Nel trattamento del morbo di Alzheimer – un processo degenerativo a carico del cervello che è la più nota forma di demenza degenerativa e per cui non esiste ancora cura – agli ormai collaudati schemi terapeutici oggi si aggiunge un elemento in più: il gioco nella sua versione elettronica e digitale.
Vediamo quali sono i vantaggi e gli effetti.
Cosa comporta il morbo di Alzheimer e come viene trattato
Il morbo di Alzheimer porta con sé la comparsa di vari sintomi come amnesia anterograda, aprassia, agnosia, anomia, disorientamento spazio-temporale, agrafia, acalculia, deficit intellettivi, cambiamenti del tono dell’umore, ecc.
Sono anni ormai che la ricerca scientifica sta cercando di trovare una soluzione a tutte le forme di demenza causate dalle malattie neurodegenerative. I passi fatti verso tale direzione sono notevoli, ma, per ora, ancora non esiste una cura o una terapia risolutiva in grado di arrestare la degenerazione che queste malattie portano con sé.
Al momento presente il trattamento prevede, oltre all’intervento farmacologico che interviene sui sintomi (cercando comunque di rallentare il degradamento del tessuto del sistema nervoso centrale), anche una serie di interventi di tipo ambientale che mirano da una parte a mantenere lo stato funzionale del paziente, dall’altra a controllare i sintomi non cognitivi (per esempio: apatia, aggressività, wandering e disturbi psicotici).
Nel tempo è divenuto unanime il consenso, da parte della comunità scientifica, intorno agli interventi psicosociali, sia a scopo preventivo, che di mantenimento delle capacità residuali.
Tra questi una grande importanza risiede nell’uso della stimolazione cognitiva e dei videogame.
La stimolazione cognitiva: cos’è, a cosa serve, e come si usa
La terapia di stimolazione cognitiva conosciuta anche con l’acronimo (CST) trova supporto a partire dalla consapevolezza della plasticità neurale.
Questa terapia è composta da attività altamente strutturate che mirano al raggiungimento di obiettivi specifici.
Uno di questi è quello di attivare, pian piano, capacità e potenzialità residue.
Se potenziate, queste abilità possono andare a coprire le mancanze causate dal deterioramento di altri settori.
Immaginando il cervello come un insieme di percorsi che uniscono stimoli e risposte è possibile allenare circuiti poco utilizzati, ma ancora sani, per unire aree precedentemente connesse attraverso vie non più percorribili a causa della progressione della malattia e del danno al tessuto cerebrale.
Nel caso delle malattie dementigene si cerca di riattivare e potenziare vie nervose definite come secondarie e che in condizioni normali vengono impiegate dal nostro cervello con meno frequenza, per trasformarle in mappe alternative che possano rimettere in contatto un quesito con la sua soluzione.
La plasticità del cervello non si realizza infatti solo nella costruzione di nuovi neuroni e cellule del tessuto di supporto, ma anche nella creazione di nuovi percorsi e collegamenti sinaptici.
Con le recenti tecnologie possiamo anche in un qualche modo “vedere”, attraverso le attività elettriche e chimiche dell’organo, queste modifiche prendere vita e illuminare aree del cervello non attivate in precedenza.
La stimolazione cognitiva consiste di un insieme di attività che vengono presentate all’anziano come qualcosa di ludico e capace di essere attrattivo e interessante, questo in modo che gli esercizi non vengano percepiti come qualcosa di impegnativo, che finirebbe con annoiare il paziente impedendo l’efficacia del trattamento.
In questa stimolazione il protagonista è il soggetto e l’attività risponde ai suoi bisogni emotivi, cognitivi e motivazionali.
Il soggetto mette in gioco attenzione, memoria, linguaggio e funzioni esecutive, questo ha un effetto positivo sul suo benessere e possiamo dire che ne risentano positivamente oltre al paziente anche i familiari e il personale che lo accudisce.
Tra le capacità che vengono direttamente stimolate ricordiamo il riconoscimento dei volti e degli oggetti, l’orientamento spazio-temporale e il linguaggio, sia quello utilizzato per denominare gli oggetti, sia quello necessario a comprendere ed esprimere concetti, emozioni e ragionamenti logici.
