Videogame Culture

Cinema e videogiochi: l’unione tra le due “arti” nell’affermazione (anche) del femminile

Cinema e videogiochi sono due media simili eppure così diversi nonché a lungo ritenuti sideralmente distanti, quasi inconciliabili, con il secondo ritenuto da sempre (forse ancora) subalterno al primo: proprio come la donna con l’uomo. Ecco tutti gli stereotipi da abbattere con l’aiuto della co-op tra settima e decima arte

Pubblicato il 27 Set 2021

Luca Federici

Investigatore antiriciclaggio; esperto di comunicazione, autore di Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente

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Cinematografia e videogiochi sono rappresentazioni di immagini in movimento dotate di proprie peculiarità, comunanze, differenze e potenzialità: sovente poste in contrapposizione tra loro (i videogame cubano annualmente, di fatturato, una volta e mezzo il valore di Hollywood), talaltra come due rami di familiarità marchiati da ben distinti lignaggi: il cinema come “rampollo”, ovverosia quale assodata settima arte e l’altro, nel peggiore dei casi, assunto a “giochino” e nel migliore a “fratellastro” della pellicola.

Ma il segreto sta nel mixarli per un cocktail vincente fatto di diversi e apparenti contrapposti: per infiniti ibridi avvaloranti la nostra vita «onlife» intrinsecamente per quanto doverosamente vissuta in co-op. Questo e quello; io e te: e viceversa, per un Noi differenziale, differenziante e, per questo, vincente.

Game industry terra di machismo, ora giochiamo al #metoo

(In)contro: tra cinematografia e videogioco

Quest’articolo, contenente opinioni personali e non necessariamente condivise da chicchessia, tra associazioni menzionate e testata ospitante, nasce come libera, estesa, aggiornata e riveduta trascrizione, dell’intervento tenuto dal sottoscritto per l’incontro dal titolo «Eroine, giocatrici, professioniste: videogioco e inclusione» di Women in Film, Television & Media Italia (WiFT&M) in tandem a Women in Games Italia quale parte integrante del progetto «I pregiudizi e gli stereotipi di genere: analisi di una inconsapevole (auto)diffusione» di WiFT&M.

Per un meeting dal valore duplice.

Infatti, non soltanto esso fu realizzato dalle donne, tra le donne, con le donne e ovviamente non esclusivamente destinandolo alle donne al fine di parlare e di affermare sé stesse all’interno del terzo millennio e contrariamente a quanto è invece accaduto nei precedenti tre, di millenni: dal punto di vista professionale e sociale; ma nel fare questo anche unendo due media simili eppure così diversi nonché a lungo ritenuti sideralmente distanti, quasi inconciliabili, quali sono appunto la settima e la cosiddetta decima arte, rispettivamente quella cinematografica e quella del videogioco (con una subalternità della seconda rispetto la prima tuttora massmediaticamente e culturalmente evidente).

Essendo cioè essa stata una duplice, valevole e bella testimonianza in grado di denotare come punti distinti, distanti e persino apparentemente opposti, in veritatem siano arricchenti nell’output della loro giunzione: appunto, proprio attraverso la messa in comune delle proprie, peculiari, specifiche e inestirpabili differenze.

E parlando pertanto di subalternità, non si può che fare esplicito riferimento proprio a quella storica della figura femminile rispetto quella maschile e, mutatis mutandis, della percezione sulla videoludica rispetto l’affermazione della cinematografia nonché, anche, la bellezza e al contempo la ricchezza della loro feconda unione, proprio perché differenziale: cui si propone, propizio, questo scritto di quanto accaduto fino ai giorni nostri.

