Se è vero che ultimamente i videogiochi stanno registrando un successo in ascesa, soprattutto a seguito della pandemia di Covid-19, non si può certo affermare che si tratti del periodo d’oro per tale medium.
Le vendite non vanno di pari passo con la dirompenza dei prodotti attualmente in commercio. Come mai all’allargarsi del pubblico, e quindi del fatturato, non sta seguendo un’innovazione? Come mai pur avendo a disposizione tecnologie che potrebbero determinare nuovi trend non stiamo assistendo a una rottura rispetto ai percorsi già sondati?
Come afferma un recente articolo pubblicato dal Sole24Ore[1], benché i giochi appaiano sicuramente più belli e giocabili che in passato, il game-play non ha nulla di inedito. L’innovazione è ferma a qualche decennio fa. Sembra si stia dando troppo peso alla tecnica (design grafico, fluidità di gioco e pochi bug) e troppo poco alla creatività (il lato umanistico?).
Innovazione e videogame, una promessa non mantenuta
L’innovazione concerne la mentalità: una tecnologia non è mai di per se stessa innovativa. È il contesto umano, sociale, che trasforma l’accoglienza in qualcosa di dirompente; è la mente degli individui coinvolti nelle maglie sociali che conferisce il senso con cui inquadrare i prodotti che fuoriescono dai laboratori. Gutenberg morì in miseria, fu Lutero a trasformare la stampa in una rivoluzione, legandola a un bisogno (umano e non anticipabile) più vasto. Come mai, allora, nonostante la tecnologia abbia fatto notevoli passi in avanti, non trova una efficace messa a terra per i videogame? Se l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando le istituzioni e l’economia in generale, perché, invece, nell’intrattenimento è implementata solo nella fase “consigli per gli acquisti”?
Sono anni che vengono annunciati i futuri trend della game industry, ma troppo timidi sono stati i tentativi di sperimentazione. Nel settore dei controller si pensa di dismettere la pulsantiera per aprire la strada a controlli vocali, grazie a un sistema di voice recognition, ma anche al controllo gestuale attraverso telecamere smart capaci di identificare movimenti e mimiche del viso. In tal senso, oltre che gestire le azioni dell’avatar, sarebbe possibile interagire emotivamente con il gioco, grazie all’implementazione di un sistema di facial recognition che sappia identificare l’emozione del giocatore. Il machine learning potrebbe invero essere una rivoluzione anche nello storytelling, offrendo al gamer esperienze letteralmente uniche[2], ma di nuovo poco troppo si è sperimentato fino a ora.
I visori di Realtà Virtuale e Aumentata rappresentano quella tecnologia che più di ogni altra è stata oggetto di speranze per il futuro del gaming. Il problema è che, oltre ad avere costi elevati, si tratta di device invasivi, poco “portabili”, molte volte fastidiosi. Diverse aziende stanno pensando a nuove soluzioni che possano finalmente garantire un’esperienza straordinaria di realtà virtuale, aumentata o mista; oggetti che siano effettivamente indossabili e di facile accesso alla massa. Occhiali intelligenti, ma anche wearable di altra natura, che consentano all’utenza di giocare, ad esempio in un campo di fiori, per associare sensazioni tattili, uditive e olfattive diverse rispetto alla sovrapposizione visiva che i visori ci propongono.
Perché, dunque, l’innovazione resta una promessa inappagata? Perché nonostante la tecnologia sia promettente, la nuova generazione è in realtà una vecchia generazione che soffre della sindrome di Peter Pan?
Secondo Marco Guerini, noto autore di videogame e regista, non c’è una innovazione nel settore di videogiochi perché non c’è ancora un mercato abbastanza ampio e trasversale che possa essere raggiunto dalle sperimentazioni. Sebbene la pandemia abbia ampliato il pubblico, i videogiochi si rivolgono comunque alla stessa nicchia. Qualche indie ha provato a introdurre una deviazione rispetto al “già visto”, ma restano sempre iniziative isolate. Le triple AAA devono necessariamente badare alla committenza.
Videogame, vietato fallire
Gli storytelling suonano sempre come déjà-vu perché, almeno così, c’è la garanzia di tornare in pari con il bilancio: produrre un videogame costa moltissimo e non ci si può permettere un fallimento. La game industry si rivolge a un pubblico ristretto, prettamente maschile, capace di condannare al flop ogni nuova proposta. Quando Quinn sviluppò il suo gioco sulla depressione, Depression Quest, fu travolta dalle critiche: oltre a essere donna in una terra di machi, aveva proposto una storia differente rispetto ai soliti game-play: un atto di coraggio che rappresenta un suicidio economico nel settore dei videogame. Fu la scintilla, questa, da cui esplose il gamergate: il #metoo della game industry.
Come mai, allora, non si riesce ad allargare il pubblico? Perché i clienti restano la solita nicchia di appassionati, i loyal customer, e non si riesce a colpire i non-clienti?
