standard estetici digitali

La bellezza “asiatizzata” imposta dall’AI, nuovo canone universale? Ecco i rischi

Quando ci scattiamo un selfie e usiamo la funzione “beautify”, la nostra pelle viene schiarita, gli occhi illuminati e ingranditi, il naso rimpicciolito, il viso trasformato in un cuore. Insomma, il nostro aspetto viene adattato a standard asiatici. Ma davvero possiamo considerare universali i canoni di bellezza dell’AI?

Pubblicato il 01 Giu 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

selfie - dismorfia digitale

Ci siamo mai domandati di quanto sia ingiusto e pregiudizievole l’effetto-bellezza incorporato nelle app di photo editing, nelle cam di alcuni smartphone e nei filtri dei social network? La tecnologia non è mai neutra o oggettiva. Incorpora tutta l’umanità di chi la progetta e di chi la utilizzerà. Il naso non è a forma di occhiali, ma gli occhiali sono a forma di naso. Questo è vero ancor di più quando ci troviamo ad avere a che fare con i “dover essere” etici ed estetici.

La domanda fondamentale che dobbiamo porci è la seguente: come ci vedono i dispositivi? Come ci misura la biometria? Siamo davvero solo una serie di numeri o i numeri sono anche una stringa di giudizi di valore?

Tecnologia e “standard scientifici di bellezza”

In effetti i sensori dei dispositivi non si limitano a misurare le nostre proprietà fisiche, ma associano a esse un dualismo in pieno stile pitagorico: bene e male. Il dispari era bene, il pari era male, come un viso che viene misurato non sorridente, scuro, uiguro, asimmetrico, col naso importante, anziano o stanco è negativo. Al contrario una faccia che rispetti unità numeriche euroasiatiche diventa subito esempio concreto del canone estetico corretto. Se per il pari e dispari, dal nostro punto di vista culturale, è facile non accogliere che possano essere in sé bene e male, per la misurazione facciale è più difficile rendersi conto dell’errore logico. Già normalmente siamo soliti attribuire alle taglie dei vestiti, unità di misura della nostra tridimensionalità, giudizi di valore e di disvalore. Ma anche qui non c’è nulla di oggettivo e universale che la bellezza diminuisca all’aumentare della taglia.

Qoves è un sito di analisi facciale di cui si parlava in un articolo pubblicato dalla rivista MIT Technology Review[1]. Il software, da quanto si legge nella home, promette di valutare il viso degli utenti secondo “standard scientifici di bellezza”. Quando la scienza avrebbe rilasciato al mondo la formula del bello? In realtà le evidenze scientifiche sono tutte concordi nel ritenere che il bello sia qualcosa di soggettivo. In breve, non esiste alcun tipo di canone in grado di giustificare la bellezza. Il termine “scientifico” qui viene utilizzato come esca di convincimento.

La nostra idea di bellezza pervertita da social e intelligenza artificiale: i rischi

Se fossimo nel 1500, probabilmente, la pubblicità di Qoves avrebbe promesso l’analisi del volto in base a standard “artistici” del bello. Oggi, siccome la nostra società è tecnocratica, “positiva” nel senso di Comte, viene dato estremo valore alle “scienze”, pertanto, per ammantare di “plus-valore” le discipline, si tende ad aggiungere impropriamente il nome “scienza” a qualunque attività umana. Ogni disciplina religiosa, filosofica, sociale, psicologica diventa “scienza”, nonostante ogni ambito citato si situi al di là della falsificabilità, e quindi al di là del senso scientifico. Nell’Umanesimo, quando l’artista era lo standard valoriale, “arte” diventava l’epiteto per conferire autorevolezza alle materie a cui si applicava: arti maggiori, minori, arte combinatoria, arti liberali e arti servili, eccetera. Allo stesso modo, aggiungere alle descrizioni dei prodotti termini caldi quali “scienza”, “scientifico”, “test di laboratorio”, permette di avere maggiore presa sul pubblico.

Consigli dall’algoritmo per aumentare la propria bellezza

Caricando un selfie sul sito vengono forniti consigli per aumentare la propria bellezza, consigli cosmetici o chirurgici. Migliorarsi secondo il proprio standard, se ciò non conduce a comportamenti autodistruttivi, a dipendenze di qualche sorta, non è non-etico. È giusto voler apparire la migliore versione di sé stessi. Tenersi in forma e curarsi ha effetti benefici anche per stress, salute, socialità e auto-efficacia. Al contrario, migliorarsi seguendo uno standard spacciato per oggettivo da qualche algoritmo, è una bomba al razzismo e all’eugenetica. Diventa una sorta di game-play adeguarsi al canone, migliorando le proprie risorse estetiche, come si migliora il proprio punteggio nella partita. Il concetto di “fare meglio” applicato all’estetica, con tanto di consigli per aumentare il “punteggio”, è estremamente rischioso, potrebbe creare negli adolescenti e nei soggetti insicuri (e di questi tempi siamo in tanti) una spinta omologante e un’ossessione da perfettibilità deleterie.

