La riflessione

Perché l’era digitale ha bisogno della filosofia

Morte della filosofia o resa dei filosofi? Di fronte all’era digitale, la filosofia si divide tra negazionisti, entusiasti, “traduttori di mondi”. É ancora possibile rispettare la vocazione alla transdisciplinarietà? Un’analisi, con le risposte di Heidegger e Wittgenstein, per non smettere di pensare

Pubblicato il 30 Mar 2021

Francesco Varanini

Consulente, docente, scrittore

intelligenza artificiale

La filosofia acquista oggi, nell’era digitale, una nuova centralità: oggi, più che mai, servono filosofi.

Il filosofo non è il sapiente, è chi ama la sapienza. Chi non possiede, ma tende alla conoscenza. Il filosofare è il pensiero che va oltre limiti e costrizioni, cercando il sapere al di là di ogni barriera settoriale.

Abbiamo assistito, negli ultimi secoli, al trionfo del pensiero scientifico e tecnico: scienziati e tecnici non sono filosofi, perché rinunciano a priori ad accettare la complessità, la rete che tutto connette, l’interlacciamento che lega tra di loro i saperi specialistici.

Scienziati e tecnici di discipline diverse non sono in grado di parlare tra di loro, e, anche all’interno della stessa disciplina, la ricerca procede per crescente specializzazione. Esemplare il caso dell’informatica: chi conosce un codice non conosce l’altro, chi lavora su una tecnologia ignora del tutto l’altra.

I filosofi sono invece liberi pensatori, tesi oltre ogni conoscenza specialistica. Disposti a cercare il “dischiudimento”, la conoscenza narrata a tutti, oltre i linguaggi degli addetti ai lavori. Disposti al “rischiaramento”: l’illuminazione del pensiero che rende chiaro l’oscuro. Disposti a svelare il senso nascosto, quel senso che ogni scienza nomina e descrive a suo modo.

Il filosofo è il miglior compagno di viaggio per il cittadino che cerchi una via per addentrarsi nella novità digitale.

La filosofia di fronte al digitale, tra negazione, resa e specialismi

Più che di morte della filosofia, è possibile forse parlare di resa dei filosofi.

È in fondo una resa quella dei finissimi pensatori che restano legati al passato e lo proiettano sul presente che resta incompreso, non studiato né veramente accettato. L’antico esercizio si ripete uguale, si rileggono i classici e alla loro luce tutto si spiega. Bellamente si evita così di prendere in esame il mondo che si ha sotto gli occhi, di esercitarsi a comprendere ciò che in tempi recenti è accaduto ed emerso. Scienza e tecnica, ai loro occhi, nulla di differente mostrano, tutto è già stato visto e detto.

Né tantomeno appare rilevante, al loro sguardo, la novità digitale. Non c’è discontinuità che non venga ricondotta a ciò che la storia ha già mostrato in tempi andati. Evitano così di osservare la novità che interroga. Un aspetto su tutti: mai prima degli ultimi cent’anni, mai prima dell’apparire della macchina digitale, si era immaginato che una macchina in grado di prendere il posto dell’umano potesse essere progettata da un umano. Sostituendolo, come ha proposto Turing, anche nel suo agire più alto e più nobile: il pensare. La novità dell’era digitale è evidente, ma si sceglie di non vederla.

Altri filosofi, di gran traiettoria, hanno invece accettato la discontinuità, concludendo che scienza e tecnica abbiano ormai trionfato. Hanno accettato il fato avverso: la filosofia nell’era digitale è ormai obsoleta. Con un misto di invidia nei confronti degli scienziati e di rimpianto per il tempo che fu, questi filosofi continuano a esercitare il loro pensiero finissimo, ma rivolti al passato, ripassando la storia, distinguendo filoni. Umiliati dagli abbaglianti successi della scienza e della tecnica, dubbiosi si interrogano, e cercano di ritagliarsi spazi sul terreno ormai così solidamente occupato. Se andrà bene, d’ora in poi la filosofia sopravviverà come epistemologia, studio dei metodi e dei fondamenti della scienza. Eppure, qualcuno di questi filosofi, coraggiosamente, cerca di trovare ancora motivi per non rinunciare all’antica vocazione al pensiero senza confini: si inchina ai successi della scienza e della tecnica, ma osserva come ogni disciplina sia chiusa nella propria stretta cultura, chiusa proprio lessico. Conclude quindi che forse rimanga aperto un possibile ruolo: il ‘traduttore’, dedito a promuove il dialogo tra famiglie professionali di scienziati e tecnici.

