La corsa all’approvvigionamento di vaccini anti-Covid e presìdi sanitari ha imposto all’attenzione dei governi europei il tema più generale della non-autosufficienza dei paesi nell’accesso a beni e servizi fondamentali per garantire la salute pubblica e la sicurezza. A distanza di un anno da un primo documento, nella primavera 2021 la Commissione ha indirizzato agli organi di governo della Unione Europea (Parlamento, Consiglio, Comitato economico e sociale, Comitato delle Regioni) un documento aggiornato e assai articolato dal titolo alquanto impegnativo “Strategic dependencies and capacities. Updating the 2020 New Industrial Strategy: Building a stronger Single Market for Europe’s recovery”.
Che si intende per autonomia strategica?
Il termine “strategico”, mutuato spesso impropriamente dal linguaggio aziendalistico del marketing di prodotti e servizi, è ricorrente nei documenti programmatici dei governi. Nel linguaggio della Commissione si parla di “open strategic autonomy”, definita come esigenza di limitare l’eccessiva dipendenza dalle importazioni extra-europee sia di inputs (materiali, semilavorati, componenti) che di tecnologie e servizi fondamentali per i grandi obiettivi della trasformazione “green and digital” delle economie europee: trasformazione funzionale a garantire lo sviluppo degli ecosistemi industriali da cui dipende la salvaguardia dei grandi beni pubblici come disponibilità energetica, salute e sicurezza.
Il documento della Commissione si riferisce a grandi ecosistemi (come salute, energie rinnovabili, aerospazio, difesa) ma sceglie anche un approccio “bottom up” che prende in esame i dati degli scambi internazionali di 5000 prodotti e gruppi di prodotti al massimo livello di disaggregazione statistica (8-10 digits del sistema standardizzato (HS) per arrivare a identificare circa 390 gruppi caratterizzati dalla massima dipendenza di fornitura dall’estero, senza perdere di vista anche le esportazioni europee degli stessi prodotti. Conta anche la concentrazione geografica dell’offerta: all’interno dei 390 gruppi sono evidenziati 137 gruppi che risultano fortemente dipendenti dalla fornitura proveniente da Cina, Vietnam e Brasile: ad esempio la Cina pesa per il 52% del valore delle importazioni europee dei 137 gruppi, e del 54% degli stessi è anche il primo fornitore mondiale. Solo il 27% dei 137 gruppi è costituito da beni finali, mentre il 57% sono beni intermedi e il 16% materie prime come litio, cobalto, nickel, manganese. A parte le materie prime che costituiscono un dato vincolato dalle risorse naturali, tutta questa meticolosa mappatura non è certo finalizzata a eventuali proposte di dazi all’importazione in un’ottica alla Trump, bensì vuole sollecitare i governi europei a tenerne conto nel disegno delle rispettive politiche industriali che mirano a potenziare e diversificare i vantaggi competitivi dei paesi, limitando la potenziale vulnerabilità alle conseguenze della globalizzazione.
Circa la metà del valore delle esportazioni extraeuropee di questi prodotti sensibili è concentrata su 2-3 paesi, accentuando il rischio di severi colli di bottiglia nelle catene del valore che assicurano il buon funzionamento del Mercato Unico europeo.
Ma non va ignorato anche il rischio di una eccessiva concentrazione dell’offerta da parte di imprese europee all’interno del mercato unico. Disastri naturali e altri eventi difficilmente prevedibili che colpiscono la produzione concentrata in poche imprese possono mettere a repentaglio quelle stesse catene del valore. La Commissione riconosce che non disponiamo ancora di una base dati granulare sulla localizzazione delle unità produttive all’interno del mercato unico, per ottenere la quale occorre maggiore collaborazione statistica fra i singoli paesi membri. Vale comunque il richiamo ad un attento uso della politica della concorrenza (autorità antitrust nazionali) per prevenire il rischio di eccessive dipendenze del mercato unico dall’offerta di poche imprese sia interne che esterne allo stesso mercato.
Posizionamento dell’Europa nei confronti di Usa e Cina
Superando la logica degli incentivi puramente “orizzontali” distribuiti a pioggia, la Commissione richiama la necessità di una politica industriale che favorisca la continua trasformazione dell’offerta nella direzione delle tecnologie avanzate che devono sostenere la domanda di sviluppo futuro della società e del business. Tali “key advanced technologies for industry projects” includono nuovi materiali avanzati, processi manifatturieri avanzati (come la stampa 3D), intelligenza artificiale (IA), big data, cloud, biotecnologie industriali, internet delle cose, microelettronica, nanotecnologie, fotonica, robotica, cybersicurezza. Molte di queste tecnologie sono a cavallo fra usi civili, militari e spaziali. In alcuni campi (come nanotecnologie, internet delle cose e biotecnologie industriali) l’Europa gode già di vantaggi competitivi rispetto agli USA, a differenza di altri (come IA, cloud, microelettronica, cybersicurezza) in cui invece è in ritardo. Resta il fatto che complessivamente la spesa europea in R&S delle imprese (BERD), pari nel 2019 a 200 miliardi di euro (circa 1,5% del Pil), benché cresciuta del 50% nell’ultimo decennio, è stata raggiunta dalla Cina e resta quasi la metà di quella degli USA. Gli USA investono assai di più nei settori manifatturieri avanzati e favoriscono di più la crescita delle PMI: per ogni “unicorno” (startup private cresciute oltre 1 miliardo di fatturato in dollari) in Europa nel 2018 se ne contavano 8 negli USA e 4 in Cina.
Politiche per governare la dipendenza strategica
- Un primo obiettivo è la diversificazione delle fonti da cui dipendono le importazioni dalle aree extra-europee degli importanti anelli delle catene del valore europee. Ciò comporta la ricerca di nuovi rapporti di partnership tecnologica e commerciale, anche allo scopo di predisporre linee di stoccaggio di materiali e componenti sensibili, con particolare riguardo alle emergenze sanitarie e all’approvvigionamento di medicinali e presìdi medico-chirurgici.
- Un secondo obiettivo è l’organizzazione dei cosiddetti IPCEI (Important Projects of Common European Interest), che intendono mobilitare risorse di ricerca pre-competitiva e collaborazione manifatturiera tra imprese europee di ogni dimensione orientate al progresso tecnologico e al rafforzamento competitivo sul mercato europeo e mondiale. Nel gennaio 2021 è stato autorizzato un secondo IPCEI nell’area delle batterie, che si affianca ad un più vasto progetto sui semiconduttori. Una volta ancora viene sottolineata l’importanza di una politica europea della concorrenza che guardi oltre la lotta ai monopoli in difesa dei consumatori, per promuovere l’innovazione e la competitività tecnologica nel più vasto tessuto produttivo continentale (living entrepreneurial ecosystems in Europe). Come noto, il tema è delicato perché richiede molte qualificazioni per evitare distorsioni imposte da potere contrattuale degli interessi industriali costituiti.
Conclusioni
Una intelligente politica degli appalti pubblici è necessario complemento a tale strategia di “autonomia strategica”, rafforzando le regole di trasparenza ed efficienza.
La politica industriale chiama necessariamente in causa gli investimenti in educazione scolastica e istruzione professionale mirata alla formazione delle capacità (skills) senza cui molti progetti innovativi si insabbiano per mancanza non tanto di capitale finanziario quanto di capitale umano.