Un numero è un valore che, solo a seconda di come viene impiegato, si trasforma in un giudizio di valore di qualche sorta. La quantificabilità non rende scientifica una legge. Nel caso dei software di riconoscimento della bellezza, la misura di un volto, da strumento per attuare il facial recognition, diventa criterio per decretare quanto la faccia esaminata sia piacente. Non informa semplicemente delle misure che caratterizzano l’individuo, ma le use per giudicare quanto quell’individuo soddisfi i canoni incorporati nel software.

Esiste una forma per decretare la bellezza?

Un numero ha due significati: quello che è in sé stesso (il 2 è il 2) e quello che risulta dalla sua applicazione pratica; il senso che viene individuato quando lo si mette in rapporto con l’oggetto da esaminare (“se questo qualcosa è un 2, allora significa che…). I numeri, allora, si riferiranno indifferentemente alla falsificazione di una legge scientifica, alla temperatura dello zucchero per pastorizzare le uova nella crema al mascarpone o alla stringa di cifre tatuate sul braccio dei prigionieri nei campi di concentramento. I valori numerici sono sempre valutazioni, ma a seconda dell’uso che i soggetti ne fanno, del contesto in cui sono applicati, cambia totalmente il loro senso e le loro conseguenze sociali.

A cosa servono allora i valori della mia bellezza? È un errore il fatto di non essere simmetrica? Burke scriveva che non esistono prove di canoni matematici associati al bello e che inoltre una stessa formula potesse rappresentare oggetti belli e brutti, o al contrario, che oggetti belli fossero spiegati da proporzioni contraddittorie tra loro. Inoltre, la proporzione è sempre frutto di scelte ad hoc compite dall’uomo, in modo simile a quando si trovano coincidenze negli eventi in grado di convincerci dell’esistenza di un Artefice buono o di un Demonio che ha predisposto il fato in un modo preordinato.

“…Il cigno, che è un bellissimo uccello, ha un collo più lungo del resto del corpo e una coda molto corta; è una bella proporzione? Dobbiamo ammettere che lo sia. Ma cosa diremo del pavone che ha un collo relativamente corto con una coda più lunga del collo e il resto del corpo presi insieme? Ci sono alcune parti del corpo umano che si osserva mantengano determinate proporzioni l’una con l’altra, ma prima che si possa provare che la causa efficiente della bellezza sta in queste, occorre dimostrare che, ovunque si trovino esatti rapporti, la persona a cui appartengono è bella. Da parte mia ho esaminato più volte con molta attenzione molte di queste proporzioni e ho scoperto che erano molto vicine o del tutto simili in molte materie, che non solo erano molto diverse l’una dall’altra, ma dove una è bella e l’altra molto lontana dalla bellezza. Puoi assegnare qualsiasi proporzione ti piaccia a ogni parte del corpo umana e mi impegno che un pittore le osservi tutte, e ciononostante produca, se vuole, una figura molto brutta”. (Burke 1757, 84–89)

Perché è tornata in auge la filosofia estetica

Di fronte alle promesse di stima oggettiva del bello bisogna sempre anticipare alcuni quesiti di grande interesse filosofico. Innanzitutto, cos’è il bello? Ma soprattutto cos’è il brutto? Esiste una formula? A cosa serve sapere se sono o meno piacente? Bello è Bene? Bello è Utile? Del resto, è importante sapere come potrebbero essere usate le fotografie che ingenuamente caricheremmo sui siti di valutazione estetica.

