un punto di vista generale è comunque difficile fare i virtuosi quando non viene posto un freno generale alla spesa. E questo a prescindere che si tratti di ICT o altro settore. Cotarelli insegna.
Ma tornando a questa classe politica e a questo governo è indubbio che si stia cercando di riequilibrare le forze e riportarle al centro del sistema. Fra l’altro anche la riforma dell’art. 117 della costituzione voluta da Quintarelli, e votata a unanimità da tutti i gruppi parlamentari va in questo senso. Nell’articolo 117 sono stati aggiunti tre termini fondamentali come: processi, infrastrutture e piattaforme informatiche, che di fatto passano in gestione esclusiva allo Stato.
Se dunque lo Stato le dovrà gestire in forma esclusiva dovrà anche essere il primo a preoccuparsene, con la propria legge di stabilità, affinchè che non ci siano sprechi dovuti a cattiva gestione.
Dunque, per tranquillizzare tutti quelli che si stanno strappando i capelli considerando l’art. 29 un colpo al mercato ICT, allo sviluppo e all’occupazione del settore, provo a indicare una strada alternativa, quella del buon uso dei Fondi Strutturali Europei.
Chi un po’ pratica questo ambito sa benissimo che obbiettivo specifico di gran parte degli assi d’intervento contenuti nei Piani Operativi Nazionali e Regionali in ambito di digitalizzazione e innovazione, è l’aumento della domanda di TIC. Che significa semplicemente: ‘fate in modo che gli investimenti in digitale non siano fini a se stessi e alla cosmetica della PA (rifacciamo per l’ennesima vota un nuovo sistema informatico per riuscire a fare le cose che mai siamo riusciti a fare nel passato), ma che possano favorire la domanda di tecnologie e servizi da parte dei cittadini e delle aziende‘. Insomma la PA come acceleratore di crescita e non come generatore di spesa per il suo stesso funzionamento.
E qui mi ricollego a quanto ho scritto alcuni giorni fa, proprio su questa rivista, in ottica Digital Single Market e auspicabile passo indietro della PA: la PA non deve fare Information and Communication Technologies, quello lo deve fare il mercato. La PA dovrebbe stimolare la generazione di standard e modelli in luoghi esterni alla Pubblica Amministrazione e poi adottarli incondizionatamente.
Questa è anche la forza della consumerization dell’IT che trascina il mercato, l’acquisto di beni e servizi digitali e che nessun art. 29 la potrà mai intaccare o indebolire sia che venga confermato piuttosto che emendato o indebolito.