l'analisi

Big tech, ricerca e innovazione: quale futuro per la proprietà intellettuale

La proprietà intellettuale deve essere un fattore frutto di ricerca e creazione, quindi meritevole di tutela e non può essere asservita e controllata da pochi soggetti, potenti e capaci di assorbire inesorabilmente interi comparti creativi e produttivi. La posta in gioco

Pubblicato il 03 Set 2021

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale

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I fatti non sono mai stati tanto chiari come in questi mesi: le aziende hanno sempre maggiore necessità di investire e di sviluppare nuove conoscenze per essere competitive sul mercato. Solo l’investimento in ricerca e sviluppo (“R&D”) di molte imprese presenti nel settore biofarmacologico ha permesso, ad esempio, di combattere efficacemente le malattie pandemiche che si presentano, in forme diverse e sempre più aggressive, di fronte a noi e – a quanto dicono gli scienziati – alle generazioni a venire.

L’impulso per le imprese operanti in molti segmenti del mercato industriale di orientarsi verso la creazione e l’innovazione, l’acquisizione di un maggiore know-how produttivo, l’acquisto di licenze nel settore dei marchi e dei brevetti, in quello dell’audiovisivo e del multimediale, lo sviluppo degli accordi di licensing e di cross licensing soprattutto nell’area dei diritti della proprietà industriale, hanno conferito al più ampio termine “proprietà intellettuale” una luce positiva che per le imprese equivale oggi a un incremento del valore e della qualità dei loro prodotti e dei loro servizi, superandosi così la iniziale diffidenza di molti verso una lettura di questo termine quale pratica monopolistica limitativa della concorrenza.

Come siamo arrivati a perdere il controllo delle big tech

Se consideriamo quale sia lo scopo delle attività di ricerca e di sviluppo in seno alle aziende nell’epoca che stiamo vivendo, constateremo che esso si traduce nello studio di innovazioni tecnologiche atte a essere impiegate per migliorare sia i prodotti e i servizi forniti, sia gli inerenti processi di produzione e di distribuzione, tanto che non potremo che convenire sul fatto che un significativo incremento degli investimenti delle imprese in quest’area si renda indispensabile.

Quella connessione tra ricerca, sviluppo e crescita dell’impresa

Non sempre, peraltro, le ragioni di questa connessione fra ricerca e sviluppo e crescita dell’impresa sono ben presenti a tutti gli operatori commerciali e finanziari. A volte, sembra a taluni sfuggire il fatto che nell’economia dell’era digitale ciò che più conti sia l’innovazione, intesa come capacità di creare nuove idee, nuovi processi produttivi e distributivi, soprattutto di generare prodotti e servizi di maggiore livello qualitativo e, quindi, più richiesti dal mercato.

La proprietà intellettuale diviene quindi il motore della crescita delle aziende e favorisce – piuttosto che frustrare – la concorrenza, conferendo punti di riferimento certi a chi sviluppa innovazione e a chi se ne avvale. Essa consente di realizzare risparmi nell’impiego di materiali, di ridurre il costo del lavoro, le modalità e i tempi del suo impiego (es. I.A. e smart-working), di realizzare prodotti più affidabili e di qualità superiore, di diminuire l’inquinamento e di rendere più durevoli ed efficienti gli strumenti e i prodotti offerti al mercato, con maggiore redditività.

Queste notazioni sono valide oggi come lo erano dieci anni fa, quando alcuni operatori hanno compreso l’importanza di investire per creare un assetto di impresa che fosse capace di fronteggiare il mutamento impetuoso e inarrestabile della tecnologia digitale, con la grande differenza che la crescita gigantesca di alcune realtà (pensiamo alle “Big Tech”) pone oggi fuori dal mercato un numero sempre più rilevante di piccole o medie imprese che non sono state capaci di procurarsi, oppure che non disponevano, degli investimenti finanziari e tecnologici necessari per rimanere competitivi nel proprio business. Infatti, l’opportunità di crescita offerta alle imprese che vogliono espandere il proprio mercato attraverso la creazione di nuove attività imprenditoriali incontra significativi ostacoli soprattutto nel comparto digitale, nel quale – a fronte di una sensibile riduzione del mercato produttivo tradizionale – i detentori delle piattaforme digitali hanno ulteriormente rafforzato il loro strapotere economico (e non solo) andando ad espandendosi in nuovi mercati, financo assumendo ruoli che non appartengono alla loro originaria vocazione imprenditoriale. Non è solo l’aspetto egemonico dei colossi del web a preoccupare: i fatti che hanno di recente coinvolto Facebook e Google nei confronti dei mezzi di informazione in Australia, con il blocco da parte della prima dell’accesso alle news, sono attualmente oggetto di specifici interventi normativi da parte del Parlamento australiano. Nel mentre Alphabet litigava con le istituzioni del paese australe sul compenso dovuto agli editori dei giornali per la riproduzione dei loro articoli, un altro gigante del settore digitale, Microsoft, cercava un negoziato con il governo della Nuova Olanda per sostituire progressivamente l’impiego del motore di ricerca “Google” con il proprio “Bing”. Venivano in tal modo portate prepotentemente all’attenzione dei politici e degli economisti evidenze che dispiegano prospettive inusitate circa il prossimo futuro del mondo, non solo quello della proprietà intellettuale.

