Appare indubbio poter affermare che il sogno di ogni criminologo e delle forze dell’ordine sia quello di poter prevedere quando e con quali modalità un crimine potrà verificarsi in una determinata regione geografica, così da poterlo scongiurare assicurando al contempo i responsabili alla giustizia.
Ma è possibile affermare che conoscendo il reo, la sua personalità ed il suo bio-tipo criminale nonché l’ambiente ove costui prevalentemente vive e quindi opera, si possa prevedere la commissione da parte di quest’ultimo di atti criminali? Esiste in altri termini un modello giuridico e criminologico improntato a schemi matematici in virtù dei quali si possa giungere a una tale previsione? È la domanda principe quella che ci stiamo ponendo, ed essa rappresenta un interrogativo che alcuni illustri si sono posti, ma senza che costoro tuttavia siano stati in grado di giungere a una riposta che possa essere ammantata dalla certezza.
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La giustizia predittiva e il fenomeno della pericolosità sociale
Quella della giustizia predittiva non è solo appannaggio del fanta-diritto, basti pensare alla celebre pellicola “Minority Report” del geniale regista Steven Spielberg. Nel richiamato film, si ventilava l’ipotesi della nascita del Precrimine giacché grazie a tre poliziotti, tutti dotati di poteri extrasensoriali di precognizione chiamati Precog, la polizia riusciva a intercettare gli omicidi prima della loro manifestazione arrestando i potenziali “colpevoli” e ciò si verificava anche in virtù dell’applicazione di particolari algoritmi di IA per predire l’esito dei crimini. Dalla predetta visione futuristica discende tuttavia l’asserto volto a dimostrare quali siano le reali possibilità che un soggetto, già dichiarato reo, possa attuare crimini nel futuro.
Discutiamo pertanto della pericolosità sociale di un individuo. L’art. 203 dell’attuale Codice penale italiano declina il concetto volto ad affermare che una persona, la quale abbia già perpetrato reati, è socialmente pericolosa quando, ancorché non imputabile o non punibile, sia reputata capace in ordine al commettere fatti nuovi previsti dalla legge come reati. Invero, a proposito degli incisi contenuti nel prefato articolo, dal punto di vista squisitamente giuridico sarebbe più corretto parlare non solo di “reato”, ma anche della tipologia di avvenimenti sintomatici atti a rivelare in una persona le potenzialità volte a commettere fattispecie “quasi criminose” ovvero: i cosiddetti “quasi reati” dei quali a breve disserteremo. Quanto finora rilevato è dimostrabile atteso che, le dottrine penalistiche hanno coniato una classificazione dei pericolosi sociali suddividendoli in:
- pericolosi imputabili, i quali abbiano commesso un reato (artt. 102 e ss. c.p.),
- i pericolosi non imputabili, quando costoro abbiano violato la legge penale (artt. 88 e ss. c.p.) ancorché non capaci di intendere e di volere (si veda il paragrafo precedente)
- i pericolosi imputabili cui sia stato ascritto un quasi reato (artt. 49 e 115 c.p.).
La valutazione del pericoloso sarà pertanto oggetto di attenta valutazione da parte degli operatori del settore (criminologi, assistenti sociali, magistrati incaricati, psichiatri e psicologi forensi) che impiegheranno a tal proposito protocolli criminologici di matrice medica clinica, usualmente utilizzati, sin dai tempi del celebre criminologo Benigno Di Tullio (1950), il quale per primo, fondando la criminologia clinica, utilizzò criteri propri dell’arte medica quali: la diagnosi, prognosi e terapia per contrastare, comprendere e contenere il fenomeno della pericolosità sociale all’interno della società. In virtù delle considerazioni appena stilate, la tematica giuridica e criminologica in parola dovrà necessariamente essere ponderata in un’ottica multidisciplinare e ciò in virtù degli studi scientifici che attualmente hanno appurato l’origine multifattoriale della pericolosità sociale a partire dagli studi della Scuola positiva di fine 800 come già tratteggiato, sino ad addivenire all’impiego delle neuroscienze in campo criminologico e agli apporti che la criminologia odierna, le cui radici scientifiche affondano nell’antropologia criminologica, è in grado di fornire agli operatori forensi. Quanto sino a ora è stato esposto riveste importanza al fine di stabilire, con margini più o meno ampi, la probabilità che il pericoloso sociale, in futuro, possa probabilmente essere in grado reiterare azioni criminali.
