Naturale conseguenza di un percorso iniziato nel febbraio 2013 con la prima edizione italiana dell’International Open Data Day, la costituzione dell’Istituto Italiano Open Data, avvenuta a maggio, da parte di associazioni, imprese private e aziende pubbliche, è un passo importante per lo sviluppo di quest’area dalle grandi potenzialità in diversi settori, dalla trasparenza delle pubbliche amministrazioni all’efficienza dei processi pubblici al mercato del digitale.
Alcune brevi riflessioni su questi fronti possono aiutare a comprendere quando sia urgente ridare spinta ad una strategia che era stata avviata nel 2012 con il decreto Crescita 2.0, ma che non ha proceduto con la necessaria forza e rapidità.
Trasparenza ed efficienza
Open Data è spesso utilizzato come sinonimo di dati accessibili in una logica di piena trasparenza, in qualche modo limitandone la portata. Anche nei punti enunciati dal governo per la riforma della PA, che pur mette in evidenza l’importanza dell’apertura dei dati, una sezione è dedicata a “Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione e digitalizzazione dei servizi” e non “Gli Open Data come strumento di trasparenza, semplificazione e digitalizzazione dei servizi”. Eppure è proprio così, come diverse risposte dei dipendenti pubblici hanno rilevato: realizzare la produzione di dati in formato aperto è sostenibile economicamente nel tempo soltanto se si passa attraverso una profonda revisione dei processi e quindi anche delle soluzioni per la loro digitalizzazione. In questo senso, l’intervento sugli open data non può che correlarsi con azioni atte a migliorare interoperabilità ed efficienza della digitalizzazione dei processi organizzativi, sfruttando al contempo i feedback dagli utilizzatori dei dati per migliorarne la qualità (e, di conseguenza, rivedendo e migliorando la qualità dei processi). Per la pubblica amministrazione, l’efficienza va coniugata a monte con gli interventi sulla trasparenza, non ricercata a valle. E trasparenza, oggi, vuol dire soprattutto Open Data.
Come deriva dalle riflessioni di Gianluigi Cogo, infatti, la pubblicazione di documenti in formato PDF (o, peggio, immagine) determina una situazione in cui diventa praticamente impossibile per i cittadini andare “oltre” il documento, passando ad un’analisi dei dati contenuti, incrociati con altri dati o provenienti da altre amministrazioni. Ed è lo stesso principio di “trasparenza” che rischia di venir meno. Allo stesso modo diventa impedimento la disponibilità parziale dei dati (come ad esempio l’informazione sui beneficiari delle spese pubbliche, quasi mai presente).
Purtroppo, nonostante il principio dell’Open Data by default sia stato introdotto per legge (sempre nel decreto Crescita 2.0 del 2012), il livello di attuazione è ancora estremamente basso e molto lasciato alla buona volontà della singola amministrazione. Nei termini esposti dall’AgID, il rapporto sullo stato di valorizzazione del patrimonio pubblico rispetto alla pubblicazione dei dati in formato aperto “evidenzia come in termini di qualità e di riutilizzo/valore economico la situazione italiana sia molto frammentata con poche realtà virtuose e tante ancora molto lontane dal raggiungimento di tali obiettivi”.
L’opportunità per le imprese
Siamo certamente nell’epoca dei dati, in cui è fondamentale la capacità di gestirli e di analizzarli per prendere decisioni (da quelle quotidiane e operative a quelle strategiche). Gli open data possono rappresentare, in questo contesto, una formidabile materia prima per lo sviluppo.
Non è un caso che McKinsey abbia stimato in 3 trilioni di dollari l’anno il business che può essere sviluppato sugli open data, di cui ben 900 miliardi di dollari nella sola Europa, dove si può stimare un tasso di crescita annuo del 7%. In particolare i dati geospaziali possono svolgere un ruolo fondamentale (la stima per il Regno Unito è di 13 milioni di sterline l’anno per il 2016), ma anche i dati meteo aperti possono supportare lo sviluppo di un business applicativo significativo, di almeno 1,5 miliardi di dollari negli USA. Se si considera anche l’indotto derivato dalla disponibilità di dati meteo più accurati, la stima basata sull’analisi di siti come Weather.com è di circa 15 miliardi di dollari tra prodotti e servizi.
