videogame culture

Cos’è un (video)gioco? Le risposte, dalla giurisprudenza alla filosofia

Una domanda in apparenza banale – cos’è un gioco? – ma a cui rispondere è estremamente difficile. Tornato alla ribalta in seguito al caso Apple vs Epic, il quesito tocca vari livelli, dalla filosofia alla giurisprudenza e ci aiuta a capire qualcosa in più sulla natura umana

Pubblicato il 07 Lug 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

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Cos’è un gioco? In questa domanda apparentemente banale si dipanano questioni complesse che vanno dalla filosofia teoretica, da Wittgenstein, alla giurisprudenza. Non solo, il concetto di giocabilità va oltre quello specificamente tecnico riguardante il game play.

Esso, infatti, si connette all’assiologia: a cosa sia considerabile “valore” e cosa vada bandito perché potenzialmente lesivo.

Nel caso Apple vs Epic “gioco” è diventato un criterio per dirimere la controversia giuridica tra le due società, mentre per videogame atipici come gli Idle Game, avere una definizione di gioco può servire per analizzare e comprendere più a fondo la natura umana in riferimento alla società odierna.

Epic contro Apple, il giudice verso un compromesso? Tutto sul processo in corso

Il caso Apple vs Epic

Recentemente la domanda socratica su cosa siano i giochi (e quindi i videogame) è tornata al centro dei dibattiti proprio durante il caso Apple vs Epic.

Le due società hanno concentrato la reciproca accusa (e difesa) sul concetto di videogioco, dimostrando, altresì, in che modo la filosofia possa essere utile alle sfere economiche e giuridiche.

Per il CEO di Epic, Tim Sweeney, Fortnite non è affatto un gioco, o comunque non solo: si tratta di un metaverso, di “fenomeno che trascende il gioco”. Epic, affermando ciò, voleva estendere il suo “J’accuse” a tutto quanto il “sistema iOS”. Secondo la casa di sviluppo di videogiochi, Apple gestirebbe i sistemi di pagamento in-app in modo ingiusto, attuando un comportamento non concorrenziale a causa del controllo sulle app ammesse nel repository.

Tutto è partito dalla domanda se Roblox fosse o meno un gioco. Il manager del marketing di Apple, Trystan Kosmynka, affermando che si trattava di un’app, è come se si fosse fatto goal da solo. Ha dichiarato che i giochi hanno un inizio e una fine, mentre Roblox rappresenta più che altro una piattaforma che permette di incontrarsi virtualmente, una specie di social network. La domanda posta dalla difesa di Epic Games era sottile e intendeva aprire la porta a una questione ben più estesa. Se anche Fortnite non era catalogabile come videogioco, ma piuttosto si trattava di un mondo, era necessario estendere l’accusa all’intera gestione Apple. A come regolasse l’accesso delle app allo Store e alle tasse esorbitanti che vengono richieste ai programmatori.

Secondo Kosmynka, però, Fortnite era un videogame. Se è così, allora, la questione andava analizzata guardando al solo settore della game industry, senza focalizzarsi sulle app che Apple ammetteva. In questo, la “mela morsicata” non eserciterebbe alcun monopolio, trovandosi a spartire la concorrenza con le console e i pc, dove, tra l’altro, è sempre stato possibile acquistare le monete virtuali di Fortnite per giocarle nell’app iOS, senza pagare alcuna commissione imposta altrimenti da Apple. Inoltre, anche Nintendo e Xbox addebitano le proprie quote sugli acquisti in-game, come qualunque carta di credito. È chiaro, dunque, che trovare un concetto di gioco ha un valore economico non indifferente. Come ha dichiarato ironicamente Tobias Kopka “un gioco è ciò che tre avvocati concordano su cosa sia un gioco”, lasciando intendere che “videogame” assume un senso definito solo quando funziona per mettere d’accordo tutte le parti in causa. È davvero così? Davvero l’essenza di “gioco” non è definibile?

Ma cos’è davvero un gioco?

Mark Backler, fondatore di Sketchbook Game, riporta a Gamesindustry quella che secondo lui (e anche secondo me) è la migliore definizione di gioco mai letta. Backler cita le parole di Raph Koster tratte dal libro A Theory of Fun: “Un gioco è il superamento volontario di una serie di ostacoli inutili”.

In effetti il gioco è una moratoria, una sospensione da ogni obbligazione. Non è un caso che il noto psicologo Erikson definì l’adolescenza una moratoria psicosociale. Si tratta di un’attesa durante la quale si sperimentano ruoli, gusti, azioni; un periodo di stop durante il quale si simula l’adultità. Il videogame, allo stesso modo, è un supporto per provarsi senza ripercussioni troppo reali.