Pericolosità sociale, la giurisprudenza
La Cassazione penale, con una pronuncia che ancorché datata, ma che tuttavia appare emblematica, ha affermato che la pericolosità sociale può desumersi da situazioni che giustificano sospetti o presunzioni, purché entrambi fondati su elementi obiettivi, e fatti specifici ed accertati (Cass. pen., Sez. I, 9 aprile 1968, n. 590), come ad esempio, per i soggetti indiziati, accompagnarsi a pregiudicati, assumere atteggiamenti omertosi, esser privi di stabile lavoro, od esser stati raggiunti da denunce penali; una commistione, insomma, che vede la persona porsi in relazione con l’ambiente nella quale essa vive e opera.
Una più recente sentenza di Piazza Cavour, datata 25 marzo 2010, pietrifica con maggiore rigore alcuni parametri volti a definire in nuce alcuni dati semeiotici atti a rivelare la pericolosità sociale in forma larvata. Ebbene nella succitata sentenza viene enunciato a chiare lettere che l’essere assolti, anche in modalità irrevocabile, da un fatto di reato non comporta tout court l’automatica esclusione della pericolosità sociale. Ma perché secondo i giudici ermellini ciò si dovrebbe verificare? Orbene, la sentenza recita che il giudizio di pericolosità sociale deve essere fondato su elementi certi e che tali segni (o signa come latinisticamente si diceva a proposito delle prove raccolte sul luogo del delitto) non devono avere necessariamente i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 192 del c.p.p., in effetti, anche le misure di prevenzione sono state applicate nei confronti di individui soppesati di appartenere alla mafia, continua la Corte di Cassazione, nell’excursus, e ciò anche prima della loro condanna. Ora applicando tale ragionamento al caso di specie inerente alla pericolosità sociale, ebbene elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per addivenire ad una certa condanna, possono tuttavia giustificare che l’individuo/i in questione possano in futuro commettere dei reati. (Cass. Pen. Sez. II, sentenza 28 maggio 2013 n. 35714). Quanto descritto è prodromico per quando affronteremo il discorso volto a definire se sia possibile prevenire la commissione di un atto criminale.
Il concetto di “temibilità”
La nozione di pericolosità sociale – introdotta nel nostro sistema giuridico con il Codice del 1930 – si origina in virtù delle teorie forgiate all’interno della Scuola Positiva, che concepiva il reato quale fenomeno naturale originato da vari fattori criminologici che più precisamente si possono riassumere nella sintesi in precedenza narrata ovverosia: il criminale è la funzione della persona con l’ambiente, ove l’ambiente è in grado di determinare ovvero influenzare la persona a delinquere. Nasceva pertanto da questi presupposti l’esigenza di concepire l’intervento penale, non come mera retribuzione per l’illecito da attuarsi nei confronti del colpevole, bensì come una sorta di prevenzione tesa alla difesa sociale contro il delitto. Dal punto di vista storico, la prima definizione di “pericolosità” è attribuita a Garofalo e Ferri i quali avevano definito con il termine di “temibilità” la capacità criminale del delinquente da concepirsi come una forma di perversità attuata nell’azione criminale e perpetrata con malvagità da parte del soggetto attivo di reato. In ossequio agli istituti penalistici in materia, in Italia, la valutazione giudiziale volta alla dichiarazione di pericolosità sociale è eseguita, come ricordato, tramite l’applicazione dell’art. 203, comma 2, c.p., per cui «la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133».