I legami tra videogame e Alzheimer
Videogame come elemento per la diagnosi precoce
Sea Hero Quest è un videogioco di navigazione spaziale sviluppato dall’University College di Londra e dall’Università dell’East Anglia, oltre che per dispositivi di realtà virtuale è disponibile anche per smartphone, tablet e ha permesso di raccogliere dati su oltre 4 milioni di giocatori.
Le partite analizzate mostrano un legame profondo tra lo scarso orientamento spaziale e la possibilità di diagnosi precoce del morbo di Alzheimer prima della comparsa dei primi sintomi clinici.
Oltre a essere un sistema di ricerca che porta una ventata di modernità e innovazione, questa tecnica ha permesso di raccogliere in poco tempo la stessa quantità di dati che con mezzi tradizionali sarebbero stati raccolti in molto più tempo.
Per il cervello l’esperienza di navigazione virtuale è praticamente indistinguibile da quella che avviene nel mondo reale, partendo da ciò i ricercatori hanno paragonato i risultati del gruppo di controllo con quello del gruppo sperimentale che comprendeva giocatori considerati più a rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer in quanto portatori del gene APOE[1] ɛ4.
I due gruppi, secondo i normali test cognitivi in laboratorio, presentavano un profilo non differenziato, ma dallo studio dei dati provenienti dalle partite a Sea Hero Quest, per giocatori della stessa età, sesso e paese di origine, sono invece emerse differenze statisticamente valide in grado di riconoscere l’inizio della malattia.
Sempre in un articolo del 2019[2], anche lo studioso Denis Chan ha messo a punto un metodo che utilizza la realtà virtuale per la diagnosi precoce per l’Alzheimer.
Secondo l’autore questa innovazione porterebbe molti vantaggi alla ricerca scientifica, in quanto uno dei principali motivi del fallimento delle terapie volte a rallentare la malattia è dovuto nella maggior parte dei casi al ritardo nelle diagnosi.
Come anche visto con il gioco Sea Hero Quest, il test attraverso realtà virtuale permetterebbe di diagnosticare la malattia con grande anticipo rispetto ai soli test clinici.
Il test analizza il funzionamento della corteccia entorinale, e l’utilizzo della realtà virtuale immersiva permette di comprendere anche lievissime compromissioni della memoria spaziale allocentrica
Anche solo permetterci di riconoscere e anticipare l’insorgenza di malattie dementigene è una grande conquista, ma l’impiego dei videogame non si limita a questo.
Videogame come contributo terapeutico
Negli anni 50, William Beecher Scoville e Brenda Milner, in uno dei primi tentativi di eliminare le crisi epilettiche di cui soffriva una paziente, hanno sperimentato la distruzione chirurgica dell’ippocampo.
Dopo questo intervento, che causò gravi crisi di amnesia alla paziente e grazie ai successivi studi, è emerso come l’ippocampo abbia una funzione fondamentale nella formazione di nuovi ricordi.
Infatti, se si prende a riferimento il momento in cui l’ippocampo viene danneggiato si evidenzia come da quel momento in poi risulterà difficile e la formazione di nuovi ricordi (amnesia anterograda) e come allo stesso modo diventerà difficoltoso l’accesso alle memorie fino alcuni anni precedenti al danno (amnesia retrograda).
I ricordi che si sono formati più lontano nel tempo, rispetto al trauma all’ippocampo, nella maggior parte dei casi resteranno inalterati e anche la capacità di accedervi sarà esercitata in modo normale.
Questa scoperta, trovata per errori e a caro prezzo, ci permette di capire meglio l’Alzheimer che, non per caso, presenta sintomatologie ed effetti molto simili a quelli sopra descritti.
Le prime aree cerebrali ad essere colpite sono proprio nelle zone dell’ippocampo che può danneggiarsi anche per conseguenza di anossia ossia mancanza di ossigeno, encefalite o epilessia.
Recenti studi prospettici sull’invecchiamento e sulla cognitività dimostrano i benefici dei videogame nello sviluppo e nel miglioramento di tutte le abilità compromesse dall’Alzheimer.
Torres, in un suo studio nel 2011, dimostra che non solo c’è un miglioramento delle funzioni esecutive e cognitive, ma anche una crescita positiva dell’autostima e della qualità di vita.