In ogni specie “fare la lotta” è prepararsi alle sfide che il passaggio alla maturità trasformano in una questione di sopravvivenza. Insomma, i videogame, come ogni altro gioco analogico, sono preparazioni a riti di passaggio più o meno evidenti. Alla luce di questo, diventa necessario chiedersi se tutto ciò che viene etichettato come gioco effettivamente lo sia: se il gameplay metta a disposizione un tempo caratterizzato dalla sospensione di obblighi stingenti, se sia una sorta di rito di passaggio, una simulazione utile di ostacoli inutili.

Cosa sono gli Idle games

Le slot machine che cosa simulano? I social network e le challenge di TikTok sono una moratoria o ci scaraventano, senza farcene rendere troppo conto, nella serietà della vita, come le armi in mano ai bambini soldato? Infine, gli idle games di fronte a quale ostacolo (per quanto inutileutile) ci pongono?

Idle significa inattivo e riferito ai giochi sembra trattarsi di un ossimoro, una figura retorica atta a suscitare un contrasto, un’aporia indecidibile tra due concetti in sé antinomici. Videogame senza interattività? Che gusto c’è per l’utente? Si possono ancora definire giochi?

Gli idle game ci chiedono un’azione molto banale, per esempio un cliccare compulsivo in una certa zona dello schermo. Questo porta ad accumulare punti e a sbloccare alcuni premi.

Il primo traguardo è spesso proprio l’abilitazione del click automatico: significa che possiamo dedicarci ad altro mentre il computer continua a praticare un gesto alienante che pare perfetto per Tempi moderni di Chaplin.

Cliccare, com’è ovvio, non è l’ostacolo del gioco, non è un’abilità richiesta al gamer. Il divertimento è collocato altrove. L’obiettivo è accumulare premi, passo dopo passo. Alternando click meccanizzati e cinque minuti di frenesia umana (i click da tunnel carpale valgono un po’ di più) e spese in-game, si ambisce a collezionare quella che è una successione infinita di caramelle, monete, oggetti, senza tralasciare alcunché.

Non si può perdere, i livelli si susseguono come se l’avanzamento fosse inevitabile: una somma temporale di attimi, un accumulo lineare simile al tempo nella concezione cristiana. Dov’è la Salvezza, allora? Quando l’user decide di accelerare i tempi, acquistando quei bonus che avrebbe comunque ottenuto prima o poi, somiglia all’aristocratico che comprava indulgenze per accorciarsi la pena nel Purgatorio?

Negli idle vedo un antecedente analogico: mi sembra di scorgere il divertimento da Monopoli, quando, una volta comprati gli hotel su tutta la via, accumulavamo soldi senza merito, passivamente. Qualche lancio di dado e poi si poteva restare a guardare. È come quel Dio che, una volta programmata l’armonia prestabilita, guarda passivamente ciò che si evolve senza sorprese e interventi successivi. Non c’è spazio, qui, per un Deus ex machina che risolva l’impasse!

Perché gli idle games creano dipendenza

Non si vince, né si perde, allora perché gli idle creano così tanta dipendenza? Perché dal primo titolo del genere, Progress Quest, nel 2002, gli esempi si sono moltiplicati, perdendo ogni residuo di ironia che caratterizzava, invece, il primo esemplare del filone? Il boom lo troviamo proprio tra i mobile game. I temi sono quasi tutti imprenditoriali, come se, in effetti, l’economia fosse “quella strana cosa che compri un’azione e osservi come va”.

Progress Quest (è nato come una parodia) si presenta come un gioco di ruolo di nuova generazione per pc. Nelle info si legge che, accedendo all’interfaccia, l’utente può familiarizzare con l’ambiente e intanto il gioco prosegue da solo. L’avatar distruggerà pletore di bestie esotiche, mentre l’user semplicemente osserverà l’evolversi della situazione, senza averne responsabilità. La descrizione fa ironicamente cenno all’orgoglio dell’utente mentre osserva, passivo, il software che esegue le missioni al posto suo: “… destroying an exotic panoply of beasts while you gaze proudly on”.

La progressione è continua, potenzialmente eterna, è a prescindere da noi: l’unica scelta è tra l’essere e il nulla, si direbbe in filosofia, tra lasciare acceso il gioco o meno. Che differenza c’è, allora, tra guardare un game-play di qualche youtuber e osservare una macchina che gioca da sola? Si può davvero definire “ostacolo” quello di accedere all’ambiente senza ulteriori interventi in-game?