L’esegesi di questo ultimo articolo, già valutato in precedenza, rivela che il Giudice stimerà diversi parametri riferiti alla gravità del reato, alla capacità a delinquere del reo, nozione criminologica scaturita dal precitato articolo 133 c.p. ove sono inseriti ulteriori items quali: i motivi a delinquere e il carattere del soggetto, i precedenti penali e giudiziari, la condotta antecedente, contemporanea o seguente al reato, nonché le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale (anche se quest’ultimo parametro è stato erroneamente escluso da parte di un legislatore poco attento alle innovazioni coniate dalle Scuole criminologiche del passato ed a tale proposito si veda la legge 30 maggio 2014, n. 81 recante il titolo “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici e giudiziari” art.1). Proseguendo la parafrasi sui pericolosi sociali, osserviamo che ulteriore parametro giuridico “principe” teso alla valutazione della pericolosità sociale è da identificarsi con il carattere del reo. Appare pertanto pacifico che in ambito penalistico la nozione antropologica relativa all’ambiente sia stata recepita dalla dottrina penale di settore (si veda l’art.133 c.p.).
Le quattro forme di pericolosità criminale
Successiva classificazione dei pericolosi sociali a corollario di quella apposta in esordio di trattazione è quella che il Codice penale ci rivela a proposito delle quattro forme di pericolosità criminale di ordine generale ovvero: la recidiva (art. 99 c.p.), l’abitualità criminale (artt. 102, 103, 104 c.p.), nonché la delinquenza professionale (art. 105 c.p.) e per tendenza (108 c.p.). Per quanto tuttavia concerne l’abitualità criminale, intesa come abitualità della condotta, ebbene a proposito dell’istituto giuridico inerente alla “particolare tenuità del fatto” ex Dlgs 28/2015, la Cassazione penale afferma che oltre all’abitualità classica – quest’ultima ricordiamolo viene stigmatizzata dal giudice ex artt. 102 e ss. c.p. mediante la deliberazione di sentenze che condannano il soggetto per la commissione di delitti non colposi – esiste oltre ala predetta anche un’altra abitualità che contraddistingue il criminale e si parla a tale proposito, è il caso di rimarcare in modo inedito, di una “abitualità della condotta”; quest’ultima come vedremo non è annoverata nel dettato codicistico inerente alla pericolosità sociale (nel quale ambito ricade l’”abitualità criminale) e che è insita inoltre negli articoli 102,103, 203 c.p..
Una nuova forma di pericolosità sociale
La Cassazione penale, per addivenire a tale asserto, cristallizza il principio che mentre l’abitualità delinquere è sintomo tra i sintomi della pericolosità sociale e prevede condizioni specifiche di pericolosità basandosi su una valutazione che deve essere attuata dall’organo giudicante caso per caso, ma sempre riconducibile ai succitati articoli del codice penale, orbene nelle altre ipotesi previste dal novello DLgs n. 28, del 16 marzo 2015, che introduce l’art. 131-bis del c.p., nell’alveo del predetto articolo compare un’inedita forma di “abitualità”, ma per quanto attiene a quest’ultima fattispecie criminologica, nel predetto articolo, non compare alcuna indicazione che possa suggerire una ricognizione in sede giudiziaria volta all’accertamento della stessa. Ne consegue che possono essere prese in considerazione anche le condotte attuate nel medesimo procedimento, come nel caso di reati commessi con il parametro giuridico della continuazione (art. 81 c.p.), o reati caratterizzati dalla stesa indole o condotte reiterate. Quindi, in definiva, una nuova forma di pericolosità sociale (Cass. Pen., Sentenza 29897 del 2015). Si cita ancora la nozione giuridica inerente alla cosiddetta “capacità criminale” item di devianza e deducibile dalle tipologie di crimini perpetrati. Inoltre, a tale proposito, con il concetto di “capacità a delinquere” si indica una particolare inclinazione a realizzare reati. In definitiva la pericolosità sociale può definirsi come una forma intensa della capacità a delinquere.
Da tutto ciò si consegue che la concezione giuridica della pericolosità sociale è altamente poliedrica nel suo manifestarsi agli operatori giudiziari. Concluso anche l’esame criminologico e penalistico del fenomeno in esame, possiamo accingerci ad analizzarne l’aspetto neuroscientifico oggi più che mai precipuamente connesso ai progressi che la ricerca genetica in questi ultimi anni ha attuato. In relazione a quanto appena esposto, è stata constatata scientificamente l’importanza che l’impatto ambientale riverbera sull’organismo.
