Gli avvenimenti politici verificatisi lo scorso gennaio negli Stati Uniti d’America e le draconiane “misure” adottate in seguito dalle più diffuse piattaforme social, che hanno chiuso definitivamente gli account dell’ormai ex presidente Donald Trump, hanno portato alla ribalta del pubblico confronto il tema della “libertà di parola” nei nuovi contesti digitali, tema fino a poco prima relegato al confronto scientifico di nicchia degli studiosi del diritto delle nuove tecnologie.
I principi alla base della libertà di manifestazione del pensiero nel contesto giornalistico
La libertà di manifestazione del pensiero – sancita nella Carta Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 10, nonché all’art. 21 della Costituzione italiana, e dal First Amendment negli U.S.A. – è concepita storicamente in contrapposizione ai rischi di repressione posti in essere dallo Stato o dal Governo nei confronti dei cittadini: ogni individuo può informare ed essere informato “senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera” (così art. 10 CEDU), essendo vietato al legislatore l’adozione di norme che “abridging the freedom of speech, or of the press” (così First Amendment) e, dunque, escludendo che la stampa possa essere assoggettata “ad autorizzazioni o censure” (così art. 21, Cost.).
Questi principi hanno consentito e permettono tutt’oggi che i giornalisti possano svolgere inchieste e, al contempo, che il pubblico riceva una informazione quanto più completa e imparziale possibile, rimettendo agli organi di stampa la verifica circa la veridicità delle informazioni raccolte e riportate. Tale controllo viene svolto in quanto detti organi – stampa, radio e tv, anche nelle versioni digitali “web” – sono destinatari di una specifica forma di responsabilità editoriale, tale per cui rispondono, sia sul piano penale che su quello civile, in caso di divulgazione di informazioni false o, comunque, esposte in modo diffamatorio. A fronte di tale responsabilità, che garantisce i terzi in caso di violazione della loro sfera individuale e morale, lo Stato non ha alcun potere di repressione e censura dell’attività giornalistica, prevalendo sempre il diritto di critica e di cronaca[2].
Cosa cambia al di fuori del contesto giornalistico
Come cambia tale rapporto tra libertà, informazione, verità e responsabilità al di fuori del contesto giornalistico?
Se si parla tra amici di avvenimenti più o meno pubblici o si condividono opinioni personali in un contesto fisico, ad esempio al bar, non viene in mente a nessuno che il proprietario del locale possa essere chiamato a intervenire nella discussione per i contenuti espressi dagli interessati, al più il barista potrà richiedere di moderare i toni allorquando questi arrechino disturbo agli altri clienti.
Social network e imbecilli: Umberto Eco dixit
L’esempio proposto non è casuale. Come ebbe a dire una volta Umberto Eco: “I social network sono un fenomeno positivo ma danno diritto di parola anche a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Ora questi imbecilli hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”. Il “diritto di parola” cui fa riferimento Umberto Eco è, ovviamente, da intendersi come il diritto del singolo che una platea indefinita di utenti possa conoscere e diffondere, commentare, esasperare le opinioni dette al bar o in contesti amicali, prima riservati e circoscritti. Prima dell’avvento dei social, infatti, i mass media tradizionali davano spazio agli esperti, come i Premi Nobel appunto, mentre dando i social pari modalità di diffusione dell’opinione a tutti gli iscritti ecco che “imbecilli” e “Premi Nobel” hanno pari capacità di raggiungere il pubblico, senza filtri.
Ma davvero può parlarsi di diritto ad avere un profilo sui socialda usare indiscriminatamente?
Le conseguenze delle offese sui social
La leggerezza e la dimensione più ludica delle interazioni che avvengono sui social, non deve far dimenticare che il fatto stesso di interagire e comunicare comporta sempre delle conseguenze sugli altri, essendo, peraltro, la fonte principale e assoluta di qualsiasi etica e di qualsiasi responsabilità.
