Automazione e digitalizzazione über alles. Cioè “al di sopra di tutto e al di sopra di tutto nel mondo” – come recita l’inno tedesco – non deve esserci più la Germania, ma il digitale e l’automazione (e anche la Germania si è avviata su questa strada, semmai anticipandola, vedi l’Industria 4.0 nata appunto in Germania).
Ma i rischi per il lavoro – la nuova disoccupazione tecnologica possibile/probabile con la digitalizzazione – non riguardano solo la vecchia e apparentemente evaporata (o integrata/sussunta nel sistema) classe operaia, ma anche i colletti bianchi, la classe media e pure il top dei colletti bianchi, cioè i manager (secondo Wright Mills). D’altra parte, non si parla e scrive da tempo di management algoritmico?
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Affascinante, la digitalizzazione – ma troppo spesso intesa solo come il nuovo che avanza e che non si deve fermare e non anche come il vecchio (fordismo-taylorismo) che ritorna e che si dovrebbe evitare. Diventa cioè – la digitalizzazione – un dato di fatto deterministico (“non ci sono alternative”) e disruptivo di società e ambiente se lasciamo che capitalismo e tecnica come apparato e sistema (che oggi si declinano appunto con digitale e digitalizzazione, nuova fase del tecno-capitalismo nato con la rivoluzione industriale) siano libere nel loro agire incontrollato.
Via gli operai, via anche i colletti bianchi, via i manager
I robot (intesi come IA/algoritmi/machine learning eccetera) stanno invadendo anche lo spazio degli impiegati e quadri in molte corporation statunitensi. Sostituendo così anche quello che pure negli anni ’90 il sistema tecno-capitalista chiamava lavoro intellettuale o lavoro cognitivo o lavoro immateriale. Quel nuovo lavoro che proprio le nuove tecnologie avrebbero permesso di svolgere, ciascuno potendo essere creativo e imprenditore di sé stesso se si fosse lasciato sedurre dalla “new era” e dalla new economy” tecnologica.
Oggi vediamo che quella era anche una trappola retorica per farci transitare senza opposizioni e senza resistenze – e soprattutto senza consapevolezza di ciò che stava realmente e concretamene accadendo – non all’allora vagheggiato postfordismo (e quante pagine sono state scritte a sproposito da economisti, sociologi e politici, ciechi di fronte a questo presunto cambio di paradigma), ma anche o soprattutto al taylorismo digitalizzato (alla divisione digitalizzata del lavoro capitalistico e industriale) di oggi (Industria 4.0, Wcm e dintorni), al capitalismo delle piattaforme e al capitalismo della sorveglianza.
Oggi – eterogenesi dei fini, oppure capitalismo che divora sé stesso e le sue promesse, oppure trasformazione pianificata posto che il tecno-capitalismo incessantemente pianifica e realizza la trasformazione della società in mercato e in fabbrica? – oggi il macchinismo digitale sostituisce anche quel lavoro cognitivo e sta producendo un forte rischio di disoccupazione tecnologica/cognitiva ai piani più alti della piramide del lavoro e dell’organizzazione capitalistica.
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Lo ricordava Kevin Roose in un articolo sul NYT di inizio marzo[1]. A volte sono semplici app scaricate dalla rete e installate dai dipartimenti di IT delle imprese, quindi qualcosa di facile facile da usare. Altre volte sono software decisamente più complessi e costosi e “armed with more sophisticated types of artificial intelligence, that are capable of doing the kinds of cognitive work that once required teams of higly-paid humans”. Fino a pochi anni fa, i white-collars workers – scrive Roose – sembravano relativamente salvi davanti ai processi di automazione/digitalizzazione. “But recent advances in A.I. and machine learning have created algorithms capable of outperforming doctors, lawyers and bankers at certain parts of their jobs”. Resta quindi ancora una parte umana e cognitiva/intellettuale di lavoro, ma il trend – “quietly building for years” – accelerating to warp speed since the pandemic”.
Quindi, è plausibile appunto immaginare che nei prossimi anni (o mesi?) il processo si intensificherà e che le macchine sostituiranno l’uomo anche in queste tipologie di lavoro cognitivo. Ovviamente, questo accade perché alle imprese conviene farlo (avendo la tecnologia per poterlo fare), in termini di riduzione dei costi e di massimizzazione dei profitti (privati), di intensificazione dei ritmi/tempi-ciclo e quindi della produttività (che economisti come Pierluigi Ciocca continuano a considerare il “principale motore dello sviluppo economico” quando è evidente che non lo è più); ma molto più interessante è vedere come lo fanno e come ci ingegnerizzano ad accettarlo.
