Taylorismo & C

Lavoro gestito dall’algoritmo, non spacciamolo per novità: già lo faceva il nazismo

Il libro “Nazismo e management. Liberi di obbedire” scritto dallo storico francese Johann Chapoutot ci mostra come l’organizzazione del lavoro attraverso le piattaforme viene venduta come nuova e davvero capace di valorizzare le persone nel loro lavoro, ma in realtà non è che la replica del vecchio management novecentesco

Pubblicato il 22 Giu 2021

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

colonialismo digitale

Alla fine – ma è una tappa intermedia perché stiamo già andando oltre – siamo arrivati al management algoritmico. E sembra tutto nuovo e diverso dalle tecniche di management del passato e invece un recente libro importante e insieme inquietante ci porta al management secondo il nazismo.

Ma cos’è il management? È il modo con cui si organizza/integra/sincronizza il lavoro di uomini e macchine; con cui l’impresa comanda questo lavoro; e con cui sorveglia e controlla e valuta/misura come viene eseguito il lavoro. Obiettivo del management è portare chi lavora al massimo di produttività, accrescerne (nascondendolo) il pluslavoro per accrescere il plusvalore/profitto dell’impresa, inducendo in vari modi i lavoratori – ma tutti basati sulla logica dello stimolo/risposta (anche quando negheranno di esserlo) – a dare il massimo di sé condividendo totalmente la mission dell’impresa, identificandosi con l’impresa o nel credersi imprenditore di se stesso.

Cosa ci salverà dal tecno-capitalismo? Due esempi di cosa rischiamo col “governo” degli algoritmi

Evoluzione del management o ritorno del sempre uguale?

Era management l’Organizzazione scientifica del lavoro di Taylor[1]; era management il modello Toyota e la sua fabbrica a sei zeri (zero tempi morti, zero burocrazia inutile, zero sindacati, zero magazzino, zero tempi di attesa per il cliente, zero difetti)[2]; è management il World class manufacturing (Wcm); è management dell’uomo e delle macchine anche l’Industria 4.0.

Pure i social – che sono imprese votate alla massimizzazione del profitto privato attraverso il nostro lavoro (gratuito) di produzione di dati – si basano e sono organizzati in termini di management delle risorse umane (di noi utenti), magari con l’aiuto anche di un po’ di dopamina – ovvero: Facebook non solo è la più grande agenzia di spionaggio e di pubblicità mai realizzatasi nella storia (secondo John Lanchester[3]), ma è anche la più grande fabbrica del mondo e della storia, organizzando, comandando e controllando il lavoro di 2,6 miliardi di utenti mensili attivi, cioè di lavoratori sparsi per il mondo messi a produrre dati (è una forma nuova di divisione internazionale del lavoro, via digitale – chiamata però libertà e condivisione, con un pizzico di anarchia).

È management (algoritmico) l’organizzazione del lavoro attraverso le piattaforme – che poi sono la forma virtuale ed esternalizzata della vecchia fabbrica fisica e dove assunzioni e licenziamenti, orari e tempi di lavoro, organizzazione e distribuzione del lavoro, controllo e comando, premi e sanzioni, tutto è gestito da algoritmi. E tutti i processi di digitalizzazione sono anche una forma di management delle risorse umane, posto che la tecnologia non è solo macchine, ma le macchine incorporano e determinano forme specifiche di organizzazione e di management (oggi, appunto, algoritmico), cioè di organizzazione della fabbrica (del lavoro degli uomini e delle donne e delle macchine), ieri fisica, oggi virtuale/digitale. E che sempre si basa sulle tre funzioni specifiche già ricordate: organizzazione, comando e controllo/sorveglianza/valutazione.

E come tutte le forme di management, anche queste ultime ricordate sono tecniche di eterodirezione del lavoro, basate – ieri come oggi – su modi di attivazione al lavoro, agendo sul corpo e sempre più sulla mente di chi lavora, posto che fabbrica e psicologia da lungo tempo sono ormai una cosa sola, finalizzata a massimizzare (di nuovo) il pluslavoro delle persone. Se quello di Taylor era un management basato sul condizionamento (un lavorare other directed) dei lavoratori da parte dell’impresa (la Direzione impone a ciascun lavoratore cosa deve fare e come e in quanto tempo), sempre più oggi il management si basa sulla motivazione e sull’induzione di una auto-motivazione (un lavorare inner directed) nel lavoratore, portato a introiettare l’organizzazione, il comando e la sorveglianza, a credersi non un lavoratore subordinato ma un collaboratore dell’impresa e del manager/imprenditore, quindi a fare da solo ciò che deve fare, semmai aiutato da un manager empatico che non è un capo che impone, ma un leader che motiva, da un manager della felicità, da un social aziendale.

