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Arte online, tra fugacità e “resistenza”: così web e social cambiano tutti i codici

I social network cancellano l’eternità dell’arte e dell’artista oppure offrono la possibilità di replicare, viralizzare, e quindi rendere eterna un’opera, anche se nella realtà non esiste più? I paradossi del web, dove convivono eternità e fugacità, e del suo rapporto con le moderne opere d’arte

Pubblicato il 18 Mar 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

Mr. Kebadian , L'Hiver Jaune, Ph by Marie Christian

I rapporti tra arte e social media sono da tempo oggetto di indagine. Quali sono le conseguenze del web per la semiotica dell’opera d’arte? Qual è il legame che si instaura tra pubblico e artista? Qual è il nuovo concetto di lavoro rispetto allo scenario digitale? L’arte può sfruttare il “polittico” delle piattaforme web, cioè la loro UX, l’ergonomia cognitiva, nel modo in cui, un tempo, l’arte veniva adattata alla struttura architettonica delle chiese? Il web è il paradosso che fa coincidere eternità e fugacità, pertanto come si comporta un’opera di fronte a questo bifrontismo?

Arte e fugacità

La tendenza delle piattaforme online a cancellare l’eternità dell’arte e dell’artista, facendoli soccombere dietro alla presentazione “obesa” di internet, trasforma ogni espressione di sé in qualcosa di vano. Non è body shaming, ma la constatazione, amara, perché sempre di cibo si tratta, che resti e ingrassi solo la rete, mentre tutti i bit vengono indifferentemente azzannati con la voracità descritta da Giorgio Gaber nella nota e splendida canzone L’Obeso. Internet è un Deus sive Net(ura), in progressiva espansione. Un Pieno a imitazione, o meglio, a sostituzione della tondità del mondo:

“Sembra un uomo generato da un enorme allevamento… l’obeso s’è creato quel suo corpo così pieno per sfuggire dal terrore di non essere nessuno… L’obeso è una presenza a tutto tondo è il simbolo del mondo…L’obeso mangia idee, mangia opinioni, computer, cellulari, dibattiti e canzoni…L’obeso ha un aspetto imperturbabile e imponente e ha un futuro che è sempre più presente…L’obeso è l’infinito di un Leopardi americano” (G. Gaber, L’Obeso)

Il progetto For The Time Being

Cosa succede però se l’evanescenza diventa codice espressivo? Il progetto For The Time Being, per esempio, è stata un’esposizione online, che ha sfruttato la semiotica di Snapchat, le sue note caratteristiche di brevità e fugacità. Snapchat permette infatti di condividere solo video brevissimi, che restano online solo per ventiquattr’ore, come fossero quelle farfalle che in pochi istanti devono sia generare, sia fare esperienza di un volo già perfetto alla prima.

For The Time Being, insomma, non ha utilizzato le regole della piattaforma come strumento di marketing, ma come possibilità artistica. Analogamente ai pittori che adattavano le opere ai luoghi in cui erano destinate, così gli artisti contemporanei coinvolti nell’esperimento hanno piegato l’arte alla struttura che li avrebbe accolti, generando così qualcosa di nuovo, che altrimenti non sarebbe esistito. Non è una novità che l’opera sia un compromesso tra committenza e luogo, con le sue caratteristiche di luce, architettura, umidità. Spesso, infatti, la ricollocazione del dipinto in un museo avente luci e forme diverse da quelle per cui era stato pensato, cambia il senso dell’opera stessa, o lo fa perdere totalmente.

Molti artisti come risposta al “disturbo dell’alimentazione” di internet hanno deciso di resistere disconnettendosi. A mio avviso, non-esserci non è un’alternativa al fatto di non-esserci perché dispersi tra i milioni di account della rete. L’alternativa, piuttosto, dovrebbe essere l’esistenza di alternative ai soliti giganti tecnologici.

For The Time Being, dunque, ha coinvolto cinque artisti contemporanei che avrebbero condiviso 10 secondi di esposizioni su Snapchat. Interessante il fatto che l’account apparisse come uno qualsiasi suggeritoci dalla rete. Non c’erano descrizioni che aiutassero il pubblico ignaro a interpretare l’evento. Le opere che più mi hanno incuriosito sono state quelle di Tamara Kametani. I video erano estratti dalle notizie quotidiane, ma patinati di filtri Snapchat in realtà aumentata. Essi permettevano una dissonanza cognitiva efficace, un’ironia che andava a toccare sia Snapchat, sia la serietà del quotidiano, come un Rabelais contemporaneo.