Grazie a campagne sociali mirate, come #odiareticosta, e a interventi giurisprudenziali chiarificatori (da ultimo Cass. n. 3204/2021), è pacifico, anche se non per tutti, che un individuo che viene offeso tramite i social può trovare giustizia nelle aule dei tribunali. Gli autori di messaggi di odio, di messaggi diffamatori, rispondono in Tribunale delle offese. Ma cosa succede se la campagna comunicativa non si rivolge contro una specifica persona, bensì contro una idea, una tesi scientifica, una legge?
Cosa succede quando, su queste tematiche, da chiacchiere da bar, da sezione di partito o da ombrellone, si passa a discussioni aperte ai commenti di chiunque e che possono essere diffuse senza alcun limite? Se a chi chiacchiera al bar, nella sezione di un partito o sotto l’ombrellone venisse dato un immaginario megafono “globale”, che tipo di condotta si potrebbe ascrivere al proprietario del megafono.
La normativa applicabile ai social
Giova a questo punto considerare la normativa applicabile ai social.
I social network, come tutte le piattaforme, sono luoghi virtuali creati e gestiti da soggetti privati in cui tutti gli utenti possono scambiare opinioni e condividere informazioni. Il servizio social non è prestato, come noto, pro bono, poiché la piattaforma lucra sia sul traffico di dati[3] che sui contenuti pubblicitari veicolati tramite il servizio[4]. In quanto creati e gestiti da privati il comportamento sui social è disciplinato da norme pattizie, contrattuali, che espressamente escludono un controllo preventivo dei messaggi trasmessi da parte delle piattaforme, pur prevedendosi delle regole di condotta e dei sistemi di segnalazione di contenuti in caso di violazione delle già menzionate regole.
Se per l’efficacia comunicativa i social sono sempre più spesso assimilati ai media, non v’è alcun dubbio che da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico quello prestato si configuri come un servizio della società dell’informazione[5], in quanto prestato prevalentemente dietro retribuzione (latu sensu intesa), a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.
Le norme europee
A livello europeo questi servizi sono complessivamente disciplinati dalla direttiva 2000/31/CE, recepita in Italia con il d.lgs. n. 70/2003, che individua tre categorie di provider intermediari, segnatamente access, cache e host provider, escludendo in capo gli stessi qualsiasi obbligo di controllo preventivo o di filtraggio dei contenuti immessi sulla rete o ospitati nei relativi “spazi” aperti al pubblico. L’altra categoria elaborata nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quella dei content provider, che si differenzia da quelle appena richiamate perché, al contrario delle prime tre, il fornitore opera una selezione o una organizzazione dei contenuti ospitati nei propri server[6].
Tali categorie sono state, dunque, definite alla fine degli anni ’90, quando ancora internet era ben lontana dalla realtà totalizzante in cui viviamo, prima dell’avvento di quelle che oggi sono comunemente chiamate piattaforme; questa classificazione era, soprattutto, ben lontana da poter immaginare che soggetti privati assurgessero al ruolo di gate keeper di settori comunemente assoggettati al “controllo pubblico”.
Facendo ricorso alle categorie sopra descritte queste piattaforme sono solite auto-qualificarsi (e in tal senso depongono anche le condizioni contrattuali di accesso ai servizi) come meri host provider, dando esclusiva rilevanza alla “conservazione” dei messaggi nei server, ma senza considerare l’ormai sopravvenuta ancillarità di tale attività rispetto al servizio in concreto offerto. Sono, infatti, i servizi correlati a garantire il successo di una piattaforma rispetto alle concorrenti: Facebook si è affermato come social network in ragione degli algoritmi che consentono di gestire relazioni sociali, non perché permette di ospitare contenuti; parimenti, il successo di eBay non è legato alla possibilità di archiviare sui server foto associate ai messaggi di vendita, ma piuttosto per la capacità della piattaforma di agevolare l’incontro tra domanda e offerta.