Scrive infatti Kevin Roose: “Executives generally spin these bots as being good for everyone, streamlining operations while liberating workers from mundane and repetitive tasks”. E sono appunto e di nuovo le stesse (false) retoriche usate negli anni ’90 e poi nel primo e poi nel secondo decennio del duemila per imporre la flessibilizzazione del lavoro e la lean production e la precarizzazione della vita; sono le stesse retoriche usate anche da Taylor quando voleva far credere che la sua organizzazione del lavoro fosse scientifica, cioè razionale. È una forma di propaganda che il tecno-capitalismo usa abilmente ogni volta che un nuovo mezzo di connessione (ieri la catena di montaggio, oggi il digitale) permette una modifica nella sua organizzazione industriale del lavoro. Lo fa coscientemente e consapevolmente – e da più di un secolo la psicologia applicata al lavoro e oggi l’economia comportamentale lo aiutano in questa sua azione di incessante modificazione e di adattamento dell’uomo alle sue esigenze. Ciò che sta invece diventando imbarazzante è che noi ci crediamo ogni volta, immemori del passato e ci facciamo prendere/catturare da queste retoriche propagandistiche come se stesse arrivando qualcosa di veramente nuovo e che veramente aiuta l’uomo a liberarsi dal peso e dalla fatica del lavoro.
E invece la domanda dovrebbe essere: razionalizzare le operazioni e le procedure sì, ma secondo quale razionalità? Ovviamente – per il sistema – quella strumentale/calcolante-industriale che è poi l’essenza del tecno-capitalismo. Non certo quella di finalizzare l’attività economica privata alla utilità sociale, come imporrebbe ad esempio l’articolo 41 della Costituzione italiana. Perché se le macchine/AI razionalizzano le operazioni e le procedure (permettendo di massimizzare il profitto privato), “they are also liberating plenty of people from their jobs”, continua Roose: ovvero – aggiungiamo – sono del tutto irrazionali in termini sociali e di qualità della vita.
Che tutto questo avvenga poi durante la pandemia, dice esplicitamente quanto il sistema sia irrazionale e di come le imprese siano sempre meno socialmente responsabili ed anzi sempre più irresponsabili nel loro impatto sulla società e sulle persone[2]. Il che impone di ripensare urgentemente alla democratizzazione delle imprese dentro le imprese e al governo democratico e sociale dei processi di innovazione che – avendo un così potente effetto sulla società – non possono essere lasciati alla sola volontà degli imprenditori.
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Ma chi sono i colletti bianchi? Facciamo un passo indietro. Uscito nel 1951, “Colletti bianchi”[3] – “White collars. The American Middle Classes” – era il titolo di un importante e famoso saggio del sociologo statunitense Charles Wright Mills (1916-1962). Colletti bianchi cioè impiegati, parti della burocrazia e dell’organizzazione industriale oltre che statuale e civile. Classe media, soprattutto. Ma anche oltre il lavoro impiegatizio, salendo appunto anche verso l’alto della piramide del lavoro. Colletti bianchi che nascono nella e con la società industriale quando – erano gli anni ’50, ma sembra anche oggi – “un minor numero di individui manipola cose e un numero maggiore tratta persone e simboli”; e cioè “le loro particolari specializzazioni implicano il maneggio di carta, di denaro e di persone”[4].
Un processo – ancora – di razionalizzazione; a proposito della quale Mills scriveva amaramente: “Nel Settecento e nell’Ottocento la razionalità si identificava con la libertà. Le idee di Freud sull’individuo e quelle di Marx sulla società erano rafforzate dal presupposto che libertà e razionalità coincidono. Oggi la razionalità sembra avere assunto forme nuove e risiedere non nei singoli individui, ma nelle istituzioni sociali che con la loro pianificazione burocratica e le loro previsioni matematiche usurpano la libertà e la razionalità dei piccoli uomini che di esse sono prigionieri. Le gerarchie del grande magazzino e della grossa società industriale, dell’ufficio razionalizzato e dell’ente governativo, sensibili soltanto alla legge del calcolo, stabiliscono le grigie regole del lavoro e riducono a stereotipi le iniziative ancora permesse. E in tutta questa burocratica usurpazione della libertà e della razionalità, gli uomini dal colletto bianco rappresentano gli anelli intercambiabili delle grosse catene di autorità che tengono insieme la società”[5]. E oggi la razionalità che usurpa la libertà degli uomini dal colletto bianco si è fatta algoritmica/digitale, come le gerarchie, cambia apparentemente la forma ma non la sostanza dell’essere in realtà una prigione per l’individuo. Che semmai, perde oggi anche il suo lavoro di colletto bianco, sostituito dalla perfetta razionalità calcolante di un algoritmo.
I colletti digitali
Scriveva ancora Mills: “I colletti bianchi sono entrati silenziosamente nella società moderna. Se hanno avuto una storia, essa è priva di eventi; se hanno interessi comuni, non sono tali da farne una classe omogenea; se avranno un futuro, non sarà certo opera loro”, e oggi possiamo aggiungere che anche questa volta il loro futuro (o meglio: il loro non-futuro) non sarà opera loro, ma appunto di un algoritmo/digitale-digitalizzazione.
