il commento

Briciole per le startup nel PNRR e DL Sostegni: si deve fare di più

Poche briciole e sparse, senza strategie né competenze centrali, per le startup nel Pnrr: un miliardo di euro. Ci sono prospettive di ampliamento, con lo stesso Pnrr e con il DL Sostegni (che ha in bozza una detassazione capital gain) ma restano problemi di base nell’approccio del Governo al tema

Pubblicato il 05 Mag 2021

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

Nascono le Business Shower: un’idea di Elon Musk innova le relazioni

Alla luce della versione resa recentemente pubblica del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sulle startup il risultato sembra deludente – c’è circa un miliardo di euro -, ma potrebbe non essere tutto qui: proviamo a fare delle riflessioni laterali e di contestualizzazione sul documento, per capire perché le cose non sono ancora del tutto definite e potrebbero andare meglio.

Cosa c’è sulle startup nel PNRR

Partiamo da cosa sicuramente c’è di quantificabile all’interno del documento approvato dal Parlamento, iniziando dai punti più chiari per scendere poi verso quelli sfumati:

Missione 4 – Componente 2 – Dalla Ricerca all’Impresa

A pag. 200 nell’investimento 3.2 troviamo il “Finanziamento di start-up: La misura è finalizzata ad integrare le risorse del Fondo Nazionale per l’Innovazione, lo strumento gestito da Cassa Depositi e Prestiti per sostenere lo sviluppo del Venture Capital in Italia. Attraverso questa iniziativa, implementata dal MiSE, sarà possibile ampliare la platea di imprese innovative beneficiarie del Fondo, finanziando investimenti privati in grado di generare impatti positivi e valore aggiunto sia nel campo della ricerca sia sull’economia nazionale. L’investimento consentirà di sostenere 250 piccole e medie imprese innovative con investimenti per 700 milioni di euro (partecipazione media pari a 1,2 mln di euro)”. La quota di investimento assegnata all’investimento 3.2 è di 300 milioni.

Questa è una misura “orizzontale”, cioè agnostica rispetto a settori specifici, con la particolarità positiva di essere affidata già dalla norma, attraverso il Ministero per lo Sviluppo Economico, a CDP Venture Capital – Fondo Nazionale Innovazione, con chiarezza. Dato il taglio molto chiaro delle operazioni di investimento prestabilito a livello normativo, che discende dal dover sostenere 250 “deal” con importo medio di 1,2 milioni di euro ciascuno, si presuppone che vada a rifinanziare Fondo Rilancio o qualcosa di simile a questo veicolo operativo dallo scorso gennaio, comunque necessariamente dedicandosi alla fase Seed (investimenti tra 500mila e 4 milioni di euro su imprese pre-ricavi), e se così fosse sarebbe dimensionato in modo abbastanza proporzionato. Sarebbe invece del tutto inappropriato se fosse rivolto a startup di fasi successive, perché l’importo assegnato renderebbe impossibile investirne 250 come prescritto. Non si comprende bene, infine, il riferimento ai 700 milioni di euro: l’idea è quella di un matching fund 1 a 2 (1 euro del fondo ogni 2 di privati)? Se così fosse, sarebbe molto peggiorativo rispetto a Fondo Rilancio, che interviene fino 4 a 1.

Missione 2 – Componente 2 – Energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile

All’investimento 5.4 si legge: “A tal fine, l’intervento prevede l’introduzione di un fondo dedicato (“Green Transition Fund”, GTF) con strategia di investimento focalizzata sui settori specifici e a copertura delle diverse fasi di sviluppo, con investimenti nei fondi più rilevanti di Venture Capital con focus green, in startups e incubatori/programmi di accelerazione, affiancando i più rilevanti VC managers e operatori del sistema.”. La quota di investimento assegnata all’investimento 5.4 è di 250 milioni.

Questa invece è una misura, come si suol dire “verticale”, che prevede la costituzione di un fondo che investa direttamente in startup, ma anche indirettamente in fondi di Venture Capital e programmi di accelerazione nell’ambito della transizione ecologica. Fortunatamente non ci sono vincoli di numero di investimenti come nella misura precedente, e viene chiarito che si deve intervenire nelle diverse fasi di sviluppo, ma c’è da dire che l’importo dello stanziamento, per un verticale potenzialmente molto ampio come la transizione ecologica è davvero scarso: se si pensa che all’estero ci sono singole startup tech che raccolgono somme simili da fondi privati, si può dire che 250 milioni per fare sia attività di Fondo di Fondi, che interventi in acceleratori ed infine anche diretti in startup siano ben poca cosa. Questa dotazione è sottodimensionata, rispetto agli obiettivi, di un ordine di grandezza. Quello che è davvero poco chiaro, però, è chi sia il soggetto attuatore: è il Ministero per la Transizione Ecologica? Ma questo Ministero neocostituito non è ancora del tutto operativo, e comunque necessiterebbe la costituzione di un fondo ad hoc presso di sé come il fondo per il sostegno al venture capital istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico. E con quali competenze e in che forma, poi, si intende far arrivare sul mercato questa dotazione?

