Con due successivi interventi, l’ordinanza n. 132/2020 del 9 giugno 2020[1] e la sentenza 12 luglio 2021 n. 150[2], la Corte Costituzionale ha affrontato e definito la questione di legittimità, rispetto ai principi fondanti del nostro ordinamento giuridico, delle norme di cui all’art. 13 della L. 47/1948 e dell’art. 595 n. 3) del C.P. regolatrici della diffamazione a mezzo stampa e con i mezzi di comunicazione al pubblico.
Sull’argomento, seppure in un contesto meno esteso, si era espressa anche la Corte di Cassazione con la sentenza del 14 aprile 2021 (Sent. 13993/21 della V Sezione Penale)[3] osservando – in linea con il dettato di precedenti arresti della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo – che la reclusione, anche qualora riguardi sentenze sospese, non può essere inflitta dal giudice per il reato di diffamazione salvo che il soggetto colpevole abbia leso gravemente altri diritti fondamentali dell’individuo, come nei casi di istigazione all’odio o alla violenza.
Carcere ai giornalisti? La base logica giuridica
Il tracciato logico-giuridico lungo il quale si è mosso il ragionamento della Corte Costituzionale prende le mosse da due distinte ordinanze di rimessione al supremo organo giudiziario dello Stato, quelle provenienti dal Tribunale di Salerno (in data 9 aprile 2019) e dal Tribunale di Bari (16 aprile 2019) che hanno entrambe sollevato – seppure con ragionamenti distinti e originali – la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 13 della L. 47/1948 (nota come Legge sulla Stampa) e dell’Art. 595, comma 3) del Codice Penale, disposizioni di legge che puniscono la diffamazione a mezzo stampa, la prima, e lo stesso reato se commesso col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la seconda.
Diffamazione, reclusione solo se c’è incitamento all’odio: la sentenza della Cassazione
Sotto il profilo del contenuto sanzionatorio, la prima delle due norme sopra ricordate prevede per i giornalisti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre a una multa, quando la violazione della norma consista nell’attribuzione al diffamato di un fatto determinato che risulti accertato non rispondere al vero.
La seconda disposizione punisce invece, in via alternativa, con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a cinquecentosedici euro, gli atti di diffamazione posti in essere sia con la stampa che con qualsiasi altro media, inclusi gli atti pubblici.
Una terza norma, quella dell’Art. 57 del C.P. punisce, fatte salve le disposizioni sopra ricordate rivolte all’autore dei contenuti diffamatori o a chi con esso concorra nel reato, “il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto, il controllo volto ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati (…)”. La pena prevista per questo reato è stabilita, a titolo di colpa, con la stessa pena prevista per la diffamazione a mezzo stampa, diminuita di un terzo.
Le ragioni fatte valere dai tribunali rimettenti alla Consulta affinché questa dichiari l’incostituzionalità delle due norme dell’Art. 13 Legge Stampa e dell’Art. 595 c. 3 del C.P., si basano in parte preponderante su una, fino ad oggi, scorretta lettura da parte dei giudici nazionali dell’art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali[4].
In merito a tale disposizione, la giurisprudenza della C.E.D.U. ha da tempo stabilito come la libertà di manifestazione del pensiero non possa conciliarsi con una sentenza di condanna alla reclusione se non nei casi eccezionali, giustificati dalla commissione di gravi lesioni ad altri diritti fondamentali dell’individuo, quali la diffusione di discorsi di odio o l’istigazione alla violenza. Diversamente, gli atti di diffamazione a mezzo stampa appaiono incompatibili con una pena detentiva, a maggiore ragione quando la diffamazione si estrinsechi nell’attribuzione di un fatto determinato come accade alla stregua dell’Art. 13 della nostra Legge Stampa[5].
In linea con quanto hanno evidenziato i giudici dei Tribunali di Bari e di Salerno nel sollevare la questione di costituzionalità delle due norme penali interne, le sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo[6] hanno ripetutamente visto l’Italia soccombere per effetto del mancato intervento correttivo e interpretativo delle disposizioni in materia di diffamazione, le quali si pongono in distonia con quelli di gran parte degli Stati dell’Unione Europea, ove prevale l’applicazione di sanzioni penali disgiunte da quelle pecuniarie[7].
Sulla rilevanza penale della diffamazione a mezzo stampa si era occupata con un esame esteso la Corte di Cassazione, Sez. V Penale, già nell’anno 2012 quando, con la Sent. N. 41249 del 23 ottobre di quell’anno, essa aveva fatto emergere il livello di attenzione che oggi le decisioni della Corte Costituzionale in commento ci pongono sotto gli occhi.