Anche la classe media (e sta scomparendo anch’essa) è dunque soggetta al dominio delle macchine e del capitalismo. Scriveva Augusto Illuminati nella sua Prefazione al libro di Mills – ricordando che il vero soggetto del libro non è la classe media, ma “il mito della classe media nell’ideologia americana e insieme la sua esemplare demistificazione”: “lo sviluppo capitalistico crea le condizioni per la formazione di un ceto medio apparente, e cioè di uno strato di lavoratori produttivi che percepisce retribuzioni superiori alla media del loro settore e inferiori ai redditi normali dei capitalisti, almeno dei medi e grossi. Si tratta di tecnici e anche di alcuni gruppi di operai altamente specializzati, degli scienziati e dei ricercatori legati alla produzione” – quelli che oggi chiamiamo lavoratori della conoscenza e dell’immateriale, dell’immaginario e degli algoritmi, se non stessero scomparendo anch’essi – “che pur avendo prestigio e tenore di vita elevato partecipano direttamente alla formazione del plusvalore e sono, oltre che sfruttati, sottomessi visibilmente (e dolorosamente, in contraddizione con le esigenze puramente tecnico-scientifiche) all’autorità del capitale e dei suoi concreti rappresentanti”[6].
Anche i white collars di oggi – in parte diversi (ma non del tutto) da quelli studiati da Wright Mills – e citati da Roose sono, oltre che sfruttati, sottomessi all’autorità del capitale. Sono appunto anelli intercambiabili – meglio: gettabili via come scarti – come lo sono i lavoratori delle piattaforme, come lo siamo tutti noi lavoratori del capitalismo della sorveglianza. Colletti bianchi che possono essere proletarizzati senza problemi dal sistema tecno-capitalista (vuoi vedere che aveva ragione Marx?), portandoci allo stesso tempo sempre più verso quella totalitaria società amministrata/automatizzata – oggi diciamo digitalizzata – di cui scriveva, temendola perché anti-umana e anti-individuo, la Scuola di Francoforte, in particolare Max Horkheimer, già più di mezzo secolo fa.
E il tecno-capitalismo di ieri come di oggi si fonda sulla divisione del lavoro e sulla ricerca di un’efficienza solo ed esclusivamente calcolante/quantitativa – per un plusvalore, da ottenere spremendo sempre più il pluslavoro degli uomini o sostituendo sempre più le macchine agli uomini, anche quando sono vecchi/nuovi colletti bianchi, anche quando sono lavoratori della conoscenza magnificati fino a ieri. E l’organizzazione industriale/razionalistica del lavoro – fordista o digitale che sia – è sempre divisione del lavoro e poi sua ricomposizione in una organizzazione, sfruttamento del pluslavoro e alienazione dell’uomo dal suo lavoro e da sé stesso.
La razionalità irrazionale
Ci servirebbe allora uscire da questa razionalità calcolante e organizzarci secondo una razionalità diversa, perché questa razionalità imprigiona appunto l’uomo e lo espropria della sua libertà e della stessa idea di razionalità. Perché, come scrivevano Marx ed Engels ne “L’ideologia tedesca”, sotto il dominio della borghesia (in realtà, del tecno-capitalismo e della sua razionalità strumentale/calcolante-industriale) gli individui sono più liberi di prima, ma solo nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva, quella che chiamo appunto tecno-capitalismo, “che gli è estranea, che lo domina, che lo assoggetta, anziché essere da lui sottomessa”[7].
E perché, come scriveva Raniero Panzieri agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, richiamandosi a Marx: “La tecnologia [in realtà preferiremmo usare il termine di tecnica, le tecnologie essendo le parti del sistema tecnico] incorporata nel sistema capitalistico consolida sistematicamente la divisione del lavoro quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro (…) ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista. Lo stesso progresso tecnologico si presenta quindi come modo di esistenza del capitale, come suo sviluppo [oggi arrivando appunto a digitale/IA/Industria 4.0/capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza] e nel moderno sistema di fabbrica l’automa stesso è il soggetto e gli operai [e ora aggiungiamo i colletti bianchi] sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale”. Per cui “lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento crescente del controllo capitalistico (…) nel progressivo espandersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato, all’area sociale esterna”[8].
Ovvero, tecnica e capitalismo sono un sistema integrato. Appunto, è tecno-capitalismo. Che avanza facendo tabula rasa di tutto ciò che incontra. La chiama innovazione, ma non sempre lo è.
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Bibliografia
- https://www.nytimes.com/2021/03/06/business/the-robots-are-coming-for-phil-in-accounting.html ↑
- Si rilegga: L. Gallino, “L’impresa irresponsabile”, Einaudi, Torino 2005 ↑
- C. Wright Mills, “Colletti bianchi. La classe media americana”, Edizioni di Comunità, Torino 2001 (la prima edizione in italiano risale al 1966, edita da Einaudi) ↑
- Ivi, pag. 96 ↑
- Ivi, pag. 14 ↑
- A. Illuminati, “Prefazione” (1966) a C. Wright Mills, “Colletti bianchi. La classe media americana”, cit., pag. XVII ↑
- . Marx – F- Engels (1932), “L’ideologia tedesca”, Bompiani, Milano 2011, pag. 359 ↑
- Cit. in L. Demichelis, “Noi, forza-lavoro del padrone Gafam. Da Raniero Panzieri alla rete-fabbrica-integrata”, 2020 – https://www.economiaepolitica.it/il-pensiero-economico/forza-lavoro-del-padrone-gafam-raniero-panzieri-rete-fabbrica-integrata/ ↑