Lo strapotere delle Big Tech e i rischi per lo sviluppo del mercato

Se, infatti, l’accelerazione impetuosa della digitalizzazione globale, imposta in questi mesi dalla chiusura degli aeroporti, di molti uffici e di interi comparti produttivi, non dovrebbe sorprendere, semmai, dovrebbe dare sollievo ai cittadini del pianeta, delle scelte adottate dai vertici di alcune delle Big Tech agitano chi si attende uno sviluppo globale equilibrato e rispettoso dei valori democratici e coloro i quali nutrono dubbi circa la possibilità di arginare la crescita esponenziale del potere esercitato da questo oligopolio digitale, il quale appare inarrestabile nella sua concentrazione oltre che assai poco controllabile dalle scelte politiche dei singoli stati in cui tali colossi economici operano.

Se, infatti, l’azione avviata dall’Antitrust Usa nei confronti di alcune delle piattaforme digitali, non inspiegabilmente traccheggia e sfocia nell’autocompiacimento dei loro leader nello sfilare di fronte ai membri del Congresso, non senza ragione peraltro, dal momento che le loro imprese stanno alimentando una crescita senza pari dell’economia a stelle e strisce, il tentativo di applicare una forma di tassazione equa sui ricavi maturati da questi giganti fuori dalla loro sede sembra essere destinato a una gestazione difficile e comunque con un esito prevedibile ben lontano dal parametrarsi al controvalore delle posizioni dominanti da esse raggiunte, tanto da incentivare da parte delle medesime ulteriori e significative acquisizioni in aree strategiche del mondo delle infrastrutture e della tecnologia.

Le potenzialità, quasi illimitate, che la convergenza fra intelligenza artificiale, possesso dei profili degli utenti e fornitura di servizi essenziali di cui le piattaforme digitali posseggono il controllo (ad esempio: e-commerce, comunicazione interpersonale, ricerca e possesso di banche di dati, gestione di viaggi, alberghi e, a breve, servizi bancari), aprono le porte a un mercato che sarà sempre più appannaggio di pochi operatori i quali detteranno le regole (e i corrispettivi) dei loro servizi, potendo dare il proprio consenso o opporre il proprio diniego a molte delle scelte imprenditoriali e non solo, che riguardano il nostro futuro.

In questo senso, se la scelta fatta dai gestori di una piattaforma digitale determinatasi a cancellare una certa persona o un determinato ente dalla possibilità di comunicare attraverso l’account da questi aperto qualora il comportamento ad essi ascritto non sia ritenuto conforme alle policy dell’azienda può apparire legittimo e, talvolta, pure commendevole, siamo certi che in futuro tale opzione possa non essere attuata in modo discriminatorio o, addirittura, arbitrario?

Non dissimile dall’ipotesi sopra vagheggiata appare il possibile caso di negazione del proprio servizio opposta da parte di un soggetto in posizione dominante sul mercato che, avendo le sue prestazioni raggiunto il carattere di essenzialità per la parte prevalente degli utenti, rischia di porre un singolo, un’impresa, un apparato, uno stato, un continente ai margini del contesto economico, senza possibilità di ricorso a un sistema diverso da quello fornito e gestito dallo stesso operatore.

Questi sviluppi non impensabili nella concentrazione di forza economica nelle mani di un pugno di grandi imprese, tanto discrezionali quanto illimitati, capaci di chiudere in se stesse il dialogo sulle scelte vitali del mercato e dell’economia mondiale, lasciano intravvedere gli effetti della dipendenza quasi totale del continente europeo dal modello statunitense, mentre paiono concedere più di qualche giustificazione a quegli stati e a quei continenti che hanno adottato modelli interni di infrastrutture digitali che prevengono l’ingresso delle piattaforme originate all’estero.

La necessità di regole per le Big Tech

A tale stregua, il dubbio che l’esercizio dei servizi svolti dalle “Big Tech” debba essere oggetto di regole che, dando atto della globalità e della pervasività della loro presenza, non solo nell’ambito dell’attività economica ma pure nella vita privata e personale di ciascuno, stabiliscano criteri precisi capaci di scongiurare abusi o atti discriminatori, si manifesta inevitabilmente di fronte ai lettori più attenti. In tal senso si va da tempo ipotizzando la nascita condivisa fra gli stati dell’ONU di un organismo sovraordinato che possa studiare e imporre un assetto normativo in grado di disciplinare l’operato dei soggetti in posizione dominante nei diversi segmenti dei servizi digitali di importanza vitale. Si stabilirebbero di tal guisa principi che andranno a toccare non solo gli aspetti fiscali della tassazione degli introiti percepiti dai monopolisti, ma anche i limiti alla raccolta pubblicitaria, alla gestione dei dati personali, all’uso abusivo dei servizi digitali da parte degli utenti che ne profittino, ponendo altresì obblighi e responsabilità in capo ai gestori per il caso di atti illeciti compiuti per il tramite delle loro piattaforme.

In un mondo che si presenta così fortemente concentrato nelle mani di pochi soggetti che detengono fette sostanziali di mercati che erano in precedenza appannaggio di molteplici imprese collocate e distribuite nel mondo, non possiamo non chiederci nuovamente se la sopravvivenza della stessa proprietà intellettuale non si stia spostando in capo alle decisioni di chi, detenendo potere comunicazionale oltre che lobbystico, può stabilire cosa fare di tutto ciò che viene veicolato sulle reti digitali, a prescindere dal fatto che esso ne sia legittimo possessore o semplice organizzatore e distributore.

Si tratta, in conclusione, di comprendere se la proprietà intellettuale possa essere un fattore frutto di ricerca e creazione, quindi meritevole di tutela, o se essa debba essere asservita e controllata da pochi soggetti, potenti e capaci di assorbire inesorabilmente interi comparti creativi e produttivi, mutando le regole del gioco sin qui applicate e che abbiamo fino ad oggi conosciuto.

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