Missione 1 – Componente 3 – Turismo e cultura

Nell’investimento 1.1: “Sarà inoltre sostenuta la creazione di nuovi contenuti culturali e lo sviluppo di servizi digitali ad alto valore aggiunto da parte di imprese culturali/creative e start-up innovative, con l’obiettivo finale di stimolare un’economia basata sulla circolazione della conoscenza.”. La quota di investimento assegnata all’investimento 1.1 è di 500 milioni.

Anche questa è una misura “verticale”, che fissa una dotazione di intervento per un calderone di imprese culturali e creative (storica bandiera del PD) e startup presumibilmente “CultureTech”, ma è totalmente indefinita rispetto a quella precedente: innanzitutto non è chiaro se si intenda utilizzare il Venture Capital o se sono soldi per bandi tradizionali (il fato ce ne scampi…), non si parla di taglio medio, di numero di operazioni, di fasi di sviluppo. Per come è scritta è sostanzialmente la copertura di un budget da allocare al Ministero della Cultura, che agirà come meglio crede. Anche in questo caso, senza le competenze per gestire misure simili.

Se un miliardo di euro non può bastare

Questi sono i tre passaggi che allocano esplicitamente delle risorse per le startup. Ad essere ottimisti, quindi, da una analisi letterale sembrerebbe che per le startup nel PNRR ci sia circa 1 miliardo di euro. Davvero poco, se si pensa che questi fondi non arrivano per altro che per costruire l’economia del futuro, con attenzione sui giovani e sull’andare incontro alle sfide di domani. Cosa di meglio quindi, in un’ottica simile, rispetto alle startup tecnologiche? Dovrebbero essere queste a fare la parte del leone nel piano per costruire in modo solido la nuova economia del Paese in ottica futura.

Il PNRR poi cita ancora le startup in alcuni altri passaggi, ma in modo molto vago, come beneficiarie di generici supporti e benefici.

Perché non è finita qui

Ma per capire che potrebbe non essere finita qui è necessario renderci conto che il piano che verrà davvero finanziato dall’Unione Europea deve essere di ben altro livello di dettaglio, con computo puntuale dei tempi e dell’impatto previsto dai singoli progetti, con criteri di misurabilità, e con liquidazione delle spese consuntivate a stati di avanzamento lavori.

Mentre questo documento approvato è, al momento, ancora un mero collettore di budget: un grande libro di cui è scritto tutto l’indice ma non il dettaglio di contenuto dei capitoli. L’accettazione di questo piano – che non è un piano – da parte di Bruxelles può essere vista esclusivamente come un favore all’Italia e come atto di fiducia verso il Premier Mario Draghi, ma si tratta di un documento programmatico sui capitoli di spesa con cui potremo ricevere l’anticipo previsto per la primissima fase, ma con cui realisticamente mai e poi mai vedremo più un trasferimento dopo il primo anticipo – a meno che la sostanza del piano non diventi molto più dettagliata e solida, con progetti di dettaglio che potrebbero nuovamente impattare sulle startup.

Quindi la realtà è che, per le startup, potrebbe ancora esserci margine perché il PNRR vi si dedichi ben più di quanto non appaia a questo stadio: poche tipologie di investimento possono produrre impatti misurabili e concreti, in un solo quinquennio (quale è l’orizzonte temporale obbligatorio di questi fondi), come la capitalizzazione di nuove imprese.

La bozza DL Sostegni e startup

A tal proposito, proprio in un documento diverso, cioè la bozza del DL Sostegni – BIS che sta circolando in questi giorni, si potrebbe riscontrare un esempio di azioni ancora da mettere in campo e che potrebbero andare ad essere coperte dal budget PNRR.

Nel documento, fatto circolare dal MEF, si legge questo interessante articolo 12:

(Tassazione capital gain start up innovative)

  1. Non sono soggette a imposizione le plusvalenze di cui all’articolo 67, comma 1, lettere c) e c-bis), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, realizzate da persone fisiche, derivanti dalla cessione di partecipazioni al capitale di imprese start up innovative di cui all’articolo 25, comma 2, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, acquisite mediante sottoscrizione di capitale sociale dal XXXX 2021 al XXX 2025 e possedute per almeno tre anni. Al fine dell’esenzione di cui al primo periodo sono agevolati gli investimenti di cui agli articoli 29 e 29-bis del decreto legge n. 179 del 2012.
  2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche alle plusvalenze, di cui all’articolo 67, comma 1, lettere c) e c-bis), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, realizzate da persone fisiche, derivanti dalla cessione di partecipazioni al capitale di piccole e medie imprese innovative di cui all’articolo 4 del decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3, acquisite mediante sottoscrizione di capitale sociale dal XXXX 2021 al XXX 2025 e possedute per almeno tre anni. Al fine dell’esenzione di cui al primo periodo sono agevolati gli investimenti di cui all’articolo 4, commi 9 e 9-ter, del decreto legge n. 3 del 2015.
  3. Non sono soggette a imposizione le plusvalenze di cui all’articolo 67, comma 1, lettere c) e c-bis), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, realizzate da persone fisiche, derivanti dalla cessione di partecipazioni al capitale in società di cui agli articoli 5, escluse le società semplici e gli enti ad essi equiparati, e 73, comma 1, lettere a) e d), del medesimo testo unico, qualora e nella misura in cui, entro un anno dal loro conseguimento, siano reinvestite in imprese start up innovative di cui all’articolo 25, comma 2, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, o in piccole e medie imprese innovative di cui all’articolo 4 del decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3, mediante la sottoscrizione del capitale sociale entro il XXX 2025.
  4. L’efficacia delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 è subordinata, ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta a cura del Ministero dello Sviluppo Economico.

