Una buona parte del pensiero economico ha individuato nella crescita della produttività un fattore fondamentale per determinare la salute di un sistema economico e soprattutto della sua produzione di beni e servizi. Da questo punto di vista, l’intelligenza artificiale e nuove tecnologie digitali sono state considerate il perno di una nuova era della produttività dove i processi sarebbero cambiati e con essi le nostre società. Ancora dobbiamo vederne gli effetti e potrebbe crescere il clima di sfiducia verso l’innovazione. Ma non dobbiamo disperare.
Rinunciare all’automazione e all’innovazione delle nostre economie potrebbe rallentare definitivamente quella transizione verso un maggiore benessere diffuso, sia per noi sia per l’ambiente.
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La crisi della produttività
La crisi della produttività non è comunque cosa recente. Diversi indicatori statistici mostrano questo trend negli ultimi due decenni circa. Ad esempio, negli Stati Uniti si è assistito ad una crescita dell’1,3% di media annuo dal 2006 ad oggi. Il trend è piuttosto simile anche per l’Unione Europea (27 paesi), mentre il caso italiano rimane piuttosto peculiare poiché la crescita media annuale dal 2006 a oggi è inferiore all’1% annuo con un crollo evidente nel 2009, più grave rispetto ad altri paesi. Dal 1999 al 2019, il PIL per ora lavorata in Italia è cresciuto di poco più del 4%. In Francia e Germania è aumentato di oltre il 21%. La produttività totale dei fattori, un indicatore fondamentale per capire le dinamiche di tutto il sistema economico e delle sue performance in termini di output, è diminuita del 6,2% tra il 2001 e il 2019. Per capirne la rilevanza rispetto alla crescita economica, basti pensare che durante gli anni del miracolo economico si assisteva a una crescita della TFP che toccava il 4% annuo. Eppure, nel primo trimestre del 2021 si è assistito, perlomeno negli USA, a un’inversione di tendenza piuttosto significativa: la produttività del lavoro è cresciuta del 5,2% rispetto al trimestre precedente.
C’è comunque da essere ottimisti?
La cosiddetta J-curve dell’innovazione potrebbe aver toccato il fondo negli ultimi tre mesi del 2020 e il rimbalzo potrebbe essere di gran lunga superiore rispetto a quanto ci si aspettava. Tale ottimismo è condiviso da Erik Brynjolfsson, professore di Stanford che ha scritto molto di industria 4.0 e digitalizzazione, e Georgios Petropoulos, ricercatore dell’istituto Bruegel. Ma perché questo ottimismo in una situazione ancora incerta a causa della pandemia e di alcuni nodi ancora irrisolti a livello globale e, talvolta, nazionale? Secondo i due esperti ci sarebbero tre motivazioni di fondo per poter considerare la curva della produttività in una fase di crescita spinta nei prossimi anni. La prima riguarda proprio gli effetti delle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale e il cloud computing. Lo sviluppo di algoritmi di apprendimento automatico combinato con un forte calo dei prezzi per l’archiviazione dei dati e i miglioramenti nella potenza di calcolo hanno permesso alle aziende di accedere a nuove frontiere dell’innovazione. Evidentemente i risultati sui processi produttivi stanno emergendo solamente ora, anche in seguito a una fase di assorbimento in cui gli stessi manager hanno dovuto ripensare all’organizzazione delle proprie aziende.
Più automazione con il covid: verso maggiore produttività o più diseguaglianze?
Un working paper pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale quest’anno prevedeva che l’automazione indotta dalla pandemia avrebbe aumentato la disuguaglianza nei prossimi anni, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. In un sondaggio del World Economic Forum dell’anno scorso su quasi 300 aziende globali, il 43% delle imprese ha detto che si aspettava di ridurre la propria forza lavoro attraverso nuovi usi della tecnologia.
Di contro c’è chi immagina una crescita della produttività e quindi del benessere collettivo grazie all’automazione.
Per gran parte degli ultimi due decenni, l’economia Ocse ha subito – soprattutto in Italia – il ristagno della produttività, lasciando i lavoratori e gli azionisti a competere per il valore. I lavoratori hanno di solito perso diritti e reddito. L’automazione può sì danneggiare lavoratori specifici, ma se rende l’economia più produttiva, questo potrebbe essere un bene per i lavoratori nel loro complesso, ha detto Katy George, un senior partner di McKinsey, la società di consulenza.
