In un’analisi pubblicata dal MIT Technology Review il 23 agosto scorso, si afferma che siano i Talebani, non l’Occidente, ad aver “vinto la guerra tecnologica afghana”.
Le argomentazioni proposte sono interessanti e muovono dall’idea che il conflitto consumatosi nel teatro afghano si caratterizzi per originalità rispetto a quelli che, negli ultimi secoli, hanno visto partecipare una o più potenze occidentali. Infatti, si tratterebbe del primo caso (per lo meno, di tale magnitudine) nel quale la superiorità tecnologica di uno dei contendenti non si sia tradotta in un fattore determinante per l’esito.
L’Afghanistan e la “politica estera” dei social: come cambiano i ruoli con i Talebani al potere
I due argomenti a favore dei Talebani
Per far luce su questo scenario, che potrebbe risultare a molti controintuitivo, l’articolo muove su due principali argomenti. Il primo evidenzia come, in questo caso, il livello tecnologico di partenza – molto più basso per i Talebani – abbia favorito, in ottica relativa, questi ultimi. Infatti, si sostiene, in 20 anni di conflitto il fronte occidentale ha visto, sul campo, un tasso di evoluzione degli armamenti notevolmente inferiore di quanto invece sia accaduto per le forze talebane. Queste ultime, dunque, avrebbero visto, in un ideale bilanciamento delle forze, un più vigoroso riassetto a loro vantaggio, di quanto non sarebbe accaduto per gli USA e alleati. Non solo, il basso livello tecnologico di una delle parti, soprattutto per ciò che concerne il fattore digitale, è di per sé – paradossalmente – una mancata vulnerabilità, poiché rende inutili i numerosi strumenti d’avanguardia di proiezione o difesa fondati sull’utilizzo del layer cyber della realtà.
Se quanto appena sintetizzato, pur rappresentando verosimilmente quanto accaduto, ricalca percorsi di analisi più spesso battuti dalla letteratura, è invece il secondo driver argomentativo a rappresentare, a parere di chi scrive, il focus di originalità dell’articolo. Qui, infatti, è introdotta la distinzione tra guerra di opportunità (o scelta) e guerra per l’esistenza, per poi ricondurre a queste due differenti prospettive diversi approcci nello sfruttamento, a fini militari, dei potenziali di cui il progresso tecnologico è foriero.
Più in particolare, si nota come la prospettiva occidentale, ovvero quella di una guerra “facoltativa”, abbia comportato notevoli differenze sia sul piano tattico, che su quello strategico, nell’utilizzo delle tecnologie, rispetto a chi – i Talebani – ha affrontato il conflitto nell’ottica dello iato “vittoria/morte”. Sul piano tattico, si nota come i primi abbiano concentrato gli sforzi nell’applicare le nuove tecnologie allo scopo di minimizzare le perdite umane o, più in generale, i costi del conflitto mentre i secondi avrebbero puntato in modo sensibilmente maggiore sull’ottenere maggiore efficacia nel conseguire veri e propri obiettivi, a loro volta tattici o strategici. Per altro verso, si nota come i Talebani avrebbero, in misura notevolmente maggiore rispetto alle forze democratiche, approfittato a 360 gradi della rivoluzione tecnologica digitale, mutando radicalmente la natura stessa della loro strategia. Si evidenzia, quindi, come i Talebani abbiano imparato ad utilizzare l’interconnessione per via digitale al fine di organizzare meglio le loro linee interne durante le operazioni o per esplodere la magnitudine della loro capacità di propaganda presso le popolazioni target della loro influenza. In definitiva, si legge, sembra emergere una conclusione di carattere generale per la quale la tecnologia non rappresenterebbe né un driver né una garanzia di vittoria in ambito bellico, ma, piuttosto, un fattore abilitante.
I Talebani, i social e il digitale: quale lezione per l’occidente
La guerra senza limiti
Uscendo dall’analisi – pur necessaria – dell’articolo, è interessante ragionare circa il fatto per il quale, laddove ci fosse consenso sulla lettura fin qui proposta del conflitto afghano, si potrebbe considerare il carattere di quest’ultimo come un indicatore – enormemente efficace – dell’effettivo direzionarsi del corso storico in materia bellica verso lo scenario ipotizzato, ormai tre decadi fa, da due colonnelli cinesi nell’opera conosciuta in Europa e Stati Uniti con il titolo di “Guerra senza limiti”.
Già allora, questi brillantissimi analisti militari anticipavano come il progresso tecnologico avrebbe caratterizzato in modo rivoluzionario i conflitti del futuro prossimo (ovvero il nostro presente) allertando, però, sul fatto che non le armi di nuova concezione, ma un “nuovo concetto di arma” sarebbe stato il vero driver dei nuovi conflitti. Questa tesi si lega in modo strettissimo all’idea del progresso tecnologico come piattaforma abilitante in campo bellico. Infatti, in entrambi i casi si pone rilevanza al fatto che la portata della rivoluzione digitale è tale da far sì che la vera innovazione di cui è foriera non sta tanto nelle meraviglie militari d’avanguardia che si possono schierare in campo, quanto nel consentire a chi ne è capace di sfruttare dei mutamenti strutturali del fenomeno bellico in quanto tale, derivanti da mutazioni – a loro volta strutturali – dell’intero ecosistema antropico nel quale il fenomeno bellico (purtroppo) si sviluppa.