Le differenze con la normativa Usa (e sue evoluzioni)
Tra le democrazie, gli Stati Uniti si distinguono per la loro fede che la libertà di parola è il diritto da cui derivano tutte le altre libertà. I paesi europei sono più inclini a combattere le menzogne destabilizzanti bilanciando la libertà di parola con altri diritti. Il nostro un approccio derivato dalla storia del fascismo e dalla memoria di come la propaganda, le bugie e il capro espiatorio delle minoranze possano portare al potere leader autoritari. Un certo numero di paesi in Europa trattano il nazismo come un male unico, rendendo un crimine negare l’Olocausto. Analogamente, in Canada, è un reato penale incitare pubblicamente all’odio “contro qualsiasi gruppo identificabile”. Il Sudafrica persegue le persone per aver pronunciato certi insulti razziali.
Negli Stati Uniti, leggi come queste sicuramente non sopravvivrebbero alla revisione della Corte Suprema, data l’attuale comprensione del Primo Emendamento. Una comprensione e interpretazione che si sono evoluti nel tempo.
- Il Primo Emendamento non ha impedito infatti all’amministrazione di John Adams di perseguire più di una dozzina di editori di giornali per diffamazione sediziosa o al socialista e leader sindacale Eugene V. Debs di essere condannato per sedizione per un discorso, davanti a una folla pacifica, contro il coinvolgimento nella prima guerra mondiale. Nel 1951, la Corte Suprema ha confermato le condanne dei leader del Partito Comunista per “aver cospirato” a sostenere il rovesciamento del governo, anche se le prove hanno dimostrato solo che si erano incontrati per discutere le loro convinzioni ideologiche.
- Fu solo negli anni ’60 che la Corte Suprema abbracciò stabilmente la visione del Primo Emendamento espressa, decenni prima, in un dissenso del giudice Oliver Wendell Holmes Jr: “Il bene ultimo desiderato è meglio raggiunto dal libero scambio di idee”. In Brandenburg contro l’Ohio, questo significava proteggere il discorso di un leader del Ku Klux Klan ad un raduno del 1964, stabilendo un alto livello di punizione delle parole infiammatorie. Brandenburg “protegge eccessivamente la libertà di parola da qualsiasi punto di vista logico”, sottolinea il professore di diritto dell’Università di Chicago Geoffrey R. Stone. “Ma la corte ha imparato dall’esperienza a guardarsi da un male peggiore: il governo che usa il suo potere per mettere a tacere i suoi nemici”. Il concetto di libertà di parola di quest’epoca differiva ancora da quello di oggi in un modo cruciale: La corte era disposta a fare pressione su entità private per garantire che permettessero a voci diverse di essere ascoltate. Come un altro professore di diritto dell’Università di Chicago, Genevieve Lakier, ha scritto in un articolo su Law Review l’anno scorso, un segno distintivo degli anni ’60 era la “sensibilità della corte alla minaccia che l’ineguaglianza economica, sociale e politica poneva” al dibattito pubblico. Come risultato, la corte a volte ha richiesto ai proprietari di proprietà private, come le emittenti televisive, di concedere l’accesso agli oratori che volevano tenere fuori.
- Ma la corte si è spostata di nuovo, dice Lakier, verso l’interpretazione del Primo Emendamento “come una concessione di libertà quasi totale” per i proprietari privati di decidere chi poteva parlare attraverso i loro punti vendita. Nel 1974, colpì una legge della Florida che richiedeva ai giornali che criticavano il carattere dei candidati politici di offrire loro lo spazio per rispondere. Il presidente della Corte Suprema Warren Burger, nella sua opinione per la maggioranza, ha riconosciuto che le barriere all’entrata nel mercato dei giornali significavano che questo metteva il potere di modellare l’opinione pubblica “in poche mani”. Ma a suo parere, c’era poco che il governo potesse fare al riguardo.