Ma ancora c’è chi come Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology secondo cui molti degli investimenti tecnologici hanno solo sostituito il lavoro umano senza aggiungere molto alla produttività complessiva.
In un recente working paper, il professor Acemoglu e un collega hanno concluso che “una parte significativa dell’aumento della disuguaglianza salariale negli Stati Uniti negli ultimi quattro decenni è stata guidata dall’automazione” – e ha detto che questa tendenza ha quasi certamente accelerato nella pandemia.
Non sappiamo se per la collettività verranno più benefici o rischi dall’automazione. Ma certo è che servono politiche economiche e del lavoro per ottenere i primi ed evitare i secondi.
Alessandro Longo
Pandemia e trasformazione digitale
La pandemia ha avuto un impatto pesante e tragico sulle nostre vite. Eppure, nell’arco di un solo anno molte aziende hanno dovuto apportare cambiamenti significativi nel segno della trasformazione digitale.
La digitalizzazione e la stessa riorganizzazione del lavoro (si pensi al cosiddetto remote working) potrebbero essere dietro la svolta nella J-curve della produttività. E con essa un cambiamento positivo per quanto riguarda la qualificazione professionale della forza lavoro. Infine, la terza motivazione per essere ottimisti sulla produttività include le politiche espansive portate avanti dalle istituzioni globali. L’impatto dei pacchetti di sostegni durante la pandemia potrebbe aver avuto un effetto positivo non solamente sulla domanda bensì anche sul riassorbimento della disoccupazione. Bassi livelli di disoccupazione portano a salari più alti, con la conseguenza che le aziende abbiano maggiori incentivi a implementare nuove soluzioni tecnologiche e quindi migliorare ulteriormente la produttività. Rispetto a quanto concluso da Brynjolfsson e Petropoulos è necessario sottolineare come ogni paese abbia le sue peculiarità per quanto riguarda il sistema economico e il suo inserimento nella catena del valore globale. È evidente che tra USA e Italia, ma anche UE, sussistono differenze fondamentali. Con i primi in uno stato di avanzamento sotto il profilo tecnologico che li rendono leader globali insieme al gigante cinese (che però può contare su un diverso assetto istituzionale e su una popolazione più di 3 volte superiore).
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E in Italia, si può essere ottimisti?
In Italia le cause della stagnazione della produttività sono diverse. Non da ultima, come sottolineato anche nel PNRR, vi è stata una forte resistenza nel cogliere le opportunità legate alla trasformazione digitale. Il ritardo nel digitale è dovuto ad una serie di cause, tra le quali la carenza di infrastrutture adeguate, la struttura del tessuto produttivo che vede una forte prevalenza di piccole e medie imprese restie nell’adottare nuove tecnologie e muoversi verso produzioni a più alto valore aggiunto con conseguente rilevanti per la struttura del mercato del lavoro, ma anche un modello di formazione che non ha seguito le dinamiche globali. Medesima situazione, se non peggiore, per il settore pubblico. Possiamo, dunque, essere ottimisti come Brynjolfsson e Petropoulos? Sì, se guardiamo ai tre fattori che essi indicano per vedere un rimbalzo della produttività. In particolare, al terzo, ossia la presenza condizioni di politica economica espansive e mirate a sostenere la trasformazione ecologica e tecnologica. Ed è per questo che tante speranze vengono riposte nel PNRR e in una versione “accomodante” della BCE rispetto a quanto fatto nel recente passato. Meno ottimisti se guardiamo alle condizioni di partenza che vedono l’Italia svantaggiata rispetto agli USA. Non solo per quanto riguarda la produzione e l’applicazione di nuove tecnologie. Soprattutto per quanto riguarda il sistema economico complessivo e la sua capacità di recupero dopo crisi di tipo esogeno.
In ogni caso, il ruolo delle politiche economiche sarà quanto mai fondamentale. Forse proprio per rafforzare e migliorare quelle basi che ci sono sempre mancate e investire nelle nuove tecnologie come l’AI.