Ovvero, dal management al self-management. E da persona a capitale umano – intendendo per capitale umano “l’insieme delle competenze, abilità e risorse possedute da una persona e dalle quali dipende il suo reddito, sia in termini monetari sia in termini psichici”; concetto figlio di “un modello di assoggettamento che, facendo della persona un capitale ne impone una valutazione e una misura a partire dagli imperativi funzionali del mercato, e quindi dall’esigenza di una valorizzazione economica di sé sempre più spinta”[4] – ma una valorizzazione appunto solo in termini economici. E se per l’ideologia neoliberale, come scriveva Margaret Thatcher, “Economics are the method. The object is to change the soul”, cioè conquistare l’anima di ciascuno ai valori del mercato e della competizione, indurre il self-management in ciascuno significa appunto averne conquistato l’anima. L’anima di un individuo che resta comunque (semmai ancora di più) alienato perché l’impresa non è sua (anche se viene portato e immedesimarsi con essa), neppure quando è lavoratore autonomo; non sono suoi gli strumenti di lavoro, neppure il personal computer; e non è suo il prodotto del suo lavoro. Individuo che deve però credere (è indotto a credere) che l’impresa sia sua.

Una tecnica manageriale non nuova. Scriveva l’economista J.K. Galbraith (1908-2006) ne “Il nuovo Stato industriale” (1968): “Quasi tutte le conseguenze della tecnologia e, in misura notevole la struttura stessa dell’industria moderna, scaturiscono da questa necessità di divisione e suddivisione di operazioni, della necessità ulteriore di intervenire in ciascuna fase col peso di certe cognizioni e, infine, della necessità di combinare i risultati definitivi di ciascuna operazione in modo da ottenere il prodotto finito nella sua integralità”. Galbraith chiamava tutto questo tecnostruttura e aggiungeva: “La parola più importante, qui, è coordinazione. Essa implica che i singoli componenti si sono persuasi a mettere da parte i propri fini e obiettivi personali e a perseguire quelli dell’organizzazione. Avendo fatto tutti così, lavorano tutti per gli obiettivi comuni: sono coordinati. La motivazione consiste nei mezzi o negli incentivi da cui gli individui sono indotti a rinunciare ai loro obiettivi particolari e a perseguire, con maggiore o minore rigore, quelli dell’organizzazione”[5].

Dal management al self-management

E allora è evidente che anche i comportamenti motivati/auto-motiva(n)ti, apparentemente autonomi e liberi, sono in realtà frutto di una azione di condizionamento e di eterodirezione dell’impresa sul lavoratore. Apparentemente sembra tutto diverso dalla cinica fabbrica di “Tempi moderni” di Chaplin, in realtà è cambiata la tecnica motivazionale, riuscendo a ottenere continui aumenti di produttività, azzerando i tempi morti, il conflitto sindacale e i tempi di attesa dei clienti, oltre al magazzino. E se i tempi-ciclo erano allora accelerati muovendo una grossa leva, oggi sono imposti da un algoritmo invisibile, se non nelle luci che si accendono su uno schermo di un pc o tablet o smartphone.

Nuovo management, dunque? No, semmai affinamento dei vecchi modelli. E così come Amazon non è il nuovo che avanza ma è (nei fatti e nel modello organizzativo) la prosecuzione delle vecchie vendite per corrispondenza con un algoritmo; così come l’Industria 4.0 è il vecchio taylorismo ma digitalizzato, lo stesso vale per il management, che sembra diverso dal passato, che viene venduto come diverso dal passato e soprattutto nuovo e davvero capace di valorizzare le persone nel loro lavoro, ma in realtà è la replica, sempre nuova ma sempre uguale del vecchio management novecentesco. A dimostrarcelo è il libro scritto da un importante storico francese, Johann Chapoutot, dal titolo “Nazismo e management. Liberi di obbedire”, recentemente pubblicato in Italia da Einaudi[6].

