Dopo l’era della informatizzazione e quella della digitalizzazione, la storia tecnologica della PA si sta muovendo verso l’era dell’interoperabilità. Sarà, quest’ultima, l’era del dato al servizio del processo e del servizio da erogare, in cui il dato diventa non un prodotto finale, ma un punto di partenza per decisioni consapevoli (#datagovernance).
I dati sono, insomma, il futuro della PA. Tutto, però, andrà nel verso giusto solo se in questa fase (era digitale), nel momento in cui rivisitiamo un processo o creiamo qualcosa di nuovo, penseremo in ottica “open data by design” cioè alla pubblicazione finale dei dati in formato aperto e interoperabile.
Nella fase di interoperabilità estrarremo poi il “data-oil” che ci servirà.
È oggi, dunque, che possiamo porre le basi per una PA davvero al servizio del cittadino, grazie ai dati.
L’era dell’informatizzazione
Una strada che comincia lontano. Anni ‘90, arrivano i computer e si passa dalle macchine da scrivere ai pc. Questo genera un cambiamento nei progressi generato dalle opportunità e dai vincoli creati dai nuovi strumenti. Spesso si tratta di una traslazione su computer di quanto fatto prima (su carta). A oggi, l’era informatica non è ancora finita, nonostante quello che si pensi, perlomeno a livello di PA. Ci sono ancora dirigenti che si fanno aiutare a scrivere lettere e hanno la segretaria per farlo, come fossimo all’epoca della macchina da scrivere. Quindi siamo, nel grafico sotto, all’adozione da parte dei laggards (gli ultimi irriducibili che quando entra una nuova tecnologia la usano solo se obbligati).
Digitalizzazione
È l’era in corso, iniziata con riforme avviate attorno all’inizio del secolo corrente, che hanno portato al CAD e poi al Team Digitale, a pagoPA spa, al Ministero dell’Innovazione e a quanto viviamo oggi.
La digitalizzazione prima della pandemia era allo stadio “innovators o early adopters” ovvero c’erano dei gruppi di visionari (nel senso di gente che ha vision, non di pazzi) che cercavano sui loro territori di spingerla e diffonderla nelle PA locali, e che erano una sorta di evangelizzatori di una dottrina che pochi professavano. Questi cercavano e cercano ancora oggi di far fronte a tutti i vincoli di “disinteresse” creati dal contesto (mancanza di risorse economiche, mancanza di competenze digitali, mancanza di attenzione della politica e dell’amministrazione dell’ente) per portare il “verbo digitale”, facendo capire che non è che una “spruzzatina di digitale” risolve tutti i problemi del mondo, ma sicuramente se ben fatto, aiuta. Qui si scontrano con i laggers del periodo dell’informatica, coloro che ormai sui 50-60 anni, hanno visto le macchine da scrivere e sono ancora preoccupati degli anziani che non possono pagare online, senza curarsi dei giovani che pagheranno solo online.
Il covid e il periodo che stiamo vivendo di convivenza con la situazione pandemica hanno permesso alla digitalizzazione di superare il chasm (il punto che separa una tecnologia o una tendenza dall’essere di nicchia a diventare mainstream) e far diventare la digitalizzazione una tendenza pull (trainata dal mercato e dalla richiesta di digitale) e non una tendenza push (spinta dagli innovators e dai creatori di nuovi significati).
La digitalizzazione è fondamentalmente rivisitazione dei processi in ottica digitale, non vedendo più il processo come immutabile oggetto di cui l’informatica è componente asettico, ma come oggetto di creta che viene modellato dalle esigenze dell’utente finale (#citizenfirst), che viene aiutato dall’informatica e dalle tecnologie ICT (#digitalfirst #cloudfirst), e che diventa cuore del cambiamento dei servizi erogati dalla PA.
Siamo ancora nel bel mezzo del guado, per certi versi all’inizio, dell’era digitale per la PA. Rimangono ancora numerosi vincoli: da una classe dirigente che non ne coglie l’essenza, a personale di età troppo elevata, scarso turnover, un sistema ancora molto burocratizzato. Del resto ci siamo dentro e qualcosa dobbiamo fare per spingere la situazione verso soluzioni più a portata di mano delle prossime generazioni, native digitali. Inoltre, il covid ci sta dando una mano: ragionare di smart working (#lavoroibrido) significa ragionare di digitalizzazione in maniera molto più profonda di prima. Questo perché il cambiamento organizzativo generato dal covid richiede molta competenza digitale per essere fatto oltre che manageriale.
Interoperabilità
La prossima era, sarà, dunque, quella in cui il dato diventa punto di partenza per decisioni consapevoli.
Per fare queste nuove scelte consapevoli, anche in ottica dei soldi che arriveranno e che l’Europa ci darà solo se li metteremo a terra con cambiamenti reali, ci servono dati e ci serve che i dati ci diano informazioni utili.