Il BAFTA Fellowship a Siobhan Reddy di Media Molecule

Una prima elisione di questa doppia subalternità è stata fornita proprio in occasione della premiazione dei BAFTA (acronimo di British Academy of Film and Television Arts) Fellowship, con il riconoscimento andato a Siobhan Reddy quale direttrice dello studio di sviluppo Media Molecule di PlayStation (recte: Sony Interactive Entertainment). Cioè a dire un premio delle arti filmico-cinematografiche conferito alla figura professionale di vertice di una software house che sviluppa videogiochi. Per videogame oltretutto assolutamente particolari e che, potremmo dire, essere fondamentalmente inventivi. In cui cioè non soltanto il gamer videogioca ma che attraverso il videogiocare e proprio mediante la sua propria intensa e intrinseca interazione, il videogiocatore, ne può creare “altri”, di videogame. In parole povere essendo Media Molecule l’“alter ego” di Lego quale fucina di (video)giochi che, quivi attraverso l’inter-azione del videogame, propugna (o letteralmente fa “sviluppare” alias creare) ex novo alle videogiocatrici e ai videogiocatori, dei letteralmente propri, altri livelli o addirittura dei differenti videogiochi da condividere e da videogiocare con tutta la comunità dei gamer e in armoniosa aggiunta a quanto predisposto dai developer di Media Molecule. Come peraltro testimoniano alcune delle più iconiche proprietà intellettuali della casa di sviluppo in questione, quali sono LittleBIGPlanet (PEGI +7, 2008) e Dreams (PEGI +12, 2020), in esclusiva per PlayStation.

Orbene, la direttrice Siobhan Reddy, è stata quindi insignita dalla più grande onorificenza delle arti in movimento appartenente al Commonwealth, qual è appunto il BAFTA Fellowship: essendo ella la prima donna, in assoluto, dell’industria videoludica ad averla ottenuta, nel 2021. E così addivenendo “soltanto” a undicesima professionalità di quest’espressione comunicativa qual è il videogame, a esserne decorata. Tempistiche e numeri che possono essere interpretati come il bicchiere riempito a metà: mezzo pieno o mezzo vuoto, ma che evidentemente lo scrivente intende nel suo già lato colmo ma con la volizione prospettica di riempire ulteriormente e fin l’orlo l’altra metà. Insomma: c’è tanto da fare ma quel che in relativamente poco s’è fatto nel medium videoludico (anche in intersezione con il cinema) e nella relativa pochezza (rispetto la Storia) dall’epoca di nascita delle suffragette (1869), è impressionante.

Volendo peculiarmente cogliere la selettività dell’achievement in questione di Siobhan Reddy, si pensi che l’unico italiano a essersi fregiato di un BAFTA Fellowship, fu Federico Fellini nel 1987 e di come soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Zero del XXI secolo, precisamente 36 anni dopo quest’ultima data, nel 2007, avvenne il primo tributo in capo a un game designer, il leggendario Will Wright. Di più, perché soltanto nel 2010 quest’onorificenza venne per la prima volta riconosciuta a un non occidentale, specificatamente e nientemeno che al “papà” di Super Mario, il giapponese Shigeru Miyamoto. Replica avveratasi esclusivamente dieci anni dopo, nel 2020, con il conferimento del prestigioso premio a Hideo Kojima, il game designer “più regista” mai esistito.

In altri termini e serventi per contestualizzare il quadro, quando il BAFTA Fellowship venne istituito nel 1971 con il conferimento del rinomato riconoscimento ad Alfred Hitchcock, neppure poteva propriamente ritenersi “nata” l’industria dei videogiochi: essendo convenzionalmente sorta nel 1972 con il lancio del primo successo mainstream dell’Atari, Pong. Ma da allora, pur tra gli ostracismi di una certa intellighenzia artistico-borghese, l’evoluzione del videogioco è stata repentina, carpita, capita e tributata anche nella fisiologica (ma non così scontata) intersezione tra il mondo della cinepresa e quello del joypad.

By the way, la prima donna a ottenere in assoluto un BAFTA Fellowship avvenne relativamente poco dopo la sua istituzione, nel 1973, con l’aggiudicazione a Grace Wyndham Goldie, produttrice e business woman televisiva di blasonata fama in un ambiente di pressoché unanime appannaggio maschile (per capirsi, mutando contesto ma non regione, Margaret Thatcher divenne l’«Iron Lady» delle pagine consegnate alla Storia soltanto a partire dal 1979: mezza dozzina di anni dopo. A confermare siffatta eccezionalità nel panorama, anche cinetelevisivo del Regno Unito, ci si prefiguri che per vedere la seconda donna omaggiata con siffatta onorificenza bisognerà attendere ben ventitré anni, quando a bissare il successo di Grace Wyndham Goldie, fu l’eclettica francese Jeanne Moreau).