Non c’è consenso su un percorso da seguire, ma c’è un precedente per qualche intervento. Quando la radio e la televisione hanno radicalmente alterato il panorama dell’informazione, il Congresso ha approvato delle leggi per promuovere la concorrenza, il controllo locale e le trasmissioni pubbliche. Dagli anni ’30 fino agli anni ’80, chiunque avesse una licenza di trasmissione doveva operare nel “pubblico interesse” – e a partire dal 1949, ciò includeva esplicitamente l’esposizione del pubblico a più punti di vista nei dibattiti politici. La corte lasciava che i rami eletti bilanciassero i diritti della proprietà privata con il bene collettivo del pluralismo.
Questo modello ha coinciso con livelli relativamente alti di fiducia nei media e bassi livelli di polarizzazione politica. Questo accordo è stato raro nella storia americana. È difficile immaginare che vi si possa ritornare. Ma vale la pena ricordare che anche la radio e la TV hanno indotto paura e preoccupazione, e la democrazia si è adattata e ha prosperato.
Il ruolo pubblicistico dei social
Questa evoluzione, com’è noto, impatta molto sul destino delle big tech. Se, come sembra, le piattaforme social non sono host provider, può ritenersi che in forza del ruolo di gatekeeper siano soggetti a particolari disposizioni?
Questi non sono semplici host, ma non sono neanche media tradizionali, assoggettati al rispetto delle corrispondenti norme legate al concetto di responsabilità editoriale, pur svolgendo, di fatto, un ruolo con una rilevanza pubblica in parte assimilabile a quella dei media, proprio per la capacità diffusiva dei messaggi.
Tale rilevanza pubblica del servizio prestato è, peraltro, comprovata dalla scarsa sostituibilità dei servizi social considerato che Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, TikTok, non sono tra loro intercambiabili, caratterizzandosi ciascuno per una “tipologia comunicativa” peculiare e unica. Inoltre, spostarsi su piattaforme di più recente nascita, come Parler, non garantisce la possibilità di raggiungere lo stesso numero di destinatari dei messaggi.
Hate speech
D’altro canto, si osserva come, in generale, i social non sfuggono questo ruolo “pubblicistico”. In questo senso basta ricordare che, già nel maggio 2016, la Commissione ha adottato, d’intesa con Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft, il “Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio online” con un elenco di impegni per combattere la diffusione dell’illecito incitamento all’odio online in Europa. Tutte queste piattaforme con la sottoscrizione del Codice si sono impegnate ad elaborare procedure interne permanenti che consentano di esaminare entro ventiquattro ore la maggior parte delle richieste giustificate di rimozione di contenuti che incitano all’odio, e se del caso di cancellare tali contenuti o di renderli inaccessibili[7].
Fake news
Anche in materia di contrasto alle fake news le più importanti piattaforme social non si sono sottratte al ruolo pubblicistico. Facebook, Google e Mozilla, ad esempio, hanno sottoscritto – insieme alle istituzioni europee e ai rappresentanti dei media e degli utenti – il “Codice europeo sulla pratica della disinformazione”, che identifica le azioni da attuare per affrontare le sfide collegate al fenomeno delle fake news. In particolare, le piattaforme si sono impegnate, oltre che a bloccare i messaggi falsi, a tagliare gli introiti pubblicitari di account e siti web che diffondono disinformazione, a rendere più trasparente la pubblicità elettorale e politica, a eliminare gli account falsi e i bot online.[8]
Il limite della tolleranza e del “diritto di parola”: le domande da porsi
In questo quadro, appurata la specifica natura delle piattaforme social, pare legittimo domandarsi, anche alla luce dei citati fatti di cronaca americana del gennaio scorso, quale sia il limite tra presunta libertà di espressione ed incitamento all’odio, o, in altri termini, quale sia il limite della tolleranza e del “diritto di parola” nei confronti dell’intolleranza che lede “ordine pubblico” e “dignità della persona”.