Una storia della via nazista al management, che è sempre e comunque governo degli uomini e che nel nazismo trova una sua particolare incarnazione in Reinhard Höhn (1904-2000), giurista ma soprattutto tecnocrate al servizio del Terzo Reich. Sfuggito poi come molti altri alla de-nazificazione dopo il crollo del nazismo e il passaggio alla Germania liberale e democratica (in realtà molto parziale, analogamente a ciò che accadde in Italia dopo il passaggio dal fascismo alla democrazia), dopo alcuni anni dalla fine della guerra fonda un istituto di formazione al management, una Business school diremmo, per la quale transita la gran parte del management d’impresa tedesca.

Dall’esercito all’industria e al neoliberalismo: il management

Un management che dunque ha forti ascendenze nell’organizzazione militare, come riconoscevano già Marx ed Engels (“Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente”[7]) e successivamente Taylor (nell’esercito “gli ordini vengono trasmessi dal generale ai soldati tramite colonnelli, maggiori, capitani… Allo stesso modo gli ordini negli stabilimenti industriali passano dal direttore agli operai tramite sovrintendenti, capi officina, capi reparto”[8]). Un legame tra management ed esercito che continua ancora oggi, dove la guerra è economica, è guerra per l’innovazione e per la conquista e la colonizzazione di nuovi mercati (di territori economici), dove ciascuno è competitor degli altri nella totale istituzionalizzazione del “bellum omnium contra omnes” (di imprese, uomini e stati e dove non importa che tu sia leone o gazzella…).

Un management – una tecnica di governo degli uomini – che nasce in realtà già nella prima metà dell’Ottocento, in parallelo con l’esplosione della rivoluzione industriale e della fabbrica. “Le vere radici del management” – ha scritto Neil Postman – “si possono rintracciare in un nuovo sistema d’istruzione introdotto nel 1817 nella United States Military Academy dal suo quarto sovrintendente, Sylvanus Thayer, autore di due innovazioni specifiche e rivoluzionarie. La prima, presa in prestito dalla Ecole Polytecnique di Parigi fu l’uso di esprimere il risultato degli esami in valori numerici. […]. Per dirla con Foucault, l’essere umano diventa una persona calcolabile. La seconda fu un sistema di divisione dell’Accademia in due sezioni, sezione personale e sezione ufficiali, ciascuna con una sua struttura gerarchica. […] C’era un continuo scambio di comunicazioni e di ordini scritti, dalla base al vertice di ogni linea gerarchica, che alla fine venivano riuniti e passati allo Stato maggiore”[9].

Ma veniamo al management nazista e a Reinhard Höhn e alla sua accademia per quadri e dirigenti di Bad Harzburg avviata nel 1956. Höhn riconvertendosi, scrive Chapoutot “in teorico del management dei servizi e dell’industria. In decine di opere e in migliaia di seminari Höhn trasformò l’Auftragstaktik in un management per delega, apparentemente antiautoritario e quindi certificato come democratico e confacente alla Repubblica federale. Mentre la Bundeswehr adottava il principio della innere Führung (autonomia della direzione del soldato), seguendo in parte i suoi consigli, il miracolo economico tedesco si nutriva di quella delega di responsabilità alla quale Höhn [che era un darwinista sociale, per cui “nella lotta per la vita così come nella guerra economica è necessario essere efficienti e incoraggiare l’efficienza”] e le sue équipe formarono più di duecentomila quadri tra il 1956 e il 1972 e quasi mezzo milione successivamente, fino al 2000, anno della sua morte”. Ma cos’è l’Auftragstaktik? Serve “per far assaporare ai sottufficiali e ai soldati un po’ di ebbrezza di autonomia; [cioè] gli ordini dovevano essere vaghi e generali, limitarsi a fissare obiettivi (prendere la tal collina prima dell’imbrunire, ad esempio): a chi li riceveva, la libertà di scegliere la via, il mezzo e il metodo adatti per raggiungerlo”.

