post mortem digitale

Come curare la web reputation dopo la morte? Ecco perché servono regole chiare

Tutti muoiono, tutti possiamo sopravvivere online, ma la qualità di quella sopravvivenza attesta la nostra importanza in vita una sepoltura analogica e una digitale. Ma perché ciò avvenga con la forza di un vincolo legale, prima occorre definire regole chiare

Pubblicato il 23 Set 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

Cosa sono i Big Data post-mortem? Orme di zombie? Se alla nostra morte il nostro profilo online può avere ancora un impatto su chi resta e in modo non troppo dissimile da quando dall’altra parte c’era un essere umano ancora vivo, la vera rivoluzione digitale è che vita e morte si sono sfumate in una via di mezzo firmata Romero.

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I rischi di non regolamentare i dati dei defunti

Nel libro di Daniel Sieberg e di Rikard Steiber, Digital legacy: Take Control of Your Online Afterlife veniva posta l’attenzione sulla necessità di pensare anzitempo alla sorte della nostra identità online. Ogni Ego è un esercito digitale di cloni, spesso molto diversi l’uno dall’altro (siamo una voce o un lip-sync, un profilo per colpire i recruiter, fotografie di Instagram o tutorial su youtube) tanto che l’unico filo di cucitura può essere offerto dagli analisti delle Big Tech. Loro sanno sempre risalire alla persona a cui corrispondono i dati, anche quando questi “reperti digitali” fossero stati resi volutamente anonimi. Ormai nessun milite potrebbe essere ignoto.

I nostri dati sono una ricchezza, una vera e propria fonte di guadagno. Oltre all’uso che ne fanno le Big Tech, attraverso il web passa la maggior parte del nostro lavoro e molti desidereremmo che le nostre produzioni non andassero perdute nell’oblio, ma che fruttassero nelle mani dei nostri cari. Insomma, regolare l’eredità dei dati e degli oggetti del web è estremamente importante ed è un tema a cui pensare prima che sia troppo tardi – e qui conviene proprio dirlo.

Le nostre identità digitali, continuando a esistere oltre al soggetto fisico, possono seguitare ad avere impatti sulle persone della rete sociale. Da un commento decontestualizzato all’uso delle tracce abbandonate per addestrare le reti neurali e farne deep fake. Fanno parlare il morto senza che questo possa correggere la cattiva interpretazione delle parole inserite fuori contesto o inventate. Non è fantascienza: gruppi di cracker possono usare le informazioni biometriche che abbiamo disseminato su TikTok, Clubhouse e tra le varie app per compiere atti criminali, nascondendosi dietro la nostra identità.

Che potere decisionale abbiamo?

In realtà in quest’epoca non è solo venuta meno la morte, ma anche e soprattutto la vita. Nel metaverso a cui i giganti della tecnologia vogliono tendere, terremo in vita apparente tanto noi stessi quanto i trapassati; non ci sarà più alcuna differenza qualitativa tra chi c’è e chi non più. L’ologramma di Michael Jackson e quello di 2Pac cantano già sui palcoscenici e l’IA inventa canzoni e dipinge quadri sul modello degli artisti defunti. Quale cambiamento generazionale se le grandi glorie del passato potranno continuare la loro attività? Robin Williams, per evitare una speculazione simile della sua immagine, prima di suicidarsi impedì l’utilizzo di nome, firma, fotografia per 25 anni dopo la sua morte, affidando tutti i diritti all’associazione fondata da lui stesso.

Possiamo già decidere di diventare un sito web o una pagina social commemorativi, un bot e finanche un ologramma, ma il vero problema dell’eredità digitale sussiste su quelle informazioni contenute nei server online su cui nemmeno un vivo, in realtà, ha pieno controllo. In assenza di norme chiare è sufficiente fare testamento, affidando a terzi l’utilizzo dei nostri dati, così da evitare speculazioni o abusi? È sufficiente fare periodici backup locali delle informazioni in rete e cancellare quelle che non ci interessano? C’è un modo perché le tracce digitali scompaiano definitivamente insieme a noi? Se non c’è modo per consegnare i dati ai nostri eredi, tantomeno c’è un modo sicuro per impedire che le informazioni vengano usate dalle piattaforme online e anche dai nostri cari.

In realtà, se chi ci sopravvive entrasse in possesso del nostro materiale non criptato, salvato localmente, non sarebbe in un solco totalmente legale: mancando di leggi sulla privacy dei defunti, quello che lasceremmo oltre noi, quando fosse usato, sarebbe materiale pirata. Non solo, i contenuti che diffondiamo sulla rete sono dati che abbiamo consegnato alle aziende private. In ogni momento possiamo togliere alle Big Tech il permesso di utilizzare e gestire quelle informazioni, ma un defunto?

Le iniziative della Digital Legacy Association

La Digital Legacy Association si è preoccupata di fornire guide al pubblico perché comprendesse come attrezzarsi in vista della morte fisica. Ha fornito un template gratuito da scaricare e compilare, inserendo tutti i dati necessari per l’accesso e la reperibilità dei contenuti sulla rete. Questo servirà a essere più tranquilli che i nostri desideri possano essere rispettati. Tuttavia, non è un documento giuridicamente vincolante: sarà sempre a discrezione dei nostri cari il fatto che le nostre volontà vengano rispettate.