Nella storia della filosofia a lungo si è rinunciato a interrogarsi sul Bello, liquidando la questione all’ambito del non-senso e della soggettività (vedi Ayer). Ultimamente le ricerche in merito a cosa sia la bellezza, dall’arte alla fisicità, stanno tornando rilevanti. Il motivo? Probabilmente è una conseguenza dei social network e dell’intelligenza artificiale. Online, sulle piattaforme come Instagram e TikTok, la bellezza è la risorsa principale da cui ottenere visibilità (e di conseguenza guadagni reali). Gli utenti, per sperare di sbarcare il lunario, non condividerebbero mai ritagli di sé brutti e trasandati: sarebbe come andare al lavoro in ciabatte. Poter allentare la presa sull’estetica sarebbe una condizione generalmente preferita dagli utenti. Mettersi sui tacchi non è una tortura ricercata di per sé stessa. Le persone, quando sanno di non essere viste, cedono alla tranquillità della pantofola. Ciò si dimostra facilmente con lo smarworking che ha prodotto strani lavoratori, chimere metà in tenuta professionale e metà (quella che non è ripresa dalla telecamera) nel pigiamone di flanella. Pertanto, sul web, dove non si può abbassare la guardia, la ricerca di perfezione e di bellezza, diventa un lavoro su cui non si può allentare la presa.

Insomma, la filosofia estetica è tornata in auge perché generalmente è tornato rilevante chiedersi strategicamente cosa sia il bello e come mai non abbiamo successo online mentre altri sì. Cerchiamo la formula della bellezza grazie alla quale condividere contenuti che siano pagati con like e condivisioni in quantità. Cosa attira? Cosa respinge? Esistono tendenze comuni che portano gli utenti a valutare più positivamente certe caratteristiche fisiche, musicali e artistiche in generale? Il problema si complica quando nel giudizio del bello si inseriscono le macchine. Conviviamo con software e filtri in AR che promettono di migliorare l’aspetto dei soggetti. La bellezza è corretta come una regola grammaticale, ma se l’errore di spelling è oggettivo (ni, vedi il problema dei femminili nelle professioni), l’errore estetico diventa inevitabilmente una pratica eugenetica.

Non spacciare la valutazione dell’AI per un canone universale

Ogni intelligenza artificiale guarda e giudica in base ad addestramenti effettuati su dati “umani troppo umani”. I big data e i paradigmi sono scelti dai programmatori, di nuovo “umani troppo umani”, pertanto la valutazione dell’IA rimane un giudizio applicabile tutt’al più alla cultura dell’ingegnere. Non deve essere spacciato per qualcosa di universale. In effetti, siccome il machine learning estetico è una tecnologia per lo più cinese, gli standard riflettono la storia pregiudizievole asiatica. Ricordo una pubblicità altamente discriminatoria della Cina. Il detersivo era così “buono” da riuscire a trasformare un uomo di colore in uno finalmente asiatico. Insomma, “Ava come lava!”, Calimero non era nero, ma sporco!

Ogni volta che ci scattiamo un selfie, quando decidiamo di applicare la funzione “beautify”, ecco che la nostra pelle viene schiarita, la grana viene levigata, gli occhi vengono illuminati e ingranditi, il naso rimpicciolito, la forma del viso si trasforma in un cuore, insomma, il nostro aspetto viene adattato agli standard asiatici, da sempre fortemente discriminatori.

Anche io ho provato a utilizzare Face++, azienda cinese impegnata di ricerche di facial recognition. Qui di seguito alcuni risultati del software, che dimostrano come lo standard discrimini la pelle scura (Naomi Campbell è più bella se schiarita e “asiatizzata”), mentre una modella asiatica, Reon Kadena riceve automaticamente voti più alti rispetto a qualunque modella occidentale. Anche la mia immagine quando è corretta da un’app di bellezza (BeautyPlus) si allinea immediatamente agli standard che l’IA incorpora e applica nei suoi giudizi. È la prova che i filtri che utilizziamo cotidie incorporano gli stessi bias di Face++. Quando ci guardiamo dalla cam frontale, non è un semplice sguardo e, soprattutto, non è il nostro. Ci osserviamo con gli occhi carichi di pregiudizi degli smartphone che ci mascherano con filtri per migliorare la nostra immagine reale. Come ci vedono i dispositivi? Ci osservano non come siamo, ma come la Cina stima dovremmo essere. Il risultato non può che essere frustrazione, tristezza, senso di inferiorità.

Illustrazione 1: Naomi Campbell, foto non modificata.

Illustrazione 2: Naomi Campbell, foto modificata con l’effetto-bellezza dell’app BeautyPlus, il punteggio di bellezza è aumentato da 80 a 85(giudizio maschile) e da 82 a 86 (giudizio femminile).

Illustrazione 4: Lorenza Saettone (me), foto non modificato, punteggio 87 (giudizio maschile), punteggio 88 (giudizio femminile).

Illustrazione 5: Lorenza Saettone (me), foto editata con l’effetto-bellezza di BeautyPlus, punteggio 91, per maschi e femmine.

  1. https://www.technologyreview.com/2021/03/05/1020133/ai-algorithm-rate-beauty-score-attractive-face/

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