Il grande spazio di libertà che i siti web di informazione poco autorevoli e gli “influencer della disinformazione” hanno trovato sulle più importanti piattaforme social ha contribuito, specialmente negli ultimi anni, alla propagazione di teorie del complotto alla base di eventi reali significativi, come l’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio o le tante manifestazioni di carattere negazionista sul Covid-19.
I team delle piattaforme social più utilizzate, su tutte Facebook, Twitter e Youtube, da tempo sono impegnate nella lotta alla disinformazione online attraverso il tentativo di arginare il proliferare di contenuti prodotti da canali e profili che si fanno portavoce di informazioni inesatte e fuorvianti, con un particolare focus nei confronti degli utenti con maggiore seguito, come, ad esempio, lo stesso ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in virtù del loro potere di orientare il processo decisionale di uno enorme bacino d’utenza.
Da tale problematica scaturisce una questione di estrema attualità: in che modo è possibile definire una responsabilità giuridica e sociale delle principali piattaforme digitali, in relazione agli effetti prodotti dai contenuti che esse permettono di diffondere sui propri canali?
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Il ruolo dei social nella diffusione di fake news
Le fake news diffuse tramite internet e i social presentano una maggiore rapidità di diffusione e condivisione rispetto a quelle provenienti da fonti tradizionali, alimentando esponenzialmente il dibattito online tra gli utenti. Quanto più un tema risulterà attuale e “polarizzante”, tanto più avranno risonanza e diffusione le notizie false che si diffondono sui social in merito a tale tema: i due esempi più significativi degli ultimi tempi sono le elezioni presidenziali americane e la pandemia di Covid-19. Un report pubblicato nel marzo del 2021 dall’Election Integrity Partnership ha dimostrato come le fake news diffuse tramite le principali piattaforme social abbiano indotto i tanti sostenitori di Donald Trump a considerare falsato il risultato delle recenti elezioni USA e la conseguente vittoria di Joe Biden. Il risultato finale di tale convinzione collettiva è stato l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, con un bilancio di 4 morti, 13 feriti e 52 arresti.
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Secondo il rapporto dell’Osservatorio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) del 29/06/2020, un gran numero di giornalisti, dall’inizio della pandemia, sono incappati in notizie non veritiere, veicolate attraverso le piattaforme social. La quantità di contenuti fake o scarsamente autorevoli relativi al Covid-19 è risultata superiore a quella dei contenuti sul medesimo tema diffusi da fonti ed organismi ufficiali o da esperti del settore.
L’attuale momento storico ha generato e continua a generare una condizione di incertezza mista a diffidenza nei confronti degli organi istituzionali. Ciò ha avuto come conseguenza la tendenza, da parte di molte persone, a volersi affidare a qualsiasi canale di informazione che rappresentasse una fonte “alternativa” rispetto a quelle considerate ufficiali. A tal riguardo, da una ricerca pubblicata sul The American Journal of Tropical Medicine and Hygiene emerge un dato interessante: da gennaio a marzo 2020 circa 6000 persone in tutto il mondo sono state ricoverate e circa 800 potrebbero essere morte a causa di informazioni errate sul modo di trattare l’infezione da Coronavirus.
Quali contromisure alla disinformazione digitale
Da tempo si discute in merito a quali contromisure le più grandi piattaforme social possano adottare per evitare che la disinformazione produca effetti reali come il già citato assalto a Capitol Hill.
Tra le iniziative intraprese da Facebook è da menzionare la possibilità, da parte degli utenti, di effettuare segnalazioni in relazione alle notizie false, le quali, dopo un significativo numero di segnalazioni, dovranno passare al vaglio di organizzazioni terze di fact-checking che fanno parte dell’International Fact-Checking Network del Poynter Institute.
In tal senso, si sono mossi anche i giganti digitali Youtube e Twitter, rispettivamente attraverso il cosiddetto metodo dei “three strikes” e dei “five strikes”, ovvero un blocco temporaneo dell’account, che diventa permanente in caso di comportamento recidivo. Le contromisure adottate per arginare la disinformazione colpiscono per lo più profili di soggetti dall’ampio seguito, che presentano dunque caratteristiche di influenza maggiore. Nell’autunno del 2020, è stato reso noto che molti dei retweet relativi a false affermazioni riguardanti le presunte interferenze sui risultati elettorali USA potrebbero essere ricondotti a soli 35 account Twitter, compreso quello dello stesso Donald Trump e dell’attivista conservatore Charlie Kirk.
Un gruppo di ricerca ha recentemente identificato gli account di circa una dozzina di persone, tra cui Robert F. Kennedy Jr., che ripetutamente, a volte per anni, hanno contribuito massicciamente alla diffusione di campagne anti-vacciniste o, più recentemente, di vere e proprie notizie false in relazione a presunte “cure” alternative per il Covid-19.
Conclusioni
I giganti del web e i social media presentano, come spesso accade per molte nuove tecnologie, caratteristiche ambivalenti. Essi nascono come strumenti che permettono di realizzare una potenzialità illimitata di comunicazione e diffusione della conoscenza tra gli utenti, i quali, proprio in virtù di tale possbilità, possono in certi casi essere considerati a tutti gli effetti produttori di informazione, più o meno autorevole, al pari di un qualsiasi altro media “ufficiale”.
Si può dunque sostenere che le piattaforme social media si siano attualmente evolute in veri e propri curatori di contenuti. Al momento, le principali piattaforme social sono tutelate dalla sezione 230 del Communications Decency Act, una legge americana del 1996, che stabilisce che “Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo dovrà essere trattato come l’editore o il responsabile di qualunque tipo di informazione pubblicata da un altro soggetto”, esentando dunque le piattaforme in questione dalle responsabilità derivanti dalla pubblicazione dei contenuti degli utenti.
La sezione 230 è tuttavia attualmente in discussione al Congresso, e qualora dovesse subire modifiche potrebbero venir meno le tutele che essa ha garantito sino ad ora. Modifiche che, se si considera lo scenario attuale, appaiono pressoché inevitabili nel breve-medio periodo.