Altri filosofi ancora, anche in età matura o avanzata, si avventurano invece con giovanile baldanza nelle nuove terre scientifiche e tecniche. E soprattutto, con speciale entusiasmo, si dichiarano abitatori della terra promessa digitale. Proclamano allora la loro dedizione a far proprio il nuovo verbo, osservano le giovani generazioni per imitarne i comportamenti, leggono e citano con reverente attenzione testi che cantano la bellezza e le virtù di algoritmi e di intelligenze artificiali. Finiscono così per essere ingenui ed acritici apologeti di una nuova indiscussa verità.

C’è poi il nutrito gruppo di filosofi che da subito hanno incassato la sconfitta, e che su questa sconfitta, con abile giravolta, hanno costruito la propria carriera. Privi di qualsiasi nostalgia o rimpianto per un ruolo perduto, semplicemente badano a crearsene uno nuovo. Hanno rinunciato sotto ogni aspetto al pensiero senza limiti e costrizioni, e si sono fatti sacerdoti di un singolo, settoriale, escludente campo di ricerca. Hanno rinunciato ad essere ‘filosofi’, per essere invece ‘filosofi di …’. Non una, ma enne filosofie. Ciascuna commenta e celebra la storia di una disciplina, la sua pretesa autonomia, ognuna si fa custode di un lessico specifico, di un metodo di ricerca.

Filosofie di servizio, al servizio, abbelliscono così il panorama di ogni disciplina. Di queste filosofie, fattesi ancelle di singoli rami della scienza e della tecnica, sono caso esemplare le varie filosofie che accompagnano una sfaccettatura della ricerca e dello sviluppo nel campo della computer science. Filosofie con l’aggettivo, dove ‘digitale’ è solo uno dei diversi aggettivi usati.

Il filosofo qui ha un ruolo di complemento, che può essere esercitato con un grado di libertà non concesso agli addetti ai lavori: tecnici, imprenditori e finanziatori. Il tecnico è impegnato a costruire strumenti e sistemi che funzionino davvero; l’imprenditore e il finanziatore cercano il ritorno dell’investimento; il filosofo si limita a cantare le gesta.

Storia e tradizione ci ricordano il filosofo che attraversava terre incognite alla ricerca di conoscenza, che sondava l’oscuro alla ricerca della luce. Ma ora il pensiero che conta è quello degli scienziati e dei tecnici: il filosofo si limita ad accompagnarli. Ma in questo accompagnamento, il ruolo della filosofia appare rovesciato. Il vecchio filosofo cercava il rischiaramento, il nuovo cerca l’oscurità. Neologismi e gerghi, abbondantemente usati, hanno un preciso scopo: confondere il cittadino, intimidirlo, mostrando la forza e la superiorità della tecnica digitale. E quindi, anche, la necessità del nuovo filosofo-accompagnatore.

Le spiacevoli costanti della filosofia nell’era digitale

Le filosofie digitali appaiono accomunate da due spiacevoli costanti.

La prima riguarda l’ambito di indagine e l’ampiezza dello sguardo, rivolto esclusivamente al digitale. Ciò che esiste al di fuori o al di là, come la vita, la natura, è ignorato o rimosso. La storia del pensiero degna di essere presa in considerazione inizia con Alan Turing: di quel vasto e sfumato esercizio umano che possiamo definire con la parola ‘pensiero’ sembra degno di restar vivo solo ciò che è computabile, cioè calcolabile tramite una macchina.

La seconda costante della filosofia dell’era digitale è la terzietà. Se sul terreno digitale esistono due ‘agenti ‘, l’essere umano e la macchina, il filosofo sceglie di seguire la via del fair play indicata da Alan Turing: offrire ad entrambi gli agenti le stesse chance, le stesse probabilità di successo.

Il nuovo filosofo si pone nella posizione di estraneo, imparziale osservatore privo di interessi in comune con entrambe le parti in causa. Ci sono certo accenti diversi: c’è il filosofo digitale che mostra compassionevole interesse per gli esseri umani, c’è invece chi scommette sull’avvento di nuovi esseri digitali, di macchine morali che saranno migliori degli esseri umani. Ci sono filosofi che, di fronte ad ogni innovazione, tornano a dichiararsi sostenitori di una tecnologia Human-centered, e ci sono filosofi che si lanciano decisamente sullo scenario post-umano. In ogni caso, il nuovo filosofo considera doveroso produrre il massimo sforzo soggettivamente possibile per allontanare da sé ogni umana inclinazione: considera doveroso allontanarsi dal proprio essere umano.

Oltre Turing: le risposte di Heidegger e Wittgenstein per l’era digitale

Nel Ventesimo Secolo si afferma una filosofia che guarda con lo stesso distacco ad esseri umani e macchine: celebra Turing, mosso dalla speranza di poter costruire una macchina migliore di sé stesso.

Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein risposero a Turing: come mostrato in “Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi”, entrambi avevano ben presente in cosa consistesse quella novità che oggi comunemente riassumiamo tramite il termine digitale.