Illustrazione 1: Screenshot Snapchat, For the time being by Tamara Kametani, baby Kim Jong-un filtered

Nel testo Video Vortex Reader, Inside the Youtube decade, curato da Geert Lovink e Andreas Treske, si parla anche del progetto For The Time Being. Nel capitolo in questione viene distinto l’oggetto dalla pratica d’arte, un po’ come nell’educazione si decide di valutare o il risultato o il processo di apprendimento. Online sembra che il giudizio riguardi solo il prodotto, mentre questo sparisce dietro alla promozione dell’account.

La sfida, inoltre, è fare in modo che l’opera nata per il web, inseparabile dalla semantica che l’ha resa possibile, sopravviva all’obsolescenza delle piattaforme. Non solo, è altresì necessario che l’arte torni ad avere un ruolo da protagonista. È chiaro, difatti, che sui social network sia venuto meno l’ultimo baluardo che scindeva l’artista dall’essere umano e dalle opere stesse, dove per gerarchia la scena doveva essere occupata totalmente dall’artefatto. Significa che oggi è la vita stessa a farsi oggetto estetico.

L’esistenza digitale di ogni essere umano è o bella o brutta, o meglio, influente o non influente; non c’è più spazio né per l’essere, né per il dover-essere etico. L’opera è solo un quadratino che compone il mosaico di Instagram, un dettaglio privo di valore. In realtà ci si aspetta solo che l’artista compaia nelle storie, che racconti di sé e che dia costantemente prova del suo carisma. L’unfollow è il gesto più rapido, è la punizione inflitta all’account che ha rivelato troppo l’opera e poco il soggetto.

Arte e resistenza

Cosa accade però se internet all’opposto replica, viralizza, e quindi eternizza un’opera che nella realtà non esiste più?

Recentemente un artista francese, Itvan Kebadian, ha attirato le attenzioni dei media, digitali e tradizionali, compreso The Economist. La sua arte popola le vie parigine di figure in bianco e nero prive di volto. In ogni caso si tratta di soggetti così espressivi che gli occhi e le smorfie sarebbero una ridondanza.

Prima di diventare uno street artist coinvolto nella denuncia di ingiustizie e di asimmetrie nell’uso della forza, amava dipingere insetti. Dal 2016 realizza murales in cui descrive gli scontri tra polizia e manifestanti, relativamente al Black Lives Matter e ad altri episodi accaduti in Francia, come quelli contro i Gilet Gialli. A tal proposito, assieme ad altri Street Artist del collettivo Black Lines da lui fondato, ha “affrescato” trecento metri di un distretto parigino. Ovviamente per realizzare tale opera, letteralmente monumentale, aveva ricevuto il permesso dalle autorità. Il titolo dell’opera era L’Hiver Jaune, cioè l’inverno giallo. Ritraeva le brutalità commesse dalle forze dell’ordine ai danni dei gilets jaunes.

L’artista dice di fissare “la realtà sulla realtà”, e, questa, mi pare una definizione estremamente ficcante del suo operato. Il murales ritraeva gli eventi capitati per le strade di Parigi e cioè lungo quelle stesse strade dipinte dai Black Lines. È come se i muri avessero visto e non potessero più dimenticare né tacere. Tuttavia, è accaduto che il distretto ospitante quell’immensa via crucis di graffiti abbia deciso di censurare l’opera, nascondendola con un grigio monocolore, la tinta che dovrebbe mediare tra gli estremi.

Nonostante il web sia spesso criticato quale ennesimo meccanismo di manipolazione, in questo caso il villain digitale è diventato l’aiutante dell’artivist. Le fotografie scattate ai murales di Kebadian sono sopravvissute online nonostante la censura applicata dal diciannovesimo distretto parigino. In questo modo hanno dato “resistenza a ciò che non è resistito”. Insomma, i graffiti sono stati sì cancellati offline, ma sul web, dove le autorità hanno perduto la giurisdizione, permangono e agiscono. Dentro alla cosiddetta “realtà”, la realtà è stata eliminata, ma questo ha immediatamente dato “realtà” allo spazio virtuale. Non solo, quando l’oggetto digitale non ha più il suo riferimento offline esso pare ottenere ancora più forza e verità, cioè corrispondenza con lo stato di cose sebbene, di fatto, questo sia assente.