Un modello giuridico e criminologico per prevedere i reati?
Ma, tornando alla domanda iniziale, esiste un modello giuridico e criminologico in virtù dei quali si possa prevedere la commissione da parte di un reo di atti criminali?
Lumeggiante esempio di quanto appena affermato altresì lo rinveniamo nella teoria ad opera di Luigi Viola intitolata: “Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva”. Il citato studioso, basandosi sull’applicazione dall’art. 12 delle Preleggi (Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato) ha elaborato una formula volta a prevedere l’esito delle vicende processuali. La ricerca del Viola assume come fulcro tre precise aree: (1) l’archiviazione conseguente al rinvenimento elettronico delle informazioni giuridiche; (2) la previsione delle sentenze basata sul profiling comportamentale e la (3) formalizzazione del diritto e della scienza giuridica mediante la logica simbolica (Elena Quarta, 2019). Quanto appena espresso unito in piena sinergia alle potenzialità proprie dell’intelligenza artificiale che appare in grado di replicare i procedimenti cognitivi in ottica comportamentale propri dell’intelletto umano.
I progetti Predpol e Precobs
Negli Stati Uniti è stato dato vita ad un progetto denominato “Predpol” attuato sia nello stato di New York, che ad Atlanta, nello stato della Georgia. Questa sperimentazione è stata adottata, pare, con risultati incoraggianti e si basa sull’effettiva possibilità, mediante l’utilizzo di algoritmi matematici, di prevedere l’evento criminale (si tratta per ora di reati contro la proprietà) tramite un software che è in grado di raccogliere informazioni dai casellari giudiziari e che li incrocia con i dati provenienti dalle comunicazioni di servizio della polizia locale. Alla fine, il programma informatico evidenzia dieci aree della città ove appare assai probabile che possa verificarsi un furto.
In Europa, agendo su similari parametri, è stato ideato qualcosa di simile e più precisamente in Germania. Si tratta di un programma informatico denominato Precobs (Pre Crime Observation System) che si modula alla stregua di un criminal profiling mettendo in sistema tra loro luoghi della città, orari e tipologia di crimine, alla ricerca di schemi tra loro similari, potendo così intervenire prima che l’avvenimento criminale si concretizzi. La giurisprudenza penale italiana ci suggerisce inoltre un possibile modus operandi basato sulla pericolosità sociale dell’individuo, sui suoi precedenti penali, e sul comportamento tenuto dal soggetto durante l’espiazione della pena o successivo ad essa, tenendo al contempo conto dei parametri insiti nell’art.133 c.p. Abbiamo in precedenza osservato che la diagnosi di pericolosità sociale è desumibile anche da meri indizi che possono fare presagire una verosimile attività anti sociale futura, come anche l’accompagnarsi, per il soggetto sotto esame, a persone considerate pericolose (Cass. Sez. 1, n. 2356 del 25 maggio 1992). Recentemente, a tale proposito, la Cassazione penale, con la sentenza n. 36919 del 2015, stigmatizza l’interessante principio volto ad affermare che, per ritenere attuale e concreto il rischio di reiterazione del reato, non sarà sufficiente congetturare che l’indagato se ne avrà l’occasione tornerà a compiere un crimine, ma è necessario prevedere soprattutto che quella “opportunità” è concretamente esistente. Si impone così all’organo giudicante la priorità volta ad accertare se davvero sussisterà in futuro un momento propizio affinché il soggetto possa compiere un reato.
Conclusioni
In altri termini, la Cassazione formula i seguenti principi tesi a smentire che: «se si presenta l’occasione, sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini reitererà il delitto» e a precisare invece che: «siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente, o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere”. La strada volta alla previsione dell’accadimento di atti delinquenziali appare oggi più che mai in fieri, e ciò non solo dal punto di vista giuridico, ma soprattutto in ambito informatico e neuroscientifico. Su tali esposti asserti riposa la nostra convinzione, e conseguente previsione, che i suddetti ambiti di sapere siano pertanto destinati a confluire in un’unica scienza destinata a unificare intelligenza artificiale, diritto e neuroscienze in singolo scibile “neuro-giuridico-informatico”.