L’immagine del consumo digitale di notizie nel 2020 che emerge da un primo sguardo al Digital News Report pubblicato dal Reuters Institute con la collaborazione dell’Università di Oxford[1] sembra confermare le ragioni di fondo dell’esistenza dello slow journalism, il movimento che da qualche anno si adopera per un’informazione “lenta” in quanto selezionata, verificata, sottratta gli imperativi del mercato pubblicitario.
Lo spavento collettivo di marzo/aprile dello scorso anno ha avvicinato il pubblico alle news, ne ha mostrato la funzione sociale, aumentando contatti e, soprattutto, abbonamenti. Tutto questo, però, in un contesto di continuo e inesorabile calo di interesse nell’informazione in quanto tale. Un distacco silenzioso dalla sfera pubblica, che sembra non coincidere più con l’orizzonte in cui gli individui inscrivono i loro interessi e relazioni.
Salviamo le news se crediamo in una rete più giusta: le idee
Se l’informazione soffre di un eccesso di velocità
La declinazione giornalistica del movimento slow da anni denuncia un “eccesso di velocità” del giornalismo nella sua transizione al digitale. Il gioco dell’informazione deve poggiarsi sulla tempestività: arrivare prima è un dovere del giornalista, impegnato ad abbattere la distanza tra evento e pubblico. La transizione tecnologica, però, non ha solo offerto strumenti più raffinati per portare al termine la missione. L’informazione digitale spesso dà l’impressione di soffrire di un eccesso di velocità perché l’imperativo produttivo supera una soglia che disattiva le prerogative del newsmaking: poca selezione, poca gerarchizzazione, nessuna contestualizzazione. Poca selezione perché l’assenza di vincoli materiali e il modello di business dominante (l’offerta gratuita di informazione online finanziata dalla raccolta pubblicitaria tramite conta dei clic) tolgono ogni limite alla sovraproduzione; poca gerarchizzazione perché monetizzare il traffico significa dare pari dignità a notizie, annunci, speculazioni e curiosità, tutte munizioni utili nella battaglia per l’attenzione. Nessuna contestualizzazione perché sui social, luogo prediletto di fruizione, ogni notizia appare unica, centrale e dotata dello stesso formato di tutte le altre, e monopolizza l’interesse temporaneo dell’utente al di là di ogni valutazione professionale sull’effettiva rilevanza collettiva di quanto raccontato.
Le rivendicazioni dello slow journalism
Il variegato intreccio di valori e pratiche chiamato slow journalism è emerso negli ultimi anni, dunque, come reazione professionale al fast journalism che risulta dai processi descritti e sfocia in disaffezione e mancanza di fiducia. Un giornalismo che investe troppo su viralità, clickbaiting e sudditanza ai comunicati stampa (il churnalism raccontato da Davies nel 2008 in Flat Earth News).
La formula è l’appropriazione degli spunti di sostenibilità resi popolari dal movimento slow nel campo del cibo o della mobilità. Il nucleo pulsante è fatto da testate-manifesto come Delayed Gratification (UK), Zetland (Danimarca), De Correspondent (Olanda), Narratively (Usa), in Italia Slow News, ma stili e condotte stanno contaminando anche il mainstream di Guardian, Mediapart, New York Times Magazine.
Le testate slow rivendicano in forme diverse tempo per la scrittura (Delayed Gratification è un trimestrale cartaceo che approfondisce quanto avvenuto nei tre mesi precedenti), la selezione (Zetland pubblica 2 o 3 articoli al giorno, pianificati e vagliati dalla comunità dei members), la verifica (tutte le testate praticano il fact-checking), l’equo trattamento dei lavoratori, l’autonomia finanziaria raggiunta abbandonando la pubblicità in favore del consolidamento di una comunità partecipante di abbonati.