Heidegger ci parla del senso dell’esperienza umana, ovvero di come si impari ad usare il martello nel martellare. Quando l’essere umano è privato della possibilità di fare esperienza, perché gli sono proposte o imposte esperienze già confezionate, progettate da tecnici nel chiuso dei loro laboratori, qualcosa cambia. Come mostrato nelle “Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale”, questo è ciò che accade nell’odierna situazione digitale.

Sempre Heidegger ci ricorda che l’agire umano, pienamente inteso, consiste nell’accettare di trovarsi “gettati” a vivere in una terra sconosciuta, nell’essere nella condizione di chi si trova ad avventurarsi in luoghi dei quali nulla sa veramente.

Proprio l’atteggiamento più funzionale a noi esseri umani di fronte alla novità digitale: l’avventura nell’ignoto. Ignoto per tutti. Nessuno dei tecnici dediti a progettare un qualche aspetto della scena digitale ha una visione d’insieme. Nessuno di loro sa veramente cosa sta facendo. Anche i cosiddetti ‘nativi digitali’ si avventurano su un terreno nuovo, e nel farlo non dispongono nemmeno dell’esperienza di chi ha vissuto nel tempo precedente e ha visto emergere la novità digitale.

Heidegger ci dice: vivere è sentire su di sé il peso di una ansiosa preoccupazione, ed è solo da questa inquietudine che può nascere l’agire efficace e allo stesso tempo responsabile. Vale per ogni essere umano, ma innanzitutto per chi oggi progetta strumenti o mondi digitali. Il progettare è sempre connesso al progettare sé stessi, alla personale ricerca di consapevolezza, alla personale saggezza.

Facile notare come i filosofi digitali scelgono invece la via opposta: non richiamano il progettista alla responsabilità personale. Al tecnico è richiesto solo di sviluppare nuove tecniche. Il filosofo digitale si rivolge semmai al cittadino, invitandolo a non dubitare, a fidarsi, a prendere per buona ogni innovazione.

Wittgenstein non è tanto lontano da Heidegger quando invita a considerare che pensare significa superare quei umilianti momenti in cui siamo costretti ad ammettere: ‘Non mi ci raccapezzo’, ‘Non so che strada prendere’, ‘Non so come venirne fuori’. In questi momenti, forte è la tentazione di rinunciar, e di lasciare alla macchina il compito di pensare al nostro posto.

Wittgenstein sottolineava che noi siamo, quando filosofiamo, come uomini primitivi, come dei selvaggi, che ascoltano le espressioni di uomini civilizzati, le fraintendono, ma sanno poi andare oltre, e trovare un senso.

Oggi è difficile, all’apparenza impossibile, mantener vivo l’approccio trans-disciplinare, multi-disciplinare, disposto alla complessità. Difficile abbracciare l’enorme e sempre crescente massa, l’intrico di conoscenze. Difficile anche accettare l’abisso della propria ignoranza, la povertà degli strumenti di cui disponiamo.

Noi umani nel pensare ci muoviamo a tentoni, privi di certezze, guidati da deboli congetture. Ma proprio questo è il filosofare: sondare l’oscuro. E proprio qui sta l’amore per la sapienza: io, essere umano, nonostante tutto ci provo, e in questo tentativo sta la mia etica.

Una filosofia critica che aiuti a rimanere umani

Il pensare responsabile, umano, riflessivo, per quanto possibile, saggio, non rifiuta certo il progresso e l’innovazione, anzi guarda con appassionata, affascinata attenzione a tutto ciò che scienza e tecnica propongono di nuovo.

Ma una ‘nuova filosofia’ nell’era digitale che si faccia paladina della scienza e della tecnica è inutile. Oggi serve una filosofia che si ponga come costruttiva critica della scienza e della tecnica.

Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome; possiamo affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione; possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell’essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi.

Non importa se è una ‘posizione di minoranza’. Di minoranza, perché lontana dalla posizione di scienziati e tecnici, che avanzano nella ricerca senza porsi troppe domande. Di minoranza, perché il mainstream della filosofia nell’era digitale si è inginocchiato alla scienza. Di minoranza, perché i filosofi digitali hanno scelto la terzietà, l’indifferenza tra l’umano e il macchinico. In un senso più ampio, di minoranza anche perché forse Intelligenze Artificiali e robot sovrasteranno l’essere umano, e una nuova capacità di ragionare surclasserà ciò che è umanamente possibile.

Si può del resto sostenere che chi merita il titolo di filosofo si trova sempre in una posizione di minoranza. In ogni caso, resta a noi essere umani la possibilità di fidarci di noi stessi. Anche quando, in un futuro forse non così lontano, esisteranno macchine più ‘intelligenti’ di noi umani, più capaci, più efficienti, magari anche più ‘morali’, continueremo, in quanto esseri umani, a pensare. A filosofare.

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