L’Oscar a Colette in Medal of Honor

Parlando di celebrazioni tra cinematografia e videoludica, c’è un’altra riconoscenza bella per quanto impattante, ad essersi avverata pochi mesi or sono, questa volta con la premiazione degli Oscar. Perché, inedito assoluto, dall’Academy Award e nell’apposita sezione di Short Documentary, è stato premiato un documentario inserito all’interno dei contenuti bonus di un videogioco. Lo si ripeta: ha vinto un Premio Oscar oltretutto alla voce di documentario nientemeno che un corto inserito all’interno di un videogame.

Documentario e videogame: epidermiche concezioni in apparente antitesi ma in veritatem integrantisi.

Con ciò, pertanto, hanno vinto per la prima volta in assoluto, uno studio sviluppatore di videogiochi qual è Respawn Entertainment e l’annesso distributore videoludico, Electronics Arts (EA): peraltro per un titolo in realtà virtuale e disponibile in esclusiva per PC nonché fruibile unicamente con i caschetti Oculus di Facebook (quindi, se si vuole considerarlo, con anche un ulteriore, laterale riconoscimento alla virtual reality (VR) – per quanto il documentario non sia in VR – e a un social network – laddove si volesse considerarlo ancora “solo” tale, Facebook –). Altro elemento emergente e vincente di questo pensare out of the box è dato dal fatto che lo Short Documentary in questione, per essere candidabile, doveva essere pubblicato stand alone e con altri rigidi criteri di “eleggibilità” da Oscar e che, per rispettarli, il publisher di videogiochi EA ha stretto una partnership di “ultra”-distribuzione nientemeno che con il The Guardian, cioè a dire uno dei più antichi per quanto prestigiosi quotidiani tuttora esistenti.

E si badi che l’integrazione tra cinema e videoludica (e persino quindi carta stampata), in questo caso, non sarebbe un fulmine a ciel sereno: bensì un come back alla ribalta di un percorso lungo più di vent’anni. Perché l’idea di creare un franchise di videogiochi, in questo caso sulla Seconda guerra mondiale, venne a un certamente non videogiocatore ma dalla professionalità eclettica e di mente sperimentalmente aperta, qual è Steven Spielberg. Perché lui, da non avvezzo al medium videoludico, ebbe a proporlo proprio al colosso dell’intrattenimento EA: testimonianza, questa di Steven Spielberg, che palesa come a fare la differenza nella società post-contemporanea, non è né l’intelligenza né la conoscenza bensì l’eclettismo dello spirito curiosale cui ci si cimenta nella vita del quotidiano così come in quella del professionale. Proprio con quest’attitudine concluse le riprese di Salvate il soldato Ryan nel 1997 e diede il là a questo fecondo legame tra cinematografia e videogioco, con anche un quid culturale.

Anche se col senno del poi, esso, lo si potrebbe ritenere finanche ovvio, per quanto ancora oggi risulti difficilmente battuto (almeno con convinzione e con successo): perché oltre la spettacolarità cinematografica di quanto videogiocato, si “limita” nella sapiente unione della tradizione (il cinema) con l’innovazione (il videogioco). Una farcitura che oggi potrebbe intendersi anche pigra, quella di inserire contenuti bonus (storicamente accurati e documentaristi) come sbloccabili nel videogame. Ma l’uovo di Colombo è appunto tale (non è mica una rivoluzione copernicana!), lo avrebbe potuto fare l’“uomo qualunque” ma solo “uno” ebbe a “osare”. E fare. Di extra-ordinario.

Il quid di Spielberg fu fin da allora nel cogliere la pregnanza dell’interattività garantita dal media videogioco volendola suggellare non soltanto per arricchire l’esperienza ludico-intrattenente-commerciale delle sue opere, ma anche traghettando dati informazionali e concetti educazionali: ovverosia, disse Spielberg ai manager dell’epoca di EA, intendendo il videogame non soltanto come “giochino” o come ennesimo mezzo per “fatturare”, bensì per divertire e proprio per questo imprimere una lezione “erudizionale” che lasciasse “qualcosa” ai gamer che prima ignoravano. Soprattutto per un target, qual era allora, di quasi esclusivamente giovanissimi (oggi invece l’età media dei gamer è di 31 anni a livello europeo e il 44% di player, in Italia, è donna).