Altri studi mostrano come i videogiochi siano collegabili ad un aumento della massa dell’ippocampo (e di altre zone cerebrali), andando in direzione opposta agli effetti dell’Alzheimer che produce una riduzione di peso e volume di molte aree cerebrali.
Un’attività mentale costante senza cadere nell’iperattività e nello stress proteggerebbe dal decadimento cognitivo sia perché l’esercizio rafforzerebbe alcune abilità rendendole più efficienti e meno vulnerabili, sia per una compensazione dovuto all’attivazione dei processi cognitivi residui.
Il videogame in particolare pare stimolare diverse funzioni cerebrali contemporaneamente, risultando un trattamento davvero efficace, in grado di agire da diverse direzioni.
Ad esempio, i videogiochi che spingono all’uso delle proprie facoltà mnestiche possono contribuire al miglioramento di varie funzioni cerebrali, come attenzione e concentrazione. Simili giochi danno spazio e sviluppano il pensiero critico che pian piano viene perso negli Alzheimer.
Infatti la memoria a breve termine è la prima ad essere toccata dalle patologie dementigene e migliorarla può anche portare col passare del tempo beneficio anche alla memoria a lungo termine di una persona.
Entrambe sono interconnesse e la possibilità di spostare le cose da una memoria all’altra porterà poi ulteriori positivi cambiamenti in tutta la sfera cognitiva.
Anche miglioramenti del riconoscimento visivo sono stati riscontrati in diverse ricerche.
Molti videogiochi, infatti, si basano o danno importanza all’individuazione delle differenze o all’associazione di immagini correlate. Questo contribuisce a migliorare la discriminazione visiva, aiutando così nel distinguere le immagini l’una dall’altra, ma soprattutto andando a riparare in parte, anche in questo caso, settori deteriorati dalla progressione della malattia.
I videogiochi sono insomma una vera e propria palestra della mente.
I videogame e il loro effetto sulla regolazione della dopamina
I videogames, oltre a presentare aspetti positivi in controtendenza rispetto alle critiche da sempre piovute sull’argomento, hanno comunque zone d’ombra che non possono essere ignorate.
La produzione di dopamina legata alla ricompensa immediata che si ottiene portando a termine un’azione all’interno del gioco è risultata simile sia nel cervello di videogiocatori che in quello di persone che fanno largo e abituale uso di stupefacenti (ecstasy nello studio di riferimento) o che soffrono di dipendenza da gioco d’azzardo.
Una riduzione del 10,5% nella funzionalità del recettore D2, per la dopamina è stata osservata nel gruppo di controllo dell’esperimento, costituito da soggetti sani, dopo uso di videogiochi, mentre i membri del gruppo sperimentale composto da ex utilizzatori cronici di ecstasy non hanno mostrato alcun cambiamento nei livelli associati per lo stesso recettore.
La ricerca ipotizza che le precedenti dipendenze nel gruppo sperimentale avessero già causato la modifica dei livelli di dopamina in modo simile a quello causato dall’esposizione ai videogame.
Sarebbe proprio la dopamina e non lo stupefacente considerato da solo, a causare la dipendenza, il senso di bisogno incontrollabile e diverse alterazioni della struttura cerebrale.
Tuttavia, allo stesso tempo, secondo dati resi pubblici nel 2020 sempre la dopamina avrebbe un ruolo chiave nei trattamenti per l’Alzheimer!
La rotigotina migliorando le vie di distribuzione della dopamina nel cervello ha mostrato importanti risultati nel miglioramento delle facoltà cognitive dei pazienti, senza agire direttamente sulle funzioni mnestiche.
L’ipotesi è che i videogame possano attivare diverse aree cerebrali contemporaneamente, agendo sulla produzione di dopamina e forse sulla sua distribuzione nel cervello e che il meccanismo alla base delle dipendenze sia forse collegabile a possibili futuri trattamenti per Alzheimer e malattie dementigene.