La rivendicazione perde ogni forma di apparente romanticismo donchisciottesco e ribadisce la sua urgenza se confrontata con i dati offerti dal Digital News Report 2021, quest’anno particolarmente atteso perché fotografia di uno scenario anomalo della pandemia. La disaffezione che fa da premessa al tentativo di riformare l’information game riportando il prodotto giornalistico nel ruolo di fine ultimo e non mero corredo alla raccolta pubblicitaria è confermata dai dati sul calo di interesse nelle news negli ultimi cinque anni in Uk (- 17%), Italia (- 12), Francia (8), Usa (-11 in un anno)[2]. Larghe porzioni di utenza sembra si stiano letteralmente ritirando dalla sfera pubblica, non ritenendo più necessario inscrivere l’esperienza individuale in una dimensione collettiva generica e non proiezione delle proprie scelte o inclinazioni.
La fiducia nelle news è cresciuta (+ 6%), a fronte dell’irruzione di un fenomeno ignoto e spaventoso come il Covid-19, mostrando la vitalità della funzione sociale del giornalismo, fonte indispensabile di input in grado di contrastare l’incertezza. Allo stesso tempo, però, aumenta il divario di fiducia tra le fonti che godono di maggiore reputazione e gli aggregatori online. Chi consuma informazioni sui social media mostra quasi consapevolezza del servirsi di una fonte strutturalmente inaffidabile e, se su Facebook e Twitter il ruolo dei brand riconosciuti è ancora predominante, su Instagram e Tik Tok gli influencer sono il canale principale di approvvigionamento e diffusione.
Anche la via di fuga è quella suggerita dallo slow journalism: il progressivo abbandono dell’informazione gratuita in favore della sottoscrizione di abbonamenti e dei paywall. Tornare a pagare per le notizie come antidoto all’appiattimento e polizza sull’autorevolezza. La strada appare in salita, però: in 20 paesi in cui gli editori hanno spinto per maggiori pagamenti online, il 17% degli utenti ha pagato per una notizia online nell’ultimo anno, con un aumento di due punti percentuali dal 2019 e cinque dal 2016. Una crescita lenta, più evidente nei mercati maturi (Scandinavia, Svizzera e Olanda su tutti), che pone qualche preoccupazione per il futuro dato che l’espansione del modello della sottoscrizione dovrà scontrarsi con il muro dell’indifferenza prima descritto e con la scarsa propensione di chi ha adottato la gratuità a cambiare modello.
La sfida dello slow journalism
La sfida dello slow journalism, di fronte a questi dati, deve consistere nello smarcarsi dalla tentazione di offrire un’esperienza elitaria a nicchie benestanti, istruite, già culturalmente attrezzate. Un approccio che non sfida le contraddizioni del sistema istituzionale dell’informazione ma lo arricchisce con un prodotto evocativo perché vintage e con servizi d’eccellenza per clienti più esigenti. L’obiettivo dev’essere la riconquista di quella quota di pubblico che sta abbandonando le conversazioni ma perché questo avvenga è necessario che le pratiche e le dinamiche slow siano promosse e incentivate dal sostegno finanziario delle amministrazioni pubbliche che devono tornare a correggere con più coraggio le storture del mercato, abbandonando un finanziamento poggiato su convenienze politiche a favore dell’adozione di un ruolo di stimolo alla ricostruzione del dibattito pubblico. Qualche settimana fa, un’associazione che aggrega oltre tremila testate locali statunitensi ha scritto una lettera a Biden per chiedere finanziamenti in virtù del loro ruolo di “infrastruttura civica del paese”[3], necessaria a garantire un migliore funzionamento e una maggiore efficienza della macchina pubblica. Se un’idea come questa prende piede nella Land of Freedom, è ora che si superi questo tabù anche in Europa.
- https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/digital-news-report/2021/dnr-executive-summary ↑
- https://ellissi.email/2021/07/02/digital-news-report-2021/?dmc_cid=3683&dmc_gid=353772928&dmc_ch=email&dmc_mid=354792509&dmc_uid=3884623964&uc701=3884623964 ↑
- https://www.rebuildlocalnews.org/civic-infrastructure ↑