Ma come fare, teoricamente? Con un’integrazione certamente basilare ma parimenti seminale tra settima e cosiddetta decima arte, ovverosia dapprima conferendo verosimiglianza storica ai fatti narrati durante la campagna videogiocata e servendosi della narrazione interattivo-videoludica per innescare nel gamer la scintilla passionale verso quello che sta “vivendo” (perché l’unicità del medium è la sua interazione costante e continua) per poi approfondire quei fatti liminalmente sollazzati con il gameplay della campagna in single player. Ma come, concretamente? Sia in separata sede, sia, soprattutto e qui sta l’acume del regista in questione, fornendo del materiale extra, audiovisivo e documentarista nonché di assoluta fedeltà storica all’interno del videogioco in contenuto bonus sbloccabile al compimento delle missioni del videogioco medesimo. Per un infotainment ante litteram (che, per la cronaca, unisce pure cultura e business!). Ciò, per dirla con Spielberg, al precipuo finire di apprendere imprese storiche differentemente dalle cattedre scolastiche: per giovani ragazzi e ragazze che altrimenti si sarebbero “dimenticati” della grande Storia compiuta persino dai loro stessi progenitori durante la campagna di liberazione mondiale del Secondo conflitto globale. Si badi, infatti, che la “moda” del genere bellico, tra film, serie TV e videogame, “esplose” soltanto dopo e in particolare proprio grazie Salvate il soldato Ryan (+16, 1998).

Per un modo di apprendimento diverso e non sostituente, bensì integrante e arricchente rispetto il tradizionale: quello frontale, formale, scolastico e istituzionale. Non per un nuovo modus soppiantante una presunta vetustà dell’altro, ma co-esistenziale: l’uno e l’altro. Per un apprendimento che da nozionistico possa divenire passionale e che ha trovato la sua inventiva in un genio digiuno di videogiochi ma curioso e pertanto attento alle potenzialità del digitale (ampiamente intese): componendo una realtà ibrida inframmezzata da «e» rispetto la rigidità analogica dell’«o» (infatti, è sempre meglio poter fare e ottenere questo «e» quello anziché questo «o» quello).

E qui veniamo apertamente a parlare dell’“impresa” da Oscar. Soffermandosi su Colette, perché questo è il nome del Short Documentary premiato dall’Academy 2021 e inserito proprio come contenuto extra all’interno di quel videogioco teorizzato fin dall’epoca da Steven Spielberg e dante il via alla serie videoludica di Medal of Honor (1999-). Perché si vuole ulteriormente indulgere per ulteriori inferenze. In quanto qui v’è stata l’ulteriore, florida, giunzione tra distinti e apparenti opposti com’è quella tra l’ormai quarta generazione degli ultranovantenni già viventi in prima persona le brutture del più devastante conflitto mondiale di ogni epoca, come fu appunto l’omonima e la “reale” Colette, partigiana francese che specificatamente prese parte alla resistenza di occupazione nazionalsocialista e che ebbe, proprio per questo, amaramente a vedere catturare il fratello in un campo di prigionia tedesco in Germania e ivi essendo infine brutalmente terminato; con l’incontro di un’esponente delle nuove generazioni, un’appena diciassettenne (la stessa età in cui trovò la morte violenta il partigiano fratello di Colette) appassionata di storia e volontaria nel museo di cimeli cittadino, per un viaggio (anche transgenerazionale), assieme, catartico e commovente. Perché composto di storie facenti la Storia, passata e futura.

Una figura, inoltre, quella della partigiana, che per Gad Lerner, autore di Noi, Partigiani: Memoriale della Resistenza italiana, almeno nel Bel paese, non è mai stata meritoriamente celebrata: apparendo fin dalle fotografie dell’epoca, per la celebrazione della Liberazione, nelle ultime file dei resistenti.

E in questo breve ma intenso peregrinare di Colette (che si invita assolutamente nel visionare): personale, emotivo, emozionante, storico e interamente femminile verso, e poi all’interno della  Germania, che si vedono uniti ancora e ulteriori elementi di ricchezza. Perché il genere di videogioco cui è inserita quest’esperienza è un first person shooter (FPS), tipologia imperante negli ultimi due decenni e contante tra i più famosi e di successo brand del settore (tra i quali: Call of Duty – letteralmente e per dirla con le parole dell’editore: «Best-Selling Video Game Franchise» (in verità, in assoluto, è al terzo posto: dietro Super Mario e Tetris) – e Overwatch, ambedue di Activision Blizzard; Battlefield, sempre di EA e Counter-Strike di Valve Corporation quale già “madre” di Half-Life), ovverosia i colloquialmente detti “spara-spara” (il cui capostipite fu Wolfenstein 3D nel 1992 ma con l’exploit mainstream dato da Doom l’anno successivo; ambo “creature” di id Software), tutti titoli vieppiù ritenuti videogiocati da giovani maschi cisessuali e per un genere tradizionalmente dall’alta responsività di riflessi ma dalla bassa riflessione intellettuale. Divenendo, quindi, un’atipica summa la cui ricetta, quella di Spielberg, sarebbe felicemente impazzita per una (con)vincente riuscita.