Scriveva in sentenza, fra l’altro, il giudice di legittimità: “Tra le censure formulate dal ricorrente S. sul trattamento sanzionatorio merita primaria risposta quella concernente la violazione dell’art. 10 della convenzione CEDU, che, “come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo”, è ritenuta parametro di legittimità costituzionale della normativa interna[8]”.
Il rinvio alla Corte Costituzionale
In perfetta sintonia con le domande portate a quel tempo e in quella fattispecie di fronte alla Corte di legittimità per l’accoglimento nel nostro ordinamento giuridico dei principi stabiliti dall’art. 10 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, il contenuto delle ordinanze di rimessione al giudizio di costituzionalità nei procedimenti penali pendenti nei confronti di alcuni giornalisti ed editori di fronte ai tribunali di Bari e di Salerno, hanno costituito oggi il fondamento dei giudizi di rinvio alla Corte Costituzionale che sono stati decisi il 12 luglio 2021.
L’intenzione espressa da questi giudici del rinvio alla Consulta della questione di costituzionalità delle norme penali interne in materia di diffamazione è quella di escludere il possibile cumulo fra sanzione penale detentiva e pecuniaria (multa) rendendo alternativo il regime sanzionatorio così da consentire al giudice penale una maggiore discrezionalità nell’applicazione delle sanzioni. Difatti, le norme penali attualmente in vigore in tema di diffamazione a mezzo della stampa si porrebbero in frizione con gli artt. 3, 21, 25, 27 e 117 (1° comma) della Carta Costituzionale in relazione all’Art. 10 della Convenzione EDU.
A tale proposito, le riflessioni sviluppate dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza 132/2020, hanno fatto anzitutto richiamo alla prima importante decisione della CEDU, risalente all’anno 2004 in tema di diffamazione e sanzioni penali, con la quale pur riconoscendosi la responsabilità penale dei giornalisti indagati, si è dichiarato che l’applicazione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa, seppure non eseguita per l’intervenuto riconoscimento della grazia, costituisse un’interferenza sproporzionata con la libertà di opinione in base al più volte ricordato art. 10 della Convenzione per i Diritti dell’Uomo.
Infatti, ha sottolineato la Corte Europea, la libertà di espressione voluta da tale norma la tutela della reputazione delle persone non può implicare l’inflizione di sanzioni tali in modo tale da dissuadere indebitamente i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalazione all’opinione pubblica di casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri (par. 113), dal momento che la stampa ricopre un ruolo di “cane da guardia” della democrazia (Sent. Goodwin c. Regno Unito, 1996, par. 39).
Riferisce poi l’ordinanza della Corte Costituzionale di cui ci occupiamo che successivi provvedimenti del Consiglio d’Europa e del Comitato dei Ministri hanno ripetutamente censurato l’uso distorto dei procedimenti penali per i fatti di diffamazione, tanto da richiedere interventi normativi che possano incidere sull’attuale regime interno pur nella piena consapevolezza da parte del nostro Stato che la tutela della reputazione rappresenti un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come più volte ribadito nelle sentenze sia della Corte EDU che da parte della Corte Costituzionale italiana[9].
Tali interventi regolatori secondo la CEDU (e pure secondo la nostra Corte Costituzionale) dovrebbero fare carico al nostro Parlamento, il quale dovrebbe stabilire regole che attribuiscano un’adeguata tutela sia alla libertà di espressione dei giornalisti che alla reputazione dei cittadini, inserendo misure capaci di limitare il ricorso alla sanzione penale della reclusione nei soli casi di diffamazione in cui la pena detentiva risulti necessaria a fronteggiare atti di istigazione alla violenza o all’odio razziale.
Cosa ha stabilito la Corte Costituzionale
Per queste ragioni – conclude l’ordinanza costituzionale – il bilanciamento fra libertà dell’espressione giornalistica e la difesa della reputazione individuale vanno cercati, in primo luogo attraverso gli strumenti normativi, e poi attraverso un sistema ermeneutico che adotti strumenti proporzionati alla gravità oggettiva e soggettiva degli illeciti commessi. Per tali approfondimenti, la Corte ha deciso di rinviare la decisione all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per la discussione delle questioni di legittimità costituzionale rimesse al suo giudizio e per l’emissione della sentenza. Tale rinvio era chiaramente mirato a fare sì che il nostro legislatore provvedesse nel frattempo con l’esame dei provvedimenti calendarizzati in materia.
Non essendo accaduto alcun ché sotto il profilo parlamentare, nel corso dell’udienza tenutasi il 22 giugno 2021, in cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha apertamente osteggiato le istanze di declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme sottoposte al giudicato del supremo organo Costituzionale, i giudici della Consulta hanno considerato ammissibili le questioni poste dai tribunali rimettenti, non solo avuto riguardo all’art. 13 della L. 47/1948, bensì anche in riferimento all’aggravante di cui all’art. 595, terzo comma C.P., per quanto essa risulti assorbita da quella del sopra citato art. 13.