Il machine learning usato nei videogiochi è un futuro estremamente interessante anche se per ora le applicazioni sono timide o relative alla sola ricerca. Per esempio, è noto a tutti il video di OpenAI dove gli alieni, grazie alla rete artificiale, miglioravano progressivamente nel nascondino. L’utente, in questo caso, restava un mero osservatore di una scena che evolveva da sola. L’IA, in effetti, potrebbe diventare una produttrice di videogame incrementali (altro nome con cui si definiscono gli idle), generando situazioni complesse, imprevedibili e totalmente autonome e automatiche.

L’essere umano potrebbe diventare sempre più uno spettatore escluso dai giochi, come uno di quei tristi figuri che si diceva “facessero la tappezzeria” nelle balere degli anni Cinquanta e Sessanta.

Nello Snake manovrato dall’intelligenza artificiale siamo spettatori di un serpente che potrà raggiungere una velocità letteralmente disumana. Mi domando se ciò resterà un sollazzo. In effetti mi chiedo se ci sarà ancora immedesimazione e “orgoglio” da parte del giocatore passivo. Conscio di non poter riprodurre quelle abilità meccaniche, forse finirebbe per interrompere il flusso empatico con l’avatar e quindi il divertimento.

Il Click day Inail

Molto simile al concetto degli idle game è la giornata che da anni organizza Inail: il Click Day.

Siccome i fondi per la sicurezza sul lavoro non sono tanti, mentre le imprese che vorrebbero beneficiarne sono molte, l’Istituto nazionale sono anni che organizza un evento per “cliccarori”. Basta avere una buona connessione internet e il gioco… è fatto. Ci si iscrive e ci si allena a diventare rapidissimi con il mouse, attraverso un vero e proprio simulatore messo a disposizione dall’INAIL. Il senso è che il giorno in cui si apriranno le danze, il cliccatore, quando comparirà lo spazio di input, dovrà inserire il codice dell’azienda, rispondere a un quesito e inviare tutto nel minor tempo possibile. Si accede allo sportello un’ora prima e, compulsivamente, si “refresha” la schermata, fino a che l’Istituto non abilita la possibilità di inserire i dati. Chi ha inviato il codice più velocemente vince il bando, ottenendo i finanziamenti tanto ambiti. INAIL ha trasformato il collo di bottiglia della prenotazione online in gameplay dichiarato. Il più compulsivo vince.

Spesso, è proprio la gamification applicata al marketing a prendere a modello la struttura dei click game, riducendosi a un mero accumulo di oggettini, ossessivo, che non richiede alcuno sforzo, alcuna difficoltà, se non l’alienazione del gesto. Dopo un certo numero di tap finalmente viene raggiunto un qualche premio, un coupon o un semplice sticker, inutile ma che l’utente percepisce dal valore immenso. Ciò contribuisce alla fidelizzazione con l’azienda. Il valore è sempre qualcosa di relativo, certo, e in questo caso la relazione è stimata sul poco sforzo che viene domandato all’utente per ottenere l’oggetto. Quest’ultimo, una volta sbloccato, appare come un vantaggio, visto che per ottenerlo la fatica è stata minima. Forse è proprio questo il senso di tali giochi. Desideriamo ricevere manne dal cielo, senza però sentirci totalmente superflui.

Insomma, la definizione di cosa sia un gioco coinvolge questioni fondamentali, grazie alle quali stabilire il confine legittimo delle Big Tech e condannare quegli elementi di azzardo contenuti nei “giochi con bollino verde”: mi riferisco ai loot box nei free-to-play.

Conclusioni

È necessario capire che cosa sospendano i giochi e a cosa ci preparino, perché scegliamo di aggiungere volontariamente sfide al cardiopalma a una vita già abbastanza faticosa e perché, al contrario, perdiamo (o prendiamo) tempo su mobile game inattivi come Idle Mafia (si simula l’edificazione di un impero mafioso), Cookies Inc.(si creano e raccolgono biscotti), Tube Tycoon (si simula la carriera di youtuber) e altri. Ne va della comprensione dell’essere umano e dei suoi bisogni.

Sostanzialmente, a che ruolo ci si allena con gli idle games? Supervisionare la scena ci restituisce la sensazione di avere la situazione in pugno, lasciandoci, al contempo, essere pigri senza avvertire senso di colpa. Il liberismo ha trasformato l’otium classico in un disvalore, ma finalmente attraverso il gioco si può simulare quel no-time a cui non siamo più abituati, ma che ambiamo.

Gli idle, allora, sono videogame in senso pieno, essendo moratorie di moratorie; sono giochi che ci restituiscono finalmente una totale sospensione dagli obblighi, anche da quelli del gioco stesso.

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