Ma quanto un privato, ancorché svolga un ruolo pubblico de facto, è tenuto garantire a tutti il diritto di fruire dei propri servizi e, quindi, in caso di piattaforma social a rispettarne la libertà di parola?
Può ritenersi che le piattaforme social soggiacciano a obblighi di “pluralismo interno”, inteso come principio di imparzialità e di obbligo di apertura all’espressione di diverse tendenze sociali, politiche, culturali e religiose[9]?
I limiti pubblicistici alla libertà di parola (ordine pubblico, buon costume), valgono anche nei rapporti tra privati, o nel contesto social il titolare della piattaforma può imporre regole più rigide?
Se in via negoziale la piattaforma e un suo utente si “accordano” che dopo un certo numero di richiami l’account verrà prima sospeso e, in caso di reiterazione, cancellato, potrebbe un intervento pubblicistico imporre alla piattaforma la riattivazione dell’account? Potrebbe un giudice, o un’autorità amministrativa, essere chiamato a decidere della legittimità e della fondatezza delle valutazioni operate dalla piattaforma?
Ancora, in caso di “utente personaggio politico e pubblico”, può ritenersi che lo stesso sia un “utente commerciale” nell’accezione di cui al Regolamento (UE) 2019/1150, c.d. Regolamento Platform to Business (P2B), in quanto utilizza la piattaforma social come piattaforma per l’intermediazione con i propri potenziali elettori per offrire i servizi professionali di rappresentante politico? In tale ipotesi, l’utente “cancellato” dalla piattaforma potrebbe appellarsi a norme di maggiore tutela non solo della sua libertà di parola in qualità privato cittadino, ma di una libertà di espressione e promozione delle sue idee politiche in quanto attività professionale (spesso esclusiva)?
Insomma, può ritenersi fondato il principio social “se esageri ti cancello” o l’utente ha modo di tutelarsi? L’Europa sta provando a tracciare una via alternativa (con le proposte Dsa e Dma). Ma siamo solo agli inizi di un lungo dibattito.
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*Le opinioni espresse nel presente articolo sono formulate a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’amministrazione di appartenenza dell’Autore
- Sul punto si permetta di rinviare a D. Mula, Wikileaks e la tutela dei dati personali, in Dir. Inf., 2011, p. 674. ↑
- Si permetta ancora di rinviare a D. Mula, E. Maggio, Big Data e strumenti negoziali, in Big Data e Concorrenza nei mercati dell’innovazione, V. Falce, G. Olivieri (a cura di), Giuffrè, 2017. ↑
- Facebook Ireland e Facebook Italy, ad esempio, sono iscritte come concessionarie pubblicitarie online nel Registro degli Operatori di Comunicazioni, c.d. ROC, tenuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. ↑
- L’espressione “società dell’informazione” è stata usata per la prima volta nel 1973 da Daniel Bell, ordinario di sociologia dell’Università di Harvard, per indicare una società post-industriale ovvero moderna che, giunta al culmine del processo di industrializzazione, per continuare a crescere deve concentrare i propri sforzi verso la produzione non più di beni materiali bensì di servizi immateriali. ↑
- Si veda ex multis A. Papa, Il diritto dell’informazione e della comunicazione nell’era digitale, 2018, p. 143 ss.; G. Giannone Codiglione, Internet e tutele di diritto civile, Giappichelli, 2020, p. 89. ↑
- Il Codice prevede, inoltre, una costante attività di promozione di narrazioni alternative indipendenti, di nuove idee e iniziative e di sostegno di programmi educativi che incoraggino il pensiero critico che effettivamente. ↑
- Si veda sul punto le più ampie riflessioni contenute in A. Gambino, A. Stazi, D. Mula, Diritto dell’Informatica e della Comunicazione, Giappichelli, Torino, 2019, III ed. ↑
- V. Cass., sentenze n. 826/1988, 420/1994 e 155/2002. ↑