Ogni piattaforma ha le proprie policy sulla privacy, i propri termini di servizio e conviene conoscerli prima di decidere di creare un account. Facebook ad esempio ci permette di decidere chi sarà il contatto (scegliendo anche cosa potrà vedere e cosa no) che dovrà occuparsi del nostro account quando diventerà commemorativo. L’associazione, allora, ci aiuta fornendoci una guida sui principali social network, sui servizi web e sui dispositivi. E’ necessario avere consapevolezza del funzionamento delle piattaforme, per dare indicazioni chiare ai nostri discendenti.

Per quanto concerne i dati medici, la linea si fa più sottile. Spesso, per ragioni di privacy, i ricercatori stessi si trovano impossibilitati a utilizzarli. I dati ospedalieri avrebbero un grande valore per la ricerca medica eppure la condivisione tra la comunità di scienziati è bloccata, così da impedire qualunque fuga di informazioni sensibili non autorizzata. I dati dei defunti non solo hanno un limite spaziale, ma anche temporale. In Inghilterra ad esempio vengono eliminati dopo 10 anni.

Poter utilizzare e condividere le informazioni nel futuro, alla luce di nuove evidenze mediche, di cui non si può avere una precognizione, potrebbe essere molto importante. Come ovviare a questi problemi? Ad esempio far firmare un consenso alle persone perché i loro dati, al pari del corpo, possano essere lasciati in eredità alla ricerca. Google, a differenza del settore medico, non dà limiti di tempo alla sopravvivenza delle nostre tracce digitali. Non solo, anche se eliminiamo di nostro pugno l’account, la big tech non ha mai garantito con certezza assoluta che nessuna traccia possa rimanere nei suoi server.

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Conseguenze antropologiche

I profili e la documentazione digitale sono stati frequentemente trasformati in spettri, con cui alleviare la sofferenza dei vivi. Chi resta non dovrà più fare i conti con la nostalgia e chi teme la morte e l’oblio può rasserenarsi di sopravvivere in forma digitale.

In tal senso c’è stata un’esplosione di app con cui mettere in movimento i volti delle persone a noi care ma anche chatbot in grado di parlare con la voce di nostra madre defunta. HereAfter, ad esempio, per $ 125 a $ 625 intervista i clienti sui momenti critici della loro vita. Le risposte diventeranno in seguito il training set con cui creare un bot simile a Siri, che imiti il timbro vocale e le nostre possibili conversazioni. In Corea è stato addirittura aperto un parco virtuale in cui le persone possono incontrare i cari ricostruiti dall’intelligenza artificiale. Eppure il risultato di tutto questo non è la vita eterna, bensì la morte eterna, dei morti e soprattutto dei vivi.

Essere in vita significa comprendere la morte dalla nostalgia di chi non incontreremo più, dalla testiomonianza impossibile dei defunti. Nulla adesso ci potrà fare da memento mori se i morti non ci lasceranno più e se potranno simulare un collegamento simil-medianico con cui testimoniarci l’aldilà e l’aldiqua senza differenze di sorta. Nemmeno le Big Tech hanno metodi per conoscere se le tracce nei loro server appartengono a un morto o a un vivo. Questa assoluta mescolanza delle due partizioni ontologiche ha precise conseguenze anche nell’antropologia.

In tutte le comunità, il passaggio dalla vita alla morte è accompagnato da riti che segnano il ciclo di vita dell’individuo e rimarcano la coesione del gruppo. Questi tipi di riti rappresentano le ritualità più importanti e universali, comuni a tutte le culture. La società digitale sta a tutti gli effetti cancellando l’ultima transizione rimasta, dopo che, ad esempio, il rito della maturità è diventato via via meno influente. All’aumentare di valore dell’adolescenza, l’adultità è stata eliminata, diventando uno stadio che le generazioni non potranno più raggiungere.

Se sta sparendo l’esperienza del lutto, tuttavia, stanno prendendo forma nuove figure che si occuperanno di gestire questa morte apparente. I nuovi sacerdoti sono le software house, incaricate di impacchettare i vivi per trasformarli in zombie di bit. Esse connettono i due mondi vivificando le tracce che ci rappresentano.

La nostra eredità digitale può tornare a vivere in modi differenti, come abbiamo visto, e queste diverse modalità possono suggerire le diverse appartenenze sociali del defunto. Tutti muoiono, tutti possiamo sopravvivere online, ma la qualità di quella sopravvivenza attesta la nostra importanza in vita. Insomma, in pochi diventano un ologramma seguito da milioni di persone.

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Conclusioni

Se vogliamo che il nostro spirito non torni a importunare i vivi bisogna approcciarci con due riti, come facevano i Dayak del Borneo: una sepoltura analogica e una digitale. Ma prima occorre definire regole chiare perché ciò avvenga con la forza di un vincolo legale. Nel frattempo sensibilizzarsi su questo tema non è un racconto della cripta, ma un modo per tutelare noi e chi resterà.

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