In questo periodo due fenomeni, di tipo diverso, stanno attraversando le organizzazioni nel contesto internazionale. Fenomeni che hanno un impatto sull’approccio all’e-leadership di cui ho trattato diffusamente in un recente libro oltre che su questa testata. Si tratta, in particolare:
- della configurazione dei crimini informatici verso le organizzazioni, sempre più organizzata e professionale ;
- della gestione del cosiddetto “next normal”, della fase post-pandemia in cui, a parte le regole di contenimento ancora necessarie, la gestione della logistica del lavoro e quindi del “lavoro agile” entrano in una fase diversa da quella sostanzialmente influenzata dalla presenza delle misure di lockdown e da un’accezione di lavoro agile sostanzialmente come “lavoro da casa”, (e quindi anche più remote working che teleworking), verso modelli di lavoro effettivamente ibridi.
Questo comporta, rispettivamente,
- dare valore al tema della cybersecurity come conoscenza fondamentale, consapevolezza necessaria per l’e-leader (in particolare nell’ambito dell’area di competenza “cultura digitale”), necessaria per intraprendere strategie efficaci. E quindi necessità di conoscenza anche sulle tecnologie emergenti;
- rendere centrali le competenze organizzative (infatti, si richiede ancora di più che il “management sia una competenza e non un titolo”) e la necessità di un piano di trasformazione digitale che consenta di definire il modello di lavoro adeguato allo specifico contesto e che tenga conto dei benefici organizzativi del lavoro agile.
La consapevolezza della cybersecurity per l’e-leader
Il fenomeno dei crimini informatici, per gravità, ha le dimensioni che i casi dell’ultimo periodo hanno iniziato ad evidenziare: organizzazioni che letteralmente vedono bloccati i propri servizi, amministrazioni che non riescono a erogare i servizi essenziali ai cittadini, servizi trasversali per più organizzazioni (fruibili tramite cloud) non utilizzabili e il cui blocco danneggia contemporaneamente più organizzazioni. In una situazione che è oggi di “una persistente compromissione delle infrastrutture nazionali e internazionali di servizi digitali e tecnologici.”
Se l’amplificazione anche mediatica di alcuni di questi casi ha portato i riflettori sulla necessità di associare a piani globali e integrati di cyber security anche solidi piani di continuità operativa, ecco che questo tema è finalmente salito al livello della governance dell’intero sistema .
Il Clusit riporta che i danni globali causati dal cybercrime ammontano a due volte il PIL italiano. Per la sola Italia si ipotizza che nel 2024 ci saranno perdite dell’ordine di grandezza di 20-25 miliardi di euro. La spesa globale dedicata alla cybersecurity non supera i 145 miliardi di dollari (di cui in Italia se ne spendono solo 1,5 miliardi).
Per affrontare questo tema è necessaria una consapevolezza digitale associata a una conoscenza mirata del tema e della sua dinamica. In altri termini, la consapevolezza che consente di porre la trasformazione digitale come necessità di business (pubblico e privato) deve anche configurare il tema della cyber security in modo sistemico come tema prioritario e dinamico che preserva l’agibilità delle attività dell’organizzazione, e quindi allo stesso livello di importanza.
Non è un caso che nel modello di e-leadership citato la cybersecurity sia una delle tre competenze trasversali dell’area di competenza “cultura digitale” (le altre sono legate all’innovazione e ai progetti di trasformazione digitale), per cui si richiede che l’e-leader sia “consapevole della rilevanza della sicurezza nelle organizzazioni e dei rischi associati” e conosca quali sono i principali strumenti organizzativi e tecnologici per la gestione della sicurezza. Si tratta di una consapevolezza che si situa nel percorso critico di sviluppo di una matura competenza di e-leadership.
La modalità ibrida di lavoro come necessità organizzativa e le competenze di e-leadership
Come puntualizzato da diversi osservatori e studi (anche in ambito europeo), mentre l’evoluzione preferita dai lavoratori è quella di una modalità di lavoro ibrida (in Italia “lavoro agile”) per cui “la maggior parte (78%) preferisce un modello di lavoro ibrido che unisca telelavoro e lavoro in sede”, le organizzazioni nei diversi continenti si stanno focalizzando in questo periodo su questioni come la corretta percentuale di giornate settimanali in cui i dipendenti possono lavorare da remoto e quali regole adottare per i compensi (possono valere meno le giornate in lavoro da remoto? possono essere diversamente retribuite a seconda del territorio in cui si lavora?).
Tranne qualche eccezione, l’impressione è che si pensi che la definizione del “next normal”, del periodo post-pandemia, possa essere effettuata in ottica di stabilità. E che quindi le organizzazioni possano decidere il nuovo punto di equilibrio sulla base, sostanzialmente, dei vantaggi economici derivanti dal minore utilizzo degli spazi fisici e dalla dimensione minima di controllo fisico necessario.
Il problema è che la mancata consapevolezza del “nuovo” contesto, rende difficile adottare la logica di un modello ibrido che vede la presenza fisica come uno degli elementi di articolazione del lavoro, in cui il luogo di lavoro è definito sulla base dell’obiettivo e dei requisiti della specifica attività, e andare quindi verso “modelli di lavoro che si basino davvero su autonomia e flessibilità, nel tempo e nello spazio” .
