Si stringe sempre più, anche se con spasmodica lentezza, il cerchio della politica intorno alle big tech. I legislatori americani mostrano di volerle tenere sulla graticola, alla ricerca di nuovi equilibri regolatori.
Lo si è visto qualche giorno fa, quando gli amministratori delegati di Facebook, Twitter e Google hanno affrontato, durante una tesa audizione istituzionale, le domande dei dei membri della commissione parlamentare del Congresso USA. Interessati soprattutto ad approfondire i concreti profili di responsabilità delle aziende rispetto all’attacco del Campidoglio USA e alla crescente diffusione della disinformazione online.
Problemi considerati non più tollerabili al punto da giustificare – questa è l’ipotesi di lavoro – l’introduzione di una nuova legislazione “bipartisan” che limiti la discrezionalità delle piattaforme e quindi il loro potere.
In realtà dalle audizioni sono emersi solo alcuni punti fermi. Repubblicani e democratici sono d’accordo che le big tech hanno troppo potere e che servano nuove regole.
Al di là di questo è terra incognita e le stesse audizioni non hanno permesso di fare passi avanti pratici e concreti.
Rivedere la Sezione 230, meno protezioni alle big tech
Sta crescendo insomma un ampio consenso politico per imporre nuovi limiti alle aziende high-tech, superando l’attuale disciplina “iper-protettiva” prevista Sezione 230 del “Communications Decency Act” del 1996, che riconosce uno specifico “scudo legale” di immunità contro il rischio di pubblicazione di contenuti illeciti online immessi dagli utenti terzi. Com’è noto, il 230 garantisce così ai gestori dei siti web e agli intermediari telematici un esonero di responsabilità dalle conseguenze dannose provocate sulle loro piattaforme, a tutela della libertà di espressione su Internet, così da consentire che gli operatori virtuali siano legislativamente protetti per evitare di incorrere in responsabilità al di fuori delle ipotesi eccezionali specificamente previste dalla normativa.
Facebook fa passi avanti, Google no
Una novità importante è arrivata nelle audizioni da Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Per la prima volta ha riconosciuto la necessità di apportare modifiche alla disciplina originaria introdotta dalla Sezione 230 e ha proposto il principio che che questa protezione vada meritata dalle aziende tecnologiche. Ossia vada offerta solo a quelle che mettono in campo strumenti e attività per moderare i contenuti illeciti e pericolosi.
Allo stesso tempo Zuckerberg ha affermato che se nonostante tutti gli strumenti adottati appaiono contenuti pericolosi, le aziende tech non devono pagarne le conseguenze. Zuckerberg inoltre vorrebbe che le aziende più piccole, startup innovative, devono comunque godere di questa protezione.
Google invece è contrario a queste modifiche, le considera comunque pericolose per l’innovazione e potenzialmente lesive per la libertà di espressione.
Divisioni politiche
Ma sembrano divisi anche i politici. I Repubblicani sono preoccupati soprattutto di quella che considerano censura di Facebook, Twitter e Google ai danni di contenuti e utenti conservatori (le big tech hanno invece sempre ribadito neutralità politica). I Democratici invece vorrebbero una maggiore responsabilizzazione degli intermediari nei confronti dei contenuti illeciti e cavalcano il tema di nuove regole antitrust per limitarne il potere.
Le indagini Antitrust
A questo proposito, la Federal Trade Commission, nell’ambito delle numerose attività ispettive “antitrust” condotte nei confronti dei “Colossi del Web”, sta svolgendo un’inchiesta in fase avanzata su Facebook, riguardante l’acquisizione di potenziali concorrenti (Instagram e WhatsApp), con effetti distorsivi del mercato, annunciando contestualmente l’apertura di ulteriori verifiche estese anche ad Amazon, Apple, Google e Microsoft.