Certamente ben più della singola, rispettiva valutazione delle unitarie parti che compongono questo complesso. Anche proprio nel caso specifico di Medal of Honor: Above and Beyond, questo è infatti il nome del videogioco che contiene precipuamente al suo interno l’opera documentarista di Colette, che è e rimane un videogame ai limiti della sufficienza: con una media Metacritic di 6,3 e 6,7 su 10, rispettivamente, per il pubblico giocante e per la critica specializzata internazionale.

Ma il suo successo risulta essere, forse, proprio qui: nell’aver osato (all’epoca) della creazione del brand di Medal of Honor e nell’aver perdurato (fino a oggi) nel proporsi come soluzione di ponte unente le diversità arricchenti (persino in realtà virtuale): cinematografia e videogame; FPS-“frenetico-non-pensante” e informazione storico-culturale, finanche emotiva, transgenerazionale e di genere. Per un’eterogenesi dei fini che magari ha rappresentato una brutta fine (per quell’episodio del videogioco in particolare), ma non «la» fine (che infatti gli è valso un Oscar).

Tre ultime chicche e un po’ di poesia: non sorprende sapere che Steven Spielberg è stato il regista di Ready Player One (+16, 2018), film unente virtuale e reale ambientato nel Metaverso quale ritenuta «next big thing» del prossimo futuro; la seconda ciliegina sulla torta, è il granello di italianità insito nell’opera Colette, perché il regista Anthony Giacchino e la produttrice Alice Doyard, hanno parimenti origini italiane (produttrice che tra l’altro durante il ritiro dell’ambita statuetta, ha ringraziato e ha dedicato il premio a tutte le donne «combattenti» di ogni epoca sparse nel mondo); la seconda chicca è che il day one di Medal of Honor: Above and Beyond avvenne l’11 dicembre 2020, uscita scelta non affatto a caso, essendo quello il dì del 75° anniversario del XVII giorno nel Processo di Norimberga e specificatamente di quando vennero ostesi in proiezione per la prima volta in assoluto, i filmati del Terzo Reich, tra cui quello “indimenticabile” del «Nazi Plan» (processo, quello di Norimberga, che rappresentò nel suo complesso complessivo, oltre che a una punizione “ordinata” ai crimini nazisti, la “(ri)nascita” dello Stato di Diritto nonché dei fondamenti del Diritto penale, anche Internazionale: per principi e cardini tuttora vigenti nei più illuminati Paesi del mondo).

E, ora, la “poesia”: Colette, l’“ormai” conosciuta protagonista dell’omonimo documentario, festeggiò i suoi 92 anni proprio nel giorno di ricezione dell’Oscar (che non ha potuto personalmente ritirare in loco a causa della pandemia) e la stessa partigiana nacque soltanto 22 giorni antecedenti l’istituzione della primissima edizione dell’Academy Award, nel 1929. What a time to be alive!

Tra stereotipi e (auto)ghettizzazione: il videogame ha mai avuto il “suo” Schindler’s List?

E qui, allora, anche stimolato dal quesito intellettuale della Presidente di Women in Film, Television & Media Italia, Domizia De Rosa, sugli stereotipi vertenti sul videogioco e i videogiocatori nonché le videogiocatrici («anche la comunità delle e dei gamer è stata stereotipizzata fin dalla sua nascita: che cosa è cambiato e che cosa sta cambiando?»), vorrei ulteriormente soffermarmi sull’evoluzione dell’industria e la (eventuale) maturazione della sua utenza.

In particolare, negli ultimi dieci anni, questa maturazione intranea al settore, si è evoluta enormemente e sotto molteplici aspetti.