Un altro punto di riflessione è che il periodo pandemico (da cui è chiaro che non siamo usciti del tutto) non solo ha fornito stimoli importanti per massimizzare l’utilizzo delle tecnologie nei processi, amplificando e rendendo evidenti le modifiche necessarie ai processi stessi, ma ha anche reso evidente che una delle condizioni da sviluppare è proprio la resilienza organizzativa, e quindi la capacità di gestire situazioni di crisi come quella dovuta al Covid-19. Questo significa pensare che la fase in cui siamo entrati è una condizione di equilibrio in cui hanno dimora stabile l’incertezza e i repentini cambi di contesto. Anche in questo senso l’implementazione di un modello ibrido è fondamentale per massimizzare la capacità di resilienza, perché consente la maggiore adattabilità ai cambi di contesto.
In altri termini, l’implementazione del modello ibrido basato su teleworking e Ict mobile (TICTM), e quindi del lavoro agile, diventa la strada maestra per realizzare in modo efficace le condizioni di resilienza. Sviluppare in modo bilanciato le competenze di e-leadership sulle diverse aree individuate diventa pertanto fondamentale.
Lavoro agile significa disporre di spazio e tempi in funzione dell’obiettivo che si deve raggiungere. Per essere efficace, la regolamentazione interna alle organizzazioni sul lavoro agile deve pertanto inserirsi su questo fronte di crisi ridisegnando lo scenario. Passare, in altri termini, come scrivevo un po’ di anni fa, da una concezione di attuazione per “eccezione” ad una che consideri il lavoro agile come modalità di lavoro “by default”. Abbandonare l’ottica in cui il lavoro agile sia una forma pensata per certe “categorie” di persone (donne, disabili, ..) ad una in cui sia una forma di lavoro che si struttura rispetto alle “tipologie di attività” che consentono un lavoro non svolto del tutto nella sede di ufficio.
Non è un discorso nuovo. Negli USA fu l’amministrazione Obama a introdurre una sorta di “telelavoro by default”, disponendo l’obbligo per le PA di pubblicare lo stato di attuazione di un piano per l’utilizzo del telelavoro sulla base del principio che il lavoro deve essere svolto in ufficio solo se/quando necessario.
La necessaria gradualità di attuazione del lavoro agile nelle organizzazioni attiene pertanto, in gran parte, alla costruzione delle condizioni culturali e organizzative che consentono di passare da una logica di controllo della presenza (fisica, non effettiva e di attenzione) ad una di monitoraggio degli obiettivi. E quindi con un percorso determinato, e concreto, che tenga conto delle esigenze di efficacia ed efficienza delle singole attività, sapendo che, come evidenziato da più ricerche (vedi ad esempio l’OCSE), con il lavoro agile il potenziale di produttività individuale e collettivo aumenta in modo significativo.
Possiamo di conseguenza affermare che la presenza delle condizioni per il lavoro agile è la misura della maturità di un’organizzazione nel percorso della sua “trasformazione digitale”. E se davvero (come credo) c’è una forte correlazione tra maturità relativa alla trasformazione digitale, efficacia ed efficienza dell’organizzazione, diffusione del lavoro agile, ecco che il possesso di adeguate competenze di e-leadership (prima di tutto manageriali, organizzative e relazionali) diventa fondamentale.
In particolare, secondo il modello in 5 aree di competenza declinato in dettaglio nel lavoro citato , si tratta della competenza relativa alla guida per obiettivi condivisi, nell’area della leadership organizzativa, che “si basa sulla connessione tra la capacità di visione e quella di abilitazione e gestione del gruppo”. In modo più ampio, è la capacità alla base del modello del lavoro agile e consiste nel “saper indirizzare l’azione collettiva dell’organizzazione verso un obiettivo che viene condiviso sulla base di una visione del futuro e del percorso che porta al futuro”.
Una competenza tecnica, hard, e si correla strettamente alla capacità di governare e modellare un’organizzazione che lavora per processi e per progetti.
Riflessioni conclusive
Una delle poche certezze sull’evoluzione del contesto economico e sociale è che sarà caratterizzato da incertezza e instabilità e di conseguenza la flessibilità e la resilienza organizzative saranno capacità sempre più necessarie per le organizzazioni. Questo comporta la spinta verso competenze manageriali sempre più connesse ad una matura consapevolezza digitale.
Da questo punto di vista l’attenzione sempre più alta che ha guadagnato il tema della cybersecurity e l’urgenza di decisione che richiede la questione della fine delle misure più drastiche di contenimento per il Covid-19, consentono di porre in modo organico e allo stesso tempo urgente il tema del come affrontare in modo proattivo il “next normal”, nel senso della sua costruzione, e quindi con una richiesta di competenze soprattutto (ma non solo) per chi ha responsabilità di governo e gestione delle organizzazioni. Competenze da coltivare da subito e in modo sistemico (sistema educativo incluso).
Con un rischio, che ha potenziali danni elevati e probabilità non basse: che si opti in gran parte per la scelta nel breve più facile, di pensare alla possibilità di un ritorno al periodo pre-pandemico, anche riportando mentalmente il tema della cybersecurity ad un tema tecnico di addetti ai lavori, di pochi operatori in grado di offrire per sempre garanzia di sicurezza.
Un rischio da non correre.