Realtà virtuale, exergame ed effetti sulle patologie dementigene
Con il termine exergame ci si riferisce ad una categoria di videogiochi in cui l’interazione non è basata solo sulla coordinazione occhio-mano, ma si estende anche ad altre parti del corpo, presentando numerosi vantaggi potenziali in ambito motorio e di promozione del benessere, ribaltando il vecchio stile dei videogiochi, rompendo un vecchio stereotipo, quello dei videogame complici di una vita sedentaria, promuovendo così uno stile di vita attivo, riuscendo nel fare un doppio gioco, esercitando sia la sfera fisica che la sfera cognitiva contemporaneamente.
Il loro uso non è solo utile ad uno scopo meramente ludico, ma è importante anche in campo riabilitativo. Le patologie neurodegenerative troppo spesso si trasformano in un ostacolo alle attività fisiche, portando anche a vera e propria sarcopenia. “Mens sana in corpore sano”.
Exergame
La domanda che sorge spontanea è la seguente: perché utilizzare exergaming e non proporre semplicemente esercizi aerobici?
La diatriba a riguardo è lunga e i dati per ora disponibili non sono sufficienti ad analisi profonde, anche perché è da poco che questa tecnologia viene utilizzata con i malati di alzheimer.
Possiamo ipotizzare, siccome questo settore è ancora una vera novità, che i pazienti siano più stimolati, più incuriositi verso l’uso di questo tipo di attività che fondono videogame e movimento fisico e che questo dia forza all’effetto terapeutico.
Un altro beneficio legato a questi videogiochi è quello di poter disporre ovunque di strutture impossibili da trasportare o affittare o in cui è difficile portare fisicamente i pazienti, come ad esempio un campo da tennis o una pista da bowling.
Grazie agli exergame è invece possibile dare un contesto vivace all’esercizio fisico senza uscire dalle case di cura.
Sempre più spesso è inoltre possibile fare esperienza attraverso la realtà virtuale, ossia simulazioni di situazioni reali attraverso strumenti appositamente studiati per lo scopo.
Realtà virtuale
Il coinvolgimento della realtà virtuale permette esperienze immersive e potenzialmente emotive. In questo campo sono stati riconosciuti buoni risultati nel trattamento della acrofobia (paure delle altezze) o in quello della dismorfofobia corporea, un disturbo psicologico caratterizzato dall’ossessione per il proprio aspetto e che fa vivere chi ne è affetto in una costante insoddisfazione rispetto alla propria immagine.
Inoltre, anche chi ha provato ad utilizzare la realtà virtuale nell’ambito della demenza e dell’Alzheimer ha ottenuto risultati incoraggianti.
Un recente studio del 2019, “Bring the Outside In: Providing Accessible Experiences Through VR for People with Dementia in Locked Psychiatric Hospitals[3]“ ha sottoposto un gruppo di 69 anziani a esperienze di realtà virtuale con visore.
In un periodo di 15 minuti i pazienti potevano esplorare uno o più dei diversi ambienti proposti, a scelta, tra una cattedrale, una spiaggia sabbiosa, una località di campagna, degli scogli e una foresta.
La scelta dell’ambiente proposto era libera senza indicazioni o forzature e il risultato è stato un diffuso benessere.
Dopo l’esperienza gli anziani potevano fornire dei riscontri e da questi i caregiver hanno avuto argomenti e spunti per migliorare l’interazione coi loro pazienti.
Nel complesso non sembra avere effetti terapeutici permanenti sulla memoria a breve e lungo termine, ma sicuramente aumenta la qualità della vita e permette agli anziani di vivere un’esperienza significativa, con notevole miglioramento del tono dell’umore.
Le nuove tecnologie permettono di realizzare programmi con immagini e suoni incredibilmente realistici, questo può spingere i pazienti a rivivere ricordi piacevoli ancora conservati.
In questo modo è possibile misurare con precisione le attività motorie dei pazienti, creando database affidabili per indagini scientifiche sugli eventuali segnali di declino cognitivo e su possibili metodi di trattamento.
- What is the Alzheimer’s Gene “ApoE4”? | Alzheimer’s Organization ↑
- Differentiation of mild cognitive impairment using an entorhinal cortex-based test of virtual reality navigation | Brain | Oxford Academic (oup.com) ↑
- Bring the Outside In: Providing Accessible Experiences Through VR for People with Dementia in Locked Psychiatric Hospitals (kent.ac.uk) ↑