Perché si possa parlare di innovazione, è necessario attirare quei clienti che non avrebbero mai supposto di esserlo: è necessario aprire il settore a un nuovo mercato. Fino a ora le strategie di marketing restano ferme a piani per colpire ex-clienti delusi e per fidelizzare quelli già fedeli.
Come ci insegna il Disruptive Marketing, perché una tecnologia venga usata in modo dirompente deve presentare una serie di caratteristiche, di cui la più importante e ovvia è rappresentata dal costo. Il principio di economicità è uno dei presupposti fondamentali del fare umano.
Siamo disposti a credere che l’induzione sia certa, che la natura si ripeterà regolare, perché non abbiamo abbastanza risorse per valutare ogni volta la verità dei fenomeni e delle leggi già stabilite: pertanto, per i nostri scopi, è più utile sospendere ogni dubbio iperbolico, cartesiano, e credere che la realtà funzioni proprio come il senso comune ci abitua a pensare. Anziché domandarsi se il panino esiste nella forma in cui lo percepiamo, è meglio mangiarselo! È più vantaggioso! Così, per ogni scelta, l’essere umano è disposto a investire le proprie energie a patto che i benefici siano effettivamente superiori ai costi, o, meglio, purché i costi iniziali siano così piccoli da permettere di sopportare a cuor leggero la delusione di vantaggi promessi e non avvertiti. Meglio un uovo oggi che la gallina domani.
Per queste ragioni, per adesso, i videogame restano di difficile accesso tranne che per il settore dei mobile game: gli smartphone li abbiamo comprati tutti e a prescindere dai giochi. Il target di questo ambito è composto da gamer occasionali e, a mio avviso, non è un caso che accolga, per una notevole e inedita fetta, proprio il genere femminile!
La “lezione” delle serie Tv
Al contrario dei videogame, l’offerta delle serie tv è molto varia. È un settore in cui si sta sperimentando molto, anche per quanto riguarda la scelta degli attori, includendo visi non conosciuti ed etnie inconsuete per il nostro mercato tradizionale. Le storie che vengono proposte sanno accontentare tutti non perché appiattite su un’orizzontalità che possa incontrare i gusti di una folla indistinta, ma perché i fruitori potenziali sono già tutti: Netflix ha superato i 200milioni di abbonati.
Il mercato dei telefilm è, infatti, un insieme di nicchie ma interconnesse, così che ogni soggetto possa facilmente appagare i suoi gusti, trovando, nella vastissima offerta, ciò che lo soddisferà. Non solo, il cliente, partendo da ciò che sa piacergli, esplorerà le altre nicchie, sfogliando lo stesso catalogo on demand.
In questo contesto, anche se un film è visto da una bassa percentuale, non equivale affatto a un flop, come invece nella game industry: una piccola percentuale di un pubblico enorme non è una nicchia, ma un settore di mercato.
Diversamente dai videogame, accedere ai prodotti da pellicola è facile, non è richiesto molto investimento da parte dell’utenza, né in termine di tecnologie, nemmeno per quanto riguarda le competenze digitali. Guardare una serie tv online è immediato e alla portata di tutti, anche e soprattutto dal punto di vista economico: bastano una smart tv, un tablet, un pc poco potente o anche solo uno smartphone. Al contrario, per far girare un videogame su computer è richiesta potenza e schede grafiche particolari: specifiche che vengono scelte per i propri pc solo se si è già un pc-gamer o se si lavora nel settore audio-video. Un computer adatto per il gaming ha costi che lo associano alla fascia medio-alta. Questo rappresenta, ad oggi, lo scoglio numero uno che impedisce di allargare il pubblico ai non-clienti. Con le console il discorso è ancora più palese: rappresentano un investimento che solo chi è già appassionato decide di affrontare.
Ne consegue che il pubblico a cui si rivolgono le software house di videogiochi è sempre lo stesso da vent’anni. Ecco perché non si sta assistendo a una vera sperimentazione e a una messa in opera di idee nuove, mai viste.
Ultimamente Netflix[3] ha rivelato di voler investire nel settore videoludico. Com’è chiaro questa potrebbe essere la strada con cui rinfrescare l’ambito dello storytelling, a patto che ogni hardware che avremo in casa sia finalmente in grado di farci giocare, senza dover investire in tecnologie ad hoc. Tuttavia, fino a quel momento l’unico accesso democratico che prevedo resterà il settore mobile e quindi un ambito che di innovativo ha poco.
Note
- https://www.ilsole24ore.com/art/i-videogiochi-non-sono-piu-quelli-una-volta-sono-piu-belli-ma-meno-rivoluzionari–AE8YhvK ↑
- https://www.ilsole24ore.com/art/i-videogiochi-non-sono-piu-quelli-una-volta-sono-piu-belli-ma-meno-rivoluzionari–AE8YhvK ↑
- https://www.ansa.it/sito/notizie/tecnologia/software_app/2021/05/24/netflix-nel-futuro-anche-lo-streaming-di-videogiochi_761f42c7-ab32-44fb-ace7-cd23fe2715e7.html ↑