Questo articolo, nei commi 1 e 2 va a creare una detassazione delle plusvalenze in capo agli investitori in startup e PMI innovative, in via temporanea, per gli investimenti effettuati da persone fisiche tra il 2021 ed il 2025: è proprio l’arco temporale coincidente con quello del PNRR che suggerisce che la previsione di copertura sia collegabile al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

La detassazione della mera plusvalenza potrebbe essere un buon incentivo, anche se incentivare la detassazione all’exit potrebbe non avere chissà quale effetto positivo trattandosi di un cosiddetto nice to have problem, che interviene cioè quando l’operazione di investimento ad altro rischio è andata bene e si sta guadagnando. Ma il problema degli investimenti privati in startup non è all’uscita, bensì nella limitazione all’entrata, dove la percezione del rischio è elevata – e lo è se si investe nel modo sbagliato, scegliendosi singole opportunità, anziché costruendosi un ampio portfolio – e dove lo Stato dovrebbe agire con maggior decisione per far superare questa resistenza culturale. Meglio dei commi 1 e 2 potrebbe fare il comma 3, infatti, che non ha carattere temporaneo e soprattutto è un incentivo ad entrare nel capitale delle startup per investitori in altre tipologie di imprese: la detassazione delle plusvalenze, in questo caso, vale infatti senza limiti temporali ma ne beneficia chi guadagna dalla cessione di partecipazioni di società in genere, e reinveste questi redditi in startup e pmi innovative entro un anno. E’ sottinteso che poi, dalla successiva cessione (con auspicabile guadagno) di queste ultime partecipazioni, ove successiva al 2025, lo Stato si aspetti di tornare nuovamente ad attuare un prelievo.

Questo semplice esempio, ricondotto ad una visione di perimetro non ancora rigidamente fissato dei contenuti del PNRR, può lasciare maggiormente ottimisti sull’impatto reale che questo stanziamento eccezionale potrebbe avere sull’ecosistema delle nuove imprese tech che tanto langue nel Paese.

Le preoccupazioni: né competenze né strategia

Resta la preoccupazione però del fatto che, si i tecnici hanno chiaro cosa fare, manchi ancora una visione d’insieme, una essenza di piano organico, e non è difficile stupirsene: la nascita di questo documento è stata particolarmente travagliata, frutto non tanto di una visione strategica di insieme ma di una raccolta di richieste da parte dei Ministeri e dei partiti, arrivando a quello che alcuni hanno definito – non a caso – una sorta di minestrone. In più, il punto di arrivo attuale è avvenuto a valle di un braccio di ferro politico che ha prodotto un cambio di Governo, facendo perdere mesi preziosi, e solo nelle ultime settimane la struttura “blindata” installatasi al MEF per volontà del Premier Mario Draghi e vigilata dal Ministro Franco ha potuto davvero metterci mano con cognizione di causa, ma non con il tempo necessario a poter fare un lavoro che andava avviato fin dalla scorsa estate adottando una cultura e capacità progettuale che è sconosciuta alla nostra Pubblica Amministrazione.

Infine, la preoccupazione maggiore: la cognizione di cosa sia l’ecosistema startup, o filiera del venture business che dir si voglia, e di quanto l’economia “che deve arrivare” sia più rilevante delle clientele di quella esistente, all’interno della compagine di Governo e delle forze che lo sostengono è chiaramente, e non da oggi, pressoché nulla.

Poche competenze in politica

L’assenza di un centro di competenza sul settore, che sappia comprendere e trasmettere in modo forte alla politica la cultura del nuovo, che sia in grado di riconoscere quale sia la parte sana del settore da sostenere, quale da attrarre dall’estero, quale da mettere ai margini, e dove si annidino i problemi da risolvere perché si inverta la tendenza della fugga all’estero di talenti e si cessi di alimentare un “circo” delle startup ipermediatico, autoreferenziale e predatorio, inizia ad essere un problema ben più serio degli stanziamenti ridotti.

Qualsiasi somma investita dallo Stato, in assenza di competenza e di una strategia, rischia di finire sprecata da soggetti inadeguati o – peggio – depredata da furbetti, come è già stato ed è con gran parte delle risorse già dispiegate.

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