Un esempio di agile estensione, in tal senso, è quello riguardante la propaganda serratissima, diffusa dai Talebani immediatamente dopo aver ripreso il controllo dei centri nevralgici del teatro afghano, in materia di diritti umani fondamentali e in particolare di quelli delle donne. Diffondere rapidissimamente via social dichiarazioni e immagini che evochino un radicale mutamento di atteggiamento, rispetto a quanto accaduto tra il 1996 e il 2001, in fatto di diritti delle donne, riveste infatti un importantissimo valore strategico. Occorre ricordare, in proposito, che la posizione della donna nella società afghana a matrice talebana è stata – assieme alla disarticolazione delle organizzazioni terroristiche di presunta ispirazione islamica – la principale chiave di natura narrativa atta a giustificare, agli occhi degli elettorati occidentali, lo sforzo bellico alleato in quel teatro. Non sono, certo, le considerazioni in merito alla potenzialità di proiezione di potenza in Asia dovute alla posizione geografica del Paese o quelle afferenti all’enorme ricchezza del territorio afghano in fatto di metalli preziosi (rame) e terre rare a spostare l’ago del consenso verso il “sì” o il “no” dell’elettore statunitense, italiano o inglese. Paradossalmente (ma non incomprensibilmente), questi argomenti legati all’interesse nazionale (o regionale, o di alleanza), pur molto meno effimeri, condizionano in misura molto inferiore l’elettorato rispetto a considerazioni di tipo etico le quali, magari, non sono nemmeno del tutto verificabili in termini di corrispondenza nella scala dei valori tra coloro che si propongono di presidiarne i postulati e coloro che ne dovrebbero beneficiare.
I social come “nuovo concetto di arma”
Così, quali che siano le ragioni più profonde della volontà di presenza o di influenza in Afghanistan da parte delle maggiori potenze globali, la difesa dei diritti delle donne assume una rilevanza centrale quale obiettivo ineludibile da parte del nuovo establishment talebano nell’ottica di garantire il nuovo status quo da possibili velleità di rovesciamento da parte dell’alleanza al momento sconfitta. Caso, questo, in cui l’utilizzo di una delle più rilevanti novità tecnologiche degli ultimi due decenni (i social media), di natura smaccatamente non militare, si trasforma in una piattaforma abilitante di un’operazione di natura (e sicura rilevanza) bellica. Trattasi di nuovo concetto di arma o, se si vuole, di tecnologia come piattaforma abilitante di nuove strategie belliche, tanto più efficaci quanto più spurie e poco intuitive (ibride). A maggior ragione se si ipotizza (ma chi scrive non ne ha prove o indicatori validi) che i Talebani abbiano intercettato una tendenza di cui, ormai, in Occidente – pur se con lo sguardo rivolto più alle vicende politiche interne agli Stati – si parla di continuo, ovvero dell’eccessivo peso della narrazione rispetto ai fatti reali nel determinare le oscillazioni di consenso, a causa della capillare pervasività dei social media e della loro natura acefala e diffusa (si veda il dibattito sulle cosiddette fake news). In questo caso, il nuovo establishment afghano potrebbe aver addirittura considerato che, in caso di riuscita di una adeguata campagna d’immagine mediatica, poco importi – in termini di corso strategico del (post)conflitto – se realmente il loro approccio in materia di diritti umani e di condizione della donna sarà sostanzialmente in discontinuità con il passato. Laddove l’immagine che raggiungerà gli elettorati occidentali evocherà negli elettori uno status emotivo di distacco dalle sorti delle donne afghane, ai governi alleati mancherà un argomento forte per giustificare (tanto più in anni di gravi difficoltà economiche e pandemia) uno sforzo eccessivo e duraturo nel teatro afghano. Ciò, per inciso, a tutto vantaggio di competitor geopolitici la cui governance si fonda su modelli differenti da quello democratico.
Conclusioni
Così, quanto accaduto in Afghanistan potrebbe realmente rappresentare uno spartiacque storico tra un mondo nel quale la tecnologia digitale ha condizionato la guerra solo in termini di novità tecnologiche militari schierate sul campo e quello, previsto dai colonnelli cinesi, della guerra senza limiti. Ciò, peraltro, implicherebbe necessariamente una riflessione, dal momento che è del tutto possibile che l’establishment cinese, che è lo stesso di quando Guerra senza limiti venne concepito, abbia proseguito la sua azione di progresso strategico confidando proprio nella realizzazione di questo tipo di scenario, accumulando in tal senso molto più margine di vantaggio di quanto non si ipotizzi guardando solo alla competizione in fatto di armi di nuova concezione.