Nel decidere sulle diverse questioni poste dai tribunali rimettenti, la Corte – disattese tutte le difese articolate dall’Avvocatura dello Stato – ha considerato che la disposizione di cui all’art. 13 della Legge Stampa costituisca una lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall’art. 595 C.P., commi due e tre, che stabiliscono sanzioni autonome e più gravi rispetto a quelle contemplate dal primo comma, di talché – essendo la sanzioni prevista dalla legge speciale cumulativa sia della sanzione della reclusione che della multa – il giudice penale si trova di fronte all’obbligo di applicarle entrambe, non potendo optare per una soluzione alternativa. Tale indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva, ha soggiunto la Consulta, rende le disposizioni sulla diffamazione a mezzo stampa incompatibili con il dettato dell’Art. 21 Cost., sulla libertà di pensiero, e con l’Art. 10 della CEDU che regola anch’essa a livello internazionale la tutela della libertà di opinione.
A tale stregua, ha incalzato la Corte Costituzionale, poiché l’Art. 13 Legge Stampa non ha altra funzione che quella di inasprire le sanzioni già previste dall’Art. 595 C.P. in termini incompatibili con le sopra citate disposizioni costituzionali e della Carta per i Diritti dell’Uomo (art. 10), tale disposizione si pone al di fuori di un sistema giuridico che tratti l’applicazione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa con le cautele dovute al fine di evitare che coloro i quali esercitano l’attività giornalistica siano intimiditi dalla prospettiva di una sanzione penale detentiva certa, nei casi in cui il loro scritto venga giudicato diffamatorio.
Quando è ammessa la reclusione
Ovviamente, lo strumento della reclusione potrà essere adottato nei casi in cui la diffamazione commessa sia connotata da fatti di eccezionale gravità, mentre in tutte le fattispecie ordinarie di offese alla reputazione altrui che, nell’esercizio del diritto di cronaca o di critica, non presentino altro che opinioni critiche, seppure severe e non rispondenti a uno o più dei tre canoni della verità, continenza o dell’interesse pubblico alla notizia, si potranno applicare rimedi o sanzioni civili, ovvero ancora amministrative.
Alla stregua di quanto precede, anche con la finalità di evitare per il futuro l’irrogazione allo Stato italiano di sanzioni derivanti dalle violazioni della Convenzione EDU, la Consulta ha formulato precise indicazioni ai giudici penali suggerendo loro di “optare per l’ipotesi della reclusione solo nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata, secondo i principi sopra declinati, mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi”.
Gli esempi per cui è ammesso il carcere, Corte di Cassazione
In dettaglio, la Cassazione nella suddetta sentenza ha limitato il carcere ai soli fatti di estrema gravità, quelli connessi a discorsi d’odio, istigazione alla violenza, campagne di disinformazione (via stampa, internet, o social media) gravemente lesivi della reputazione della vittima e nella consapevolezza della falsità degli addebiti.
In relazione a questi ragionamenti, richiamate le considerazioni che stanno alla base dell’ordinanza 132/2020 della stessa Consulta, essa ha dichiarato l’incostituzionalità sia dell’Art. 13 della Legge Stampa – che è stato di conseguenza abrogato – al pari di quella dell’art. 30, comma 4, della Legge Mammì (L. 223/90) non essendo invece risultate fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del C.P. che rimane in vigore in quanto esso prevede le sanzioni alternative .della reclusione e della multa.
Seppure molti esperti abbiano definito questa sentenza come una soluzione parziale al tema della punibilità della diffamazione a mezzo stampa, possiamo certamente affermare che la Corte Costituzionale abbia stabilito importanti principi lungo i quali il nostro Parlamento dovrà sviluppare nuove norme in materia, disposizioni che come abbiamo visto (in particolare nel pezzo richiamato nella nota 3) per troppo tempo sono state procrastinate o abbandonate nell’assenza di una reale convergenza politica sul tema.
Note
[1] https://giurcost.org/decisioni/2020/0132o-20.html
[2] https://www.eius.it/giurisprudenza/2021/391
[3] https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/diffamazione-reclusione-solo-se-ce-incitamento-allodio-la-sentenza-della-cassazione/
[4] Articolo 10 – Libertà di espressione.
- Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
- L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.
[5] La questione della legittimità costituzionale dell’Art. 13 L. 47/1948 coinvolge anche l’art. 30, comma 4, della legge n. 223/1990 (c.d. Legge Mammì) che tuttora regola in parte il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, disposizione che estende le sanzioni previste per la diffamazione a mezzo stampa anche avuto riguardo al settore del giornalismo radiotelevisivo.
