Ho cominciato ad analizzare le varie parti del decreto Crescita 2.0 relative alle startup e noto, a fianco agli aspetti positivi, alcune lacune e aspetti poco chiari. Definiamoli “bachi” del decreto. Vediamo di seguito. Questo è il primo dei miei interventi previsti, sul tema.
Le definizioni
Si nota per prima cosa che il decreto pone un perimetro molto preciso per identificare due categorie di operatori: le ‘startup innovative’ e gli ‘incubatori certificati’.
Le startup innovative devono essere: società di capitali (anche cooperative e le forme definite come ‘societas europea’) non quotate. La maggioranza del capitale deve essere detenuto da persone fisiche, devono operare principalmente in Italia, essere costituite da non più di quattro anni ed avere un valore della produzione inferiore ai 5 milioni di euro. Devono avere come oggetto sociale esclusivo lo sviluppo di prodotti innovativi e non devono nascere da fusioni, scissioni o cessioni di ramo d’azienda. Inoltre devono non aver distribuito utili e non possono distribuirne per continuare ad essere ‘startup innovative’.
Questo è un primo potenziale bug, anche concettuale. Il fatto di non produrre utili è normale in una startup ma perchè questo aspetto deve rientrare nelle definizioni? Una startup deve produrre utili, solo che inizialmente è difficile (ma non impossibile, anzi). Tanto per fare un esempio tra gli investimenti che seguiamo come dpixel, Seolab è stata in profitto sin dal primo anno, Sardex dal secondo, Crowdengineering dal secondo, Iubenda addirittura cash positive!
Queste startup non hanno distribuito utili, che sono stati reinvestiti nel business, quindi mantengono i requisiti di startup ma non potranno distribuirli se vorranno mantenerli. E’ una scelta opinabile, non tanto per il venture capital (che non punta sugli utili bensì sui capital gain), ma soprattutto in relazione al crowdfunding, dove invece gli utili potrebbero avere una funzione importantissima di remunerazione del risparmio. E’ così necessario questo requisito?
Oltre a questi requisiti, tutti obbligatori, la startup deve avere almeno uno di questi tre:
– spese di ricerca e sviluppo di almeno il 30% del minore tra ricavi e valore della produzione
– impiegare per il 30% Phd o ricercatori
– disporre di diritti di privativa industriale
Questi ultimi requisiti sono un vero bug, più preoccupante del tema degli utili. Premesso che ci sono oltre 3 milioni di giovani disoccupati e che una piccolissima parte di questi viene dalla ricerca o ha un dottorato; nelle startup Internet o ICT (la maggior parte oggi) non ci sono brevetti (il software non è brevettabile) e raramente ci sono Phd o ricercatori. Si, ci sono un sacco di costi di sviluppo prodotto all’inizio, ma quasi mai si capitalizzano. Risultato del requisito, le startup innovative cominceranno a capitalizzare costi per mantenere i requisiti.
Gli incubatori
Il decreto introduce una nuova categoria di oggetti: gli ‘incubatori certificati’. Si tratta di società di capitali, residenti in Italia che sono in grado di offrire servizi qualificati alle ‘startup innovative’. Anche qui per evitare di mettere in questa categorie operatori di qualunque tipo, si è scelto un mirino stretto.
L’incubatore certificato deve disporre di strutture (anche immobiliari) con spazi adeguati e dotazioni come accesso Internet, sale riunioni, attrezzature di prova e test. Già a questo punto mi chiedo di che cosa stiamo parlando esattamente… Ma proseguiamo: soprattutto l’incubatore deve essere amministrato da persone di riconosciuta competenza in materia di imprese innovative. Deve collaborare con Università, centri di ricerca e istituzioni pubbliche e deve avere adeguate competenze in tema di ‘startup innovative’.
Come nel caso delle startup, l’amministratore deve autocertificare i propri parametri, assumendosene la responsabilità legale e deve depositare l’autocertificazione presso le Camere di Commercio, che hanno il compito di istituire degli appositi registri per le ‘startup innovative’ e per gli ‘incubatori auto-certificati’. Tutti questi dati devono essere resi pubblici ed accessibili e devono essere aggiornati su base regolare.
Su questo punto vorrei fare un plauso al Governo. Che ha scelto un approccio anti-burocratico con l’autocertificazione, e soprattutto ha disposto la trasparenza ed accessibilità dei dati. L’importante è che poi le Camere di Commercio o chi per esse, si assicurino di fare dei controlli in modo che queste auto-dichiarazioni siano ogni tanto verificate.
Nel complesso l’idea è buona, nel senso che punta a razionalizzare il mondo degli incubatori che, come diversi studi hanno dimostrato, finora hanno determinato risultati quanto meno discutibili in Italia assorbendo risorse pubbliche molto significative. Il tema vero è però cos’è un’incubatore, a cosa serve e come misurarne l’efficacia e i risultati.
Nella stesura del Decreto si nota un concetto che privilegia l’idea di un incubatore come oggetto fisico in cui contano i metri quadri, le attrezzature e la quantità di sedie occupate più del successo di mercato delle startup supportate, l’efficienza ed efficacia del capitale investito ed il valore che viene concretamente generato dal programma. Colpisce ad esempio che tra i parametri non è stato inserito l’IRR degli investimenti e dei costi sostenuti. Inoltre non ci sono parametri che prendono in considerazione le failures. Insomma conta più la quantità che la qualità secondo questa impostazione.
Proposte di miglioramento potrebbero essere ad esempio di:
– bilanciare questi parametri inserendo concetti tipo l’IRR generato dagli investimenti effettuati dando un peso alla capital efficiency piuttosto che i costi infrastrutturali.
– mancano parametri di efficienza della spesa e degli investimenti: qual’è il costo dell’incubatore in relazione ai posti di lavoro complessivamente generati? Qual’è il ritorno (IRR) degli investimenti effettuati? Qual’è il tasso di successo ed insuccesso delle startup ospitate?
– ridurre il numero di parametri e focalizzarsi sui fondamentali (capitali raccolti, incremento occupazionale, costo per posto di lavoro generato, IRR degli investimenti ed exit generate).
Le stock option
Uno dei provvedimenti di pregio del Decreto è il trattamento fiscale dedicato alle opzioni di startup. In sintesi, all’articolo 27 infatti si dice che il reddito di lavoro derivante dall’assegnazione da parte di startup e incubatori certificati agli amministratori, dipendenti o collaboratori continuativi di strumenti finanziari nonchè di diritti di opzione non concorre alla formazione del reddito imponibile di tali soggetti sia a fini fiscali che contributivi a condizione che siano esercitati dai soggetti stessi.
Questa è una misura fondamentale per i fondatori di una startup, che finalmente ci rimette in linea con i competitor stranieri. Sull’utilità delle stock option ci sarebbe molto da chiarire, come faccio sul mio blog.
Nelle prossime puntate mi occuperò degli altri aspetti del decreto, a partire dal crowdfunding.