Censura e viralità

Un murales di Vince, apparso sulle vie di Parigi, descrive esattamente il fenomeno per cui, soprattutto online, la censura non farebbe altro che aumentare la visibilità di ciò che intendeva nascondere. È il cosiddetto effetto Barbara Streisand, citato nel graffito stesso. A livello mediatico si intende quel fenomeno per cui ogni tentativo di far rimuovere un contenuto dal web (e non solo) indirizza tutta l’attenzione del pubblico sul contenuto stesso, viralizzando l’immagine o la notizia. Quindi insabbiare un fatto non farebbe altro che trasformare l’evento semi-sconosciuto in meme.

Nel suo graffito di dieci metri, Vince ritrae un rettangolo rosso con su scritto “auto-censura”. Il cartello viene impugnato a mo’ di smartphone mentre si scatta una fotografia. Secondo l’artivista, insomma, il frapporsi della camera davanti alla realtà è comunque una rimozione freudiana, un ostacolo che impedisce la vista diretta degli eventi. Sotto si legge “questa volta l’amministrazione comunale non lo farà sparire …”, alludendo esattamente agli eventi che hanno coinvolto Kebadian.

Illustrazione 3: Street Artist parigino Vince e il murales Auto Censure

In effetti mi domando io stessa se il web sia un’opportunità per l’artista e quindi uno scacco matto alle autorità, oppure se, all’opposto, il fatto che nulla sia cancellabile rappresenti un potere tolto all’artista, impossibilitato a controllare, da vivo, i percorsi della sua opera.

L’arte che resiste (sui muri e contro ogni coercizione) resiste di più (al tempo e alle istituzioni) grazie alla viralità? È un vantaggio per l’artista che con il web egli diventi cultura bruciando i tempi? O è forse quel tipo di eternità che dura ma finché non passeranno di moda le piattaforme e finirà l’elettricità?

Qualche tempo fa il noto street artist italiano, Blu, per opporsi alla privatizzazione dei murales da parte delle mostre che prelevavano i graffiti per esporli in musei a pagamento, ha cancellato tutte le sue opere. Oggi, con il web, l’artista non può più distruggere totalmente l’originale. Non è più l’unico proprietario della sua arte, o meglio della distribuzione di essa. Se l’impossibilità di cancellare le prove online è una spina nel fianco dell’autorità, rappresenta altresì un limite per lo stesso street artist, il quale non potrebbe più impedire che circolassero immagini di un’opera o di un concetto nei quali, magari, non crede più.

Conclusioni

L’arte, quando viene filtrata dalle regole del web, cambia il suo codice e quindi i rapporti semantici e pragmatici corrispondenti. Un’immagine postata sui social, dipendendo da un contesto completamente diverso, non sarà mai nemmeno simile all’opera che le dovrebbe corrispondere. Online, ciascuna copia digitale vive una vita propria. Ogni condivisione è un esercito di cloni indistinguibili uno dall’altro, capaci di condizionare, in modo diverso e indipendente, gli utenti con cui vengono in contatto.

Se l’immagine che circola su internet non fa le veci dell’opera offline, il murales di Mr Kebadian non può che essere perduto, nonostante se ne possa dare una qualche testimonianza tramite il web. Online l’informazione che è possibile trarre dalle fotografie sopravvissute riguarda la censura, mentre non c’è traccia del significato originario pensato dal collettivo Black Lines.

Chi fa graffiti non vuole semplicemente stimolare il pensiero critico. Sembrerà banale, ma chi dipinge arte di strada ha l’esatta finalità di dipingere la strada. Ne consegue che nessuna fotografia potrà mai avere il senso che l’artista intendeva conferire al murales. Non è tanto portare l’audience a pensare, funzione assolta anche dall’arte online, ma trasformare una città particolare in informazione.

Lo spazio urbano nell’utopia di Campanella diventava un’enciclopedia a cielo aperto, una serie di mura non per la difesa, ma per la conoscenza. Allo stesso modo gli street artists scelgono espressamente di lasciare un segno sui muri e sui treni in corsa e, così, rubare un mattone o una fotografia per esporli altrove sarà solo un esempio laico del commercio delle reliquie.

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