Il crunch (lavoro indefesso, retribuito e non, lungo anche anni e senza né sabati né domeniche al fine di completare il videogame entro le deadline “inumane” fissate da manager “sordi” agli advise dei developer e per non deludere le aspettative dei fan), è passato dall’essere fisiologico e anzi «figo» (tanto da essere celebrato finanche da realtà monstre come Rockstar Games dei primi Grand Theft Auto) a vere e proprie inchieste giornalistico-monumentali cambianti la percezione di siffatta cultura; da molestie di pubblico ludibrio stile Gamergate (che personalmente si ritengono: il prodromo, in eterogenesi dei fini, del #MeToo; «quando l’uomosfera è risultata il cuore e non più una parte marginale dell’alt-right» e di una manifestazione della “meme era”), all’inchiesta, clamorosa, dell’“Agenzia per l’occupazione” californiana contro Activision Blizzard. Tutti “scandali” in atto o ancora irrisolti ma che, con la loro luce proiettata in focus, hanno fatto emergere quel che prima era taciuto perché ritenuto “normale” o perlomeno prassi di un intero settore creativo. Consuetudine appunto imperante, un tempo anche nel cinema, persino dell’alta Hollywood, come testimoniato dall’affaire Harvey Weinstein (condannato definitivamente, nel 2020, con sentenza della Corte Suprema di New York a 23 anni di reclusione per violenza sessuale e stupro) o più velatamente ma non meno rilevante, con la rappresentazione che delle minoranze, della femminilità e della donna si faceva (e in parte tuttora si fa), di quasi assoluta macchietta; oggettificazione e sessualizzazione.

Ma, grazie lo sforzo di consapevolezza che pure mediante questi incontri e discussioni finanche scaldanti gli animi persino al calor bianco, vi sarebbe un bagliore all’orizzonte che parrebbe essere quello della luce segnante l’uscita dal tunnel piuttosto che di un treno che si sta per schiantarcisi addosso a tutta velocità. Perché per esempio, se Remember Me (PEGI +16, il videogioco del 2013 e non il film del 2010; due titoli che non hanno comunque nulla in comune) aveva difficoltà anche soltanto a trovare un publisher perché dotato di una protagonista femminile che la vulgata ma anche le ricerche di marketing volevano non rendere redditizi e di successo quei videogiochi con protagoniste donne (come prima lo fu con le attrici), poi sarebbestato “smentito” quello stesso anno con l’uscita e il successo di critica e di pubblico del reboot di Tomb Raider, in cui la protagonista indiscussa, Lara Croft, assunse per la prima volta una figura, una raffigurazione e un’identità più umana e meno stereotipata rispetto il “manichino” delle prime iterazioni.

Per un vero e proprio trend ribadito con il successo di Life Is Strange (PEGI +16, 2015 – seconda opera dei creatori di Remember Me, i talentuosi Dontnod Entertainment –) e la di sua ragazzina protagonista, Maxine Caufield, “esplodendo” successivamente con il clamoroso successo di Horizon Zero Dawn (PEGI +16, 2017), kolossal di Sony PlayStation con protagonista l’ormai iconica Aloy. Per un titolo originariamente accolto positivamente dalla critica e dal pubblico che ne faceva apprezzare un personaggio femminile sfaccettato, a tutto tondo e non necessariamente rispondente ai canoni di “classica” bellezza e iconografia che se ne possa aver fatto fino ad allora nella femminilità mainstream (fattispecie ulteriormente evidente nel sequel, Horizon Forbidden West (PEGI +16, 2022): dove però in quel caso la risposta del pubblico è stata di cloaca).

Ed è qui, da questo chiaroscuro ove non si colgono, a proposito di stereotipi, sempre e nitidamente i “buoni” dai “cattivi” (e viceversa), che è d’imperio porsi quesiti più che sulla maturazione del medium videoludico, anche rispetto al cinema (che già è ampiamente avvenuta e sta tuttora, anche travagliatamente, avvenendo), soprattutto interrogandoci sulla maturazione (o meno) del suo “uditorio”. Di noi videogiocatori.