Il processo di raccolta dati e informazioni nella PA locale è ancora embrionale e spesso non c’è nemmeno una cultura del dato. I dipendenti delle PA nel periodo covid hanno capito che hanno la necessità di accedere ai loro applicativi, ma spesso non hanno capito che in verità l’applicativo è solo un “vestito” per il dato. Se il dato fosse vestito da un’artista “cloud” molto probabilmente sarebbe più fruibile, più facilmente raggiungibile, più facilmente modificabile, cross platform e probabilmente anche più sicuro da certi punti di vista. Del resto per ora il dato è vestito da un’artista “client server on premise” e quindi in talune situazioni dobbiamo accontentarci delle VPN.
I passi avanti della PA centrale
La PA centrale invece sta facendo passi avanti importanti da questo punto di vista.
Anpr è sicuramente il più importante esperimento di accentramento di dati (le anagrafi) degli enti locali. Avere tutti i dati in un unico punto crea numerosi vantaggi:
- è fondamentalmente un backup remoto dei dati anagrafici degli enti locali che prima, se avessero perso l’anagrafe avrebbero dovuto ricostruirla a partire dai libri. Oppure, volendo girare la prospettiva, sono le anagrafi dei comuni, il backup decentralizzato dei Anpr.
- permette di fare analisi statistiche, di movimenti di persone, di trend, di fasce di età, cosa prima impossibile
- permette di tenere uno storico (che si sta costruendo nel tempo dal momento in cui un comune entra in Anpr), con possibilità di avere fra 10-20-30 anni una valutazione delle dinamiche anagrafiche della popolazione.
La cosa più importante è che è la porta più evidente per entrare nel mondo dell’interoperabilità. Il vero valore di Anpr non è da racchiudersi in quanto indicato sopra (sebbene importante di suo), ovvero in una raccolta di dati. Il processo non sarà completato quando il 100% dei comuni sarà in Anpr, anzi il bello inizierà proprio lì, quando l’Anpr verrà resa fruibile, mediante profilazione degli accessi, per applicare davvero il principio #onceonly, ovvero grazie interrogazione di Anpr non sarà più necessario dichiarare ogni volta la propria identità con una autocertificazione, a nessun ente. Perchè il mio dato che è patrimonio mio e di Anpr, sarà fruibile da tutti gli enti della PA, previa richiesta e verifica di profilazione.
Sarà infatti sufficiente su un sito online fornire le proprie credenziali Spid o Cie per passare al fornitore di servizi (chi ha fatto il sito per la finalità di erogare un servizio) il proprio codice fiscale e tramite questo il fornitore di servizi potrà chiamare Anpr chiedendogli i nostri dati , successivamente visualizzandoli e chiedendoci solo un “ok” per procedere. Fantastico no?
Nuove dimensioni nel mondo dei dati grazie a Spid, Cie, IO
SPID/CIE/IO e pagoPA permettono inoltre di creare nuove dimensioni nel mondo dei dati e dell’interoperabilità.
Partiamo dai dati puri.
Sarebbe importante come punto di partenza, ottenere per SPID e CIE:
- numero di spid o cie emesse,
- distribuzione geografica per comune,
- distribuzione per fasce di età per comune,
- distribuzione degli accessi per comune con spid/cie ai servizi in tutta Italia,
- distribuzione degli accessi per comune con spid/cie ai servizi geolocalizzata.
Questo per fare alcuni esempi, il tutto in opendata sempre aggiornato.
Pensate a un piccolo uso: se un ente di quelli ha un tasso elevato di spid/cie emesse nella fascia 20/30 anni, si potrà dire al sindaco: digitalizziamo i servizi, che i tuoi cittadini/elettori di oggi e domani ne saranno felici perché gli strumenti di autenticazione hanno un tasso di penetrazione alto.
Oppure ci si potrebbe accorgere, e rimediare, che Spid e Cie hanno un tasso di penetrazione alto, ma sul territorio non ci sono servizi digitali accessibili con Spid e Cie.
Oppure ancora, si potrebbero cercare servizi digitali non per nome, non per ente, ma per geolocalizzazione guardando una mappa e vedendo che servizi digitali offre la mia zona senza bisogno di dover sapere dove andare o cosa fare. Una sorta di “maps” dei servizi-digitali-della-pa.
Per l’app Io vale lo stesso: se so che nel comune 300 cittadini su 3000 hanno scaricato IO, il tasso di penetrazione è noto. Quindi l’amministrazione potrebbe pensare a una campagna di informazione per portare a 1000 i cittadini IO-muniti, aumentare i servizi digitali inseriti nell’app, capire se c’è mancanza di Spid e Cie per l’acceso, o altro. Il tutto disponibile e in opendata.
Ragionamento affine per pagoPA: sapere che il 30% dei cittadini ha pagato la tari con pagoPA è sicuramente utile, e può essere raffinato come dato per capire con che modalità (mod1 o mod3) con che canale (IO, home banking, portale cittadino, fisico, pos@pa) Il tutto disponibile in opendata per fare data governance e spreading governance (ipotizzare una politica di diffusione mirata di piattaforme abilitanti e strumenti digitali).
Tutti i dati generati dalla piattaforme della pubblica amministrazione potranno dunque aiutarci nell’interoperabilità di domani (e oggi), ma anche permetterci di fare ragionamenti che vanno ben oltre la semplice adozione, push o pull che sia.