Il tutto è ancora comunque nelle fasi iniziali. Emblematica, ad esempio, l’indagine antitrust contro Google dagli esiti incerti, senza dimenticare i recenti rapporti sulle attività di Amazon e Apple, a conferma di un serio interesse di approfondimento dedicato alle principali società tecnologiche.
Big tech, troppo potere: tutte le proposte per risolvere il dilemma del decennio
Il lobbismo digitale
Inoltre potrebbe pesare il potere lobbistico esercitato dai “colossi del web”, come si evince da un report a cura di Public Citizen che, sulla base dei dati forniti dal Center for Responsive Politics, rileva come negli ultimi anni, Amazon, Apple, Facebook e Google abbiano “esercitato un’influenza senza precedenti sul circuito democratico” grazie ad un’intensa attività di lobbying, superando addirittura Big Oil e Big Tobacco, considerato che nel 2020 Amazon e Facebook hanno speso quasi il doppio di Exxon e Philip Morris in attività di lobbismo, con una quota complessiva di 124 milioni sostenuta dalle “Big tech” per contributi elettorali.
Il risultato ottenuto è stato di aumentare da 293 nel 2018 a 333 nel 2020 l’esercito dei lobbisti “digitali”, non solo sempre più numerosi, ma anche tra i più influenti a Washington.
Quasi tutti (94%) i membri del Congresso con competenze su questioni di privacy e antitrust hanno ricevuto contributi anche indiretti dalle di Big Tech.
Oltre alla spesa per lobbying, le società Big Tech adottano anche ulteriori strategie sofisticate per influenzare la legislazione che prevedono il reclutamento di ex membri dello staff del Congresso, funzionari della FTC e altri funzionari governativi per fare pressione sui loro ex colleghi, capi e agenzie come aspetto fondamentale di influenza politica di Big Tech.
La resa dei conti?
Insomma, la ricerca di nuovi equilibri sarà complessa per molti motivi: ci sono divergenze di vedute sia tra le big tech sia tra i politici e forti interessi in gioco.
Ciò che è assodato è solo una maggiore consapevolezza da parte della politica e una maggiore sensibilità delle big tech nei confronti delle proprie responsabilità. Oltre ai passi avanti di Facebook, si segnala che Jack Dorsey, capo di Twitter, ha ammesso alcune responsabilità della propria piattaforma nei confronti della disinformazione online che ha portato all’attacco del Congresso da parte di suprematisti bianchi convinti che le elezioni fossero rubate.
Nel corso del ciclo di audizioni, i parlamentari hanno formalizzato sul piano politico gli addebiti contestati ai CEO delle big-tech responsabili di aver creato “macchine” lucrative dalla inesauribile proliferazione di profitti senza tuttavia la capacità di contenere il dilagante fenomeno delle fake news, provocando gravi fattori di disordine sociale a causa di contenuti orientati ad incentivare l’odio e la violenza in modalità virale senza alcuna possibilità di controllo.
Ma sarà complesso trovare nuovi equilibri anche perché si tratta sempre di bilanciare interessi contrapposti.
I “colossi” del web, senza mettere in discussione la “conquista” ottenuta in loro favore per effetto della Sezione 230, hanno evidenziato strenuamente gli sforzi delle loro aziende per eliminare i contenuti sempre più tossici pubblicati online nell’ambito di un complesso bilanciamento i diritti connessi alla libertà di espressione.
Da tutelare anche la spinta all’innovazione – che potrebbe essere soffocata da regole troppo stringenti, secondo alcune big tech (Google in testa). D’altro canto, cresce anche il partito di chi, anche in Europa, sostiene che le attuali regole troppo leggere stanno invece soffocando concorrenza e quindi innovazione.
Non è ancora chiaro quali saranno le nuove regole e i nuovi equilibri. Ma sembra assodata la forte volontà di molti di cambiare l’attuale status quo, considerato ormai inadeguato all’attuale livello di maturità delle piattaforme digitale e al loro peso sulla nostra economia e società.