L’effervescenza del mercato già inizia a essere consistente, dove si è operata una spinta strategica significativa. Ma nonostante lo sviluppo sia rilevante (dal 2009 al 2013 le iniziative sugli open data a livello internazionale sono passate da 2 a oltre 300) c’è ancora molta strada da fare. Alcuni esempi:
- sono poco più di 40 i Paesi che si sono dotati di portali Open Data;
- dei 77 paesi analizzati dall’Open Data Barometer, solo il 55% ha qualche iniziativa di Open Government Data;
- solo il 7% dei dataset presenti nel sito statunitense data.gov è sia “leggibile da macchina” sia sotto licenza aperta.
In Europa i Paesi più attivi sono Regno Unito, Svezia e Norvegia, mentre oltre oceano sono gli Stati Uniti ad avere intrapreso con decisione la strada dello sviluppo del business con gli open data. E per far questo, la strategia scelta passa attraverso alcune iniziative chiave, come l’analisi di impatto realizzata nell’ambito di data.gov, con l’approfondimento del modello di business e delle soluzioni innovative applicate ai diversi campi dell’istruzione, dei trasporti, dell’energia, della finanza, dei prodotti di consumo, dei servizi in generale (con esempi come Porch.com nel campo delle costruzioni o iTriage nel settore della salute); o dell’iniziativa GovLab da parte dell’università di New York, che ha censito 500 aziende che utilizzano i dati aperti governativi in modo innovativo, per analizzarle e poter dare suggerimenti sui modelli più efficaci su questo tipo di business. In questo contesto è anche la recente costituzione dell’Istituto Open Data statunitense, ispirato sempre al riferimento internazionale principale, l’Open Data Institute (ODI) fondato da Tim Berners-Lee.
Ed è chiaro così che i benefici degli open data vanno oltre una maggiore trasparenza e una partecipazione civica rivitalizzata. “L’impatto degli open data è enorme” ha di recente affermato Erie Meyer, esponente dell’ Office of Science and Technology Policy del governo statunitense, “e, quanto più continuiamo a rendere i dati più facili da usare e condividere, quanto più le imprese possono battere sui dati in modi innovativi e farne beneficiare gli americani.”
E quindi, l’Istituto Italiano Open Data
Su questo solco è anche l’iniziativa dell’Istituto Italiano Open Data, ispirata anch’essa all’ODI, ma nata interamente in un ambito di associazioni e imprese e quindi con una maggiore propensione all’obiettivo dello sviluppo del business. L’Istituto, infatti, si configura come rete di associazioni, organizzazioni, enti, gruppi e persone singole, e vuole avere la duplice funzione di catalizzatore di energie e capacità e di raccordo tra i diversi protagonisti sugli open data, per favorire l’incontro tra domanda e offerta, lo scambio e la condivisione di pratiche, strumenti, tecnologie, la valorizzazione degli open data come opportunità di crescita economica.
Verso le organizzazioni governative, in primo luogo AgID e FormezPA, l’Istituto si propone come risorsa di supporto e confronto nella formazione delle politiche sugli open data e nella loro attuazione, oltre che per favorire l’incontro con le associazioni, le imprese, i cittadini.
Tante le attività che l’Istituto sta pianificando, dalla definizione delle modalità di collaborazione con organizzazioni pubbliche e centri di ricerca e universitari, ad iniziative di formazione e sensibilizzazione sul territorio, all’istituzione di un Osservatorio finalizzato a monitorare lo stato e la qualità di attuazione degli Open Data nella realtà italiana e fornire anche feedback e proposte agli organi istituzionali di riferimento (Comuni, Regioni, Governo ), sulla base delle esperienze già presenti di valutazione.
Seguendo la logica che deve informare tutte le iniziative di sviluppo e di crescita, soprattutto nelle politiche dell’innovazione: fare rete, mettendo a sistema le eccellenze che già ci sono, valorizzando le competenze già presenti, sfruttando l’enorme potenziale del riuso e della condivisione, è l’unica strategia possibile.