Una forma di management adatta per l’esercito (sì, anche quello nazista, perché si può essere spietati anche o soprattutto credendo di essere autonomi e di avere una delega per il raggiungimento degli obiettivi) e per l’industria: perché (sempre Chapoutot) anche “la produzione tedesca aveva bisogno di operai e impiegati convinti della necessità del loro compito e capaci di lavorare con entusiasmo. La Menschenführung (direzione degli uomini) nazista doveva prendere il posto della Verwaltung (amministrazione) rigida e autoritaria dei tempi passati, poiché la forza lavoro, vale a dire il capitale o materiale umano (Menschenmaterial), poteva essere pienamente efficace e redditizia solo se libera e felice, autonoma e piena di iniziativao quanto meno se aveva l’illusione di esserlo”.

Il management come etero-direzione degli uomini

Autonomia, delega, self-management, empowerment di sé, lavorare per obiettivi, capitale umano, auto-attivazione, essere proattivi e avere iniziativa: non sono forse queste le caratteristiche anche del management di oggi? Certo che lo sono e questo è – appunto – decisamente inquietante. “Essere redditizi/efficienti/produttivi […]” – scrive Chapoutot – “e affermarsi […] in un universo concorrenziale […] per trionfare […] nella lotta per la vita […]: questi vocaboli tipici del pensiero nazista furono i vocaboli di Höhn dopo il 1945, così come oggi sono troppo spesso anche i nostri. […] Non dobbiamo forse, macchine tra le macchine, indurirci come acciaio dentro a veri e propri sportifici? Non dobbiamo lottare ed essere dei veri combattenti? Non dobbiamo forse gestire le nostre vite, i nostri affetti e le nostre emozioni e dimostrarci efficienti nella guerra economica? Sono idee che comportano la reificazione di sé, dell’altro e del mondo – la trasformazione generalizzata di ogni esistenza, di ogni essere, in oggetti, in fattori (di produzione), fino all’esaurimento e alla devastazione”.

Il neoliberalismo – che a questo ci porta – è dunque affine al nazismo come modo di costruzione di un uomo competitivo? Lasciamo aperta la risposta, ma ricordiamo che il neoliberalismo è stato testato per la prima volta nella realtà dopo il golpe fascista di Pinochet, del 1973, in Cile. O forse il problema risiede anche (tra le altre ipotesi) – ancora Chapoutot – “nella fede quasi cieca con cui nel mondo del lavoro ci si riferisce al management ipostatizzato, assurto al ruolo di legge e di profeta”.

Disciplinare le donne e gli uomini secondo queste vecchie/nuove tecniche di management – per farli liberi di obbedire, secondo il sottotitolo del libro in italiano (ma era il titolo, nell’originale francese) – riducendoli a capitale umano e a fattori di produzione illudendoli di autonomia e di responsabilizzazione; e insieme devastare e sfruttare la terra oltre ogni ragionevolezza sono azioni che vanno di pari passo, come ricorda in conclusione Johann Chapoutot. “Spingendo a estremi inediti la distruzione della natura e lo sfruttamento della forza vitale, i nazisti appaiono ai nostri occhi come l’immagine deformata e rivelatrice di una modernità divenuta folle – sostenuta da illusioni (la vittoria finale [per i nazisti], o la ripresa della crescita [per i neoliberali e il tecno-capitalismo], o da menzogne (libertà, autonomia) di cui alcuni teorici del management come Reinhard Höhn sono stati gli abili artefici”.

Ma il libro di Chapoutot è anche altro. Rimandiamo quindi al lettore la voglia di approfondire un testo essenziale per comprendere come funziona (o mal-funziona) il mondo (anche) di oggi.

Bibliografia

  1. F. Taylor (2004), “L’organizzazione scientifica del lavoro”, Etas, Milano
  2. T. Ohno (2004), “Lo spirito Toyota”, Einaudi, Torino
  3. J. Lanchester (2017), “La merce sei tu”, in “Internazionale” nr. 1222
  4. E. Greblo (2021), “Cambiare l’anima. L’ortopedia morale del neoliberalismo”, in “aut aut” nr. 389, il Saggiatore, Milano
  5. J. K. Galbraith (1968), “Il nuovo Stato industriale”, Einaudi, Torino
  6. J. Chapoutot (2021), “Nazismo e management. Liberi di obbedire”, Einaudi, Torino
  7. K. Marx – F. Engels (1996), “Manifesto del Partito comunista”, Editori Riuniti, Roma
  8. F. Taylor (2004), “L’organizzazione scientifica del lavoro”, Etas, Milano
  9. N. Postman (2003), “Technopoly”, Bollati Boringhieri, Torino

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