Perché se all’alba degli anni Venti del XXI secolo si è approdati all’“Eldorado” grafico-tecnico-contenutistico-culturale di The Last of Us Parte II (PEGI +18, 2020), «un videogioco che potrebbe esistere solo come tale», opera seconda di una serie antologica per l’intero medium e disvelante, al contempo, alcune delle sue più grandi e caratteristiche potenzialità di veicolazione significativo-valoriale e con ben due co-protagoniste femminili nonché dell’apparenza, dalle sembianze e dall’essenza del tutto peculiari, così straordinariamente “(a)normali”, nella loro irriducibile complessità; unicità; uguaglianza; differenza; empietà; purezza; intrinseca doppiezza, bruttezza e splendidamente umana bontà e contemporanea inopinabilmente brutale cattiveria. Permettendosi addirittura connotazioni estetiche al di là dello status quo e un’intimità (religiosa; sociale; sentimentale e sessuale) così differentemente per quanto quotidianamente vissuta, da essere super-reale e avente un bilanciamento quasi irripetibile tra qualità produttiva e messaggio intellettuale veicolato, trovando peraltro un pazzesco riscontro commerciale e feedback di critica, come mai prima in cinquant’anni di videoludica.

Ma ivi, vi è anche stata una reazione reazionaria da parte degli stessi videogiocatori, tra le più indimenticabili mai palesatesi (anche sommando quelle di altri media): certamente provenuta da una parte minoritaria, ma pur sempre numericamente cospicua e soprattutto rumorosa, ingenerante una valanga di bile nei confronti dei creatori del videogame, sino a minacciarne la morte. Ciò per il solo fatto di essersi spinti “oltre” (ovverosia nella politica), rispetto quello che il videogioco deve e potrebbe fare. Perché così è (“sempre”) stato e, forse, allora, a dir loro (e non soltanto dall’intellighenzia con la puzza sotto il naso, evocata all’inizio del presente articolo), il videogioco deve essere per sempre (re)legato. Fattispecie che davvero ingenera il dubbio per cui il limite, allora, non sarebbe affatto esogeno bensì endogeno. Dal di dentro della nostra essenza, di comunità, quali gamer.

Un limite che imprimo non già come mera provocazione, che sarebbe ben lungi dall’essere “soltanto” anagrafico (della relativa più giovane età dei fruitori del videogame rispetto, per dire, al cinema), ma, soprattutto, intellettuale e culturale.

Ed è per questo allora che iniziative simili, dibattiti “spuri” e pensieri alt(r)i pubblicamente condivisi possono essere d’aiuto: perché se non abbiamo avuto un Schindler’s List (+16; 1993); un Sotto accusa (+18, 1988); un Joker (+17, 2019); una Una donna promettente (+13, 2020); un Il Padrino (+14, 2972); un Le ali della libertà (+12, 1994) o un Taxi driver (+14, 1976) non è forse tanto colpa del mezzo e talora neppure persino degli autori, ma di noi stessi (dirà Shawn Layden, uno dei più grandi manager dell’industry: «la musica in base alle entrate è ⅕ del fatturato dei videogame. Ma il suo impatto culturale è 100 volte più grande quello derivante dai videogiochi»). Noi quale prima persona plurale, Noi rendenti vita e anima a un pubblico che pur potendo (inter-)agire per un “bene” più alto, ha invece “reazionato” vomitando parole (e non essendo stati in grado di fornire un’alternativa a quella, a questa cloaca).

Perché anche “noi” abbiamo le nostre pietre preziose, ex plurimis: Shadow of the Colossus (PEGI 12, 2005); Metal Gear Solid (PEGI +16/+18, 1998-); Mafia: The City of Lost Heaven (PEGI +18, 2002); BioShock (PEGI +18, 2007; 2013); ICO (PEGI +7, 2001); Portal (PEGI +12, 2007; 2011); Outer Wilds (PEGI +7, 2019); Death Stranding (PEGI +18, 2019); The Last of Us Parte II (PEGI+18, 2020); Grand Theft Auto V (PEGI +18, 2013) e Red Dead Redemption II (PEGI + 18, 2018). Che poi non le si usi come pietre miliari ma “lapidatorie”, allora, è un altro discorso.

Conclusioni: I Am A Gamer

Come proferisce uno dei più grandi game designer mai esistiti, Hideo Kojima: «non lasciatevi dire che cosa debbano essere i videogiochi».

E, soprattutto, non si lasci neppure che a dirlo e a definirlo, siano sedicenti autoeletti hardcore gamer taccianti con patenti di “purezza” chi sia e chi non possa essere gamer: perché, se non si fosse ancora capito, la vita è data ed è esaltata dalle più inimmaginate e finanche insperate contaminazioni, garantenti (tecno-)diversità. Compresa e non soltanto limitata a quella femminile: Because I Am A Gamer e… «We All Win».

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