[6] Oltre alle sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo nei noti casi Belpietro c. Italia (Sez. II del 24 settembre 2013) Ricci c. Italia Sez. II, dell’8 ottobre 2013, n. 30210/06) e Sallusti c. Italia (Sez. I del 7 marzo 2019) con cui la Corte EDU ha rimarcato che la pena detentiva inflitta per un’infrazione commessa nell’ambito della stampa non si può coniugare legittimamente con la libertà di pensiero stabilita dall’Art. 10 della Carta, va ricordato l’arresto CEDU del 16 gennaio 2020 – Ricorso n. 59347/11, causa Magosso e Brindani contro l’Italia, il cui testo è raggiungibile qui https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=0_8_1_7&contentId=SDU251429&previsiousPage=mg_1_20 il quale ultimo ha evidenziato che pure l’inflizione di una multa, che rappresenta una sanzione penale pecuniaria, conferisce all’atto diffamatorio un giudizio di gravità elevata.
[7] Nel dossier telematico rinvenibile presso la Camera dei Deputati http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/App14070.htm sono evidenziate le differenti tipologie di sanzioni previste per i casi di diffamazione a mezzo stampa in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Dall’esame di tale documento comparativo si evince la prevalenza del ricorso in questi paesi alle sanzioni pecuniarie, spesso contravvenzionali, salvi i casi di apologia dei crimini contro l’umanità, incitamento alla violenza contro le donne o la dignità umana (in Francia) per le quali è prevista la reclusione. In Germania, la sanzione penale è prevista per la menzogna diffamatoria per la cui commissione la legge prevede in alternativa la reclusione (fino a 2 anni) ovvero una sanzione pecuniaria. Nel Regno Unito la sanzione penale ha funzione sanzionatoria residuale limitata ai casi di slander (con esclusione quindi del semplice libel punito con una sanzione pecuniaria) nella cui ricorrenza la sanzione penale può raggiungere i due anni di reclusione in alternativa alla sanzione pecuniaria sempre applicabile nei sistemi di “common law”. In Spagna la “calunnia” (intesa come reato contro l’onore) è sanzionata con la pena detentiva da sei mesi a due anni, oppure con una sanzione pecuniaria.
[8] Circa la portata dell’interferenza fra giudicato CEDU e le sentenze nazionali, la Corte di Cassazione esprimeva all’epoca questi concetti: “La Corte Europea razionalmente ritiene che la legittimità dell’ingerenza dello Stato nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione vada valutata, tenendo anche conto della natura e della gravosità delle pene inflitte, nella prospettiva di impedire agli Stati di adottare misure punitive atte a dissuadere i mezzi di comunicazione dall’adempiere al loro ruolo di allertare il pubblico, in caso di abusi dei pubblici poteri (sentenza Cumpana e Mazare v: Romania, n. 33348/96). E’ stato, comunque, costantemente sostenuto, da un lato, che la misura dell’ingerenza punitiva dello Stato nei confronti del giornalista deve essere attentamente calibrata e strettamente proporzionata ai fini legittimi perseguiti (v. sentenza CEDU del 17.07.2008, Riolo c. Italia e la giurisprudenza in essa citata); dall’altro, ha riconosciuto, senza tentennamenti, la legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, condizionato alle “ipotesi eccezionali”, intese come condotte lesive di altri diritti fondamentali (sent. 22.4.2010, Fatallayev c. Azerbaigian; sent. 6.12.07, Katrami c. Grecia; sent. 16.4.2009, Egeland and Hanseid, (In quest’ultima sentenza la Corte ha ritenuto corrispondente “ad un pressante bisogno sociale” l’applicazione di pena detentiva ai redattori capo di due quotidiani che avevano pubblicato fotografie – scattate senza il consenso dell’interessata – che ritraevano una donna, sconvolta e in lacrime, nell’atto di essere accompagnata in carcere per scontare la pena di 21 anni di reclusione per omicidio)”. Pare a chi scrive che le decisioni successivamente emesse dalla Corte Europea non consentano, in alcun caso, che fattispecie quale quella oggetto della sopra citata decisione di quell’organo, datato 16 aprile 2009, possa trovare asilo nell’acquis dei Paesi aderenti alla Convenzione, stante il netto revirement giurisprudenziale intervenuto da parte di tale organo che oggi si esprime sistematicamente in senso contrario ad ogni sanzione penale detentiva nei confronti dei giornalisti, così come si desume dalle decisioni che abbiamo sopra tratteggiato.
[9] Cfr. Corte Costituzionale Sent. 37/2019 Sent. 379/1996, Sent 86/1974