da panama a pandora papers

Tassa sulle multinazionali: gli effetti dell’accordo Ocse sui paradisi fiscali

All’accordo per la tassazione delle multinazionali aderiscono 136 nazioni e giurisdizioni che rappresentano oltre il 90% del prodotto mondiale. L’accordo prevede una tassazione delle imprese minima del 15%. Tra gli impatti positivi anche la possibilità di ricondurre a maggior trasparenza e correttezza i paradisi fiscali

Pubblicato il 15 Ott 2021

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

Photo by Markus Winkler on Unsplash

L’8 ottobre 2021, dopo quasi un decennio di trattative, l’OECD ha annunciato il raggiungimento dell’accordo che andrà in vigore dal 2023 sulla nuova tassazione delle imprese multinazionali.

Tra gli impatti positivi di questo accordo che potrebbero emergere nell’arco dei prossimi anni c’è anche la possibilità di ricondurre a maggior trasparenza e correttezza quei paradisi fiscali che forniscono non solo patria fiscale ai profitti conseguiti altrove, ma anche segretezza alla gestione dei fondi, come evidenziato dai Pandora Papers.

Digital tax internazionale, accordo storico o compromesso al ribasso? I nodi da sciogliere

In sede OECD erano state definite le procedure per realizzare lo scambio automatico delle informazioni fin dal 2014, con almeno 100 nazioni e giurisdizioni che dovevano implementarle entro due anni. Quasi tutti i paradisi fiscali dell’epoca avevano aderito, compresi: Bermuda, Cayman, Hong Kong, Jersey, Singapore e Svizzera. Ma Panama non aveva aderito, e dai controlli dell’OECD erano emerse falle riguardanti altri paesi: Guatemala, Kazakhstan, Libano, Liberia, Micronesia, Nauru, Trinidad & Tobago e Vanuatu.

Gli studi condotti dall’OECD per la preparazione delle nuove norme hanno contribuito a produrre una documentazione di importanza crescente sui paradisi fiscali e hanno stimolato le attività di investigazione giornalistica, come dimostra la figura, in cui The Guardian ha rappresentato visivamente la dimensione delle informazioni che sono “percolate” negli ultimi anni sui paradisi fiscali[1]:

Tra gli studi commissionati dall’OECD per predisporre l’accordo, quello dell’International Center for Tax and Development (ICTD), ha quantificato per l’anno 2016 un ammontare di profitti di 1000 miliardi di dollari che sono stati spostati dai paesi dove si svolgono le attività economiche a quelli che offrono “dumping” fiscale[2]. Già nel 2017 i Paradise Papers avevano svelato che la sola Apple aveva accumulato 252 miliardi di dollari liquidi offshore. Non ci sono soltanto i paradisi fiscali dei Caraibi: tra i maggiori beneficiari dei profitti delle multinazionali tre sono europei: Lussemburgo, Olanda e Svizzera, che si affiancano alle più note e meno blasonate Cayman, Singapore, Bermuda e Portorico.

Con i Pandora Papers il circolo si è chiuso con la messa a nudo dell’opaca gestione dei fondi dei potenti e dei personaggi che contano sulla scena internazionale, con gravi risvolti finanziari e fiscali[3].

Tassazione delle multinazionali: una definizione semplice per un problema complicato

All’accordo per la tassazione delle multinazionali aderiscono 136 nazioni e giurisdizioni che rappresentano oltre il 90% del prodotto mondiale. L’accordo prevede una tassazione delle imprese minima del 15%, riuscendo a convincere i paesi, come l’Irlanda, che hanno fatto “dumping” con le loro aliquote basse, portando un flusso di investimenti enorme nel paese. Questo solo fatto riduce gli incentivi alla dislocazione dei profitti per tassarli di meno attraverso la loro “distribuzione” tra diversi paesi da parte delle grandi multinazionali. Non sfugge quindi la rilevanza dell’accordo per lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali e per la distribuzione meno squilibrata del carico fiscale. L’obiettivo dichiarato dall’OECD è sempre stato quello di ricondurre la tassazione ai paesi dove essi vengono realizzati, e questa definizione semplice nasconde un problema complicato. Infatti, e il caso del digitale è immediatamente evidente, una grande azienda produce profitti non solo per la sua dislocazione territoriale, ma anche per come tale distribuzione interagisce con la catena del valore.

Se la ricerca e l’innovazione di una multinazionale americana avviene prevalentemente negli Stati Uniti, i prodotti e servizi venduti su licenza negli altri paesi vengono trasferiti all’interno della multinazionale con prezzi di trasferimento che riflettono la struttura dei costi e il processo di creazione del valore. Ma questi prezzi di trasferimento possono essere facilmente manipolati, per ricondurre una maggiore quota di profitti nel paese che ha un livello di tassazione inferiore. Così, se Google trasferisce la titolarità di determinati diritti di proprietà intellettuale nella filiale irlandese e poi questa li cede alle filiali della Germania o dell’Italia dove la tassazione sui profitti è maggiore che in Irlanda, la casa madre avrà convenienza a lievitare il valore dei diritti di proprietà per far confluire più profitti in Irlanda.

C’è anche questo nel lungo lavoro condotto dall’OECD in questi anni, ma è evidente che le difficoltà di raggiungere risultati stabili e significativi su questo fronte configge con l’enorme complessità dei transfer prices. Aver raggiunto un accordo di massima su un livello minimo di tassazione delle imprese contribuisce non a risolvere questo problema, ma a renderlo meno acuto.

I due pilastri dell’accordo OECD

L’accordo si basa su due pilastri.

Nel primo è indicata la strada per far sì che le grandi imprese multinazionali (con almeno 750 milioni di euro di fatturato) ricalcolino i profitti in modo da riflettere in modo più fedele l’effettiva provenienza degli stessi, ossia il fatto che essi sono realizzati in un paese piuttosto che in altro e attribuisce ai paesi il potere di tassare i profitti secondo questa nuova definizione della loro distribuzione per nazione. Vengono coinvolte le imprese con oltre 20 miliardi di euro di fatturato e un tasso di profitti superiore al 10%. Queste imprese dovranno pagare una parte della tassazione sui profitti nelle giurisdizioni dove registrano le vendite: potrà essere tassata in questo modo una quota compresa tra il 20 e il 30% dei profitti superiori al 10%.

Finiranno in questa parte dell’accordo e nelle sua modalità di applicazione molte aziende americane, soprattutto del digitale. Ma recentemente la segretaria al tesoro americano, Janet Yellen ha dichiarato che considera questa parte dell’accordo sostanzialmente neutrale rispetto al gettito delle imprese americane verso il tesoro. Vi sarà probabilmente un aumento della pressione fiscale a livello globale. Questa è la parte dell’accordo tecnicamente più complessa poiché dovrà indicare come calcolare i profitti sulle attività di marketing e distribuzione, il cuore delle attività commerciali digitali.

Nel secondo Pilastro si introduce la tassa minima del 15% in questo modo: se in un paese la tassazione è inferiore al 15%, è possibile, per il governo dove ha sede la multinazionale, aggiungere una tassa ad hoc, che porti il prelievo ad una aliquota del 15%, eliminando l’incentivo fiscale creato con l’aliquota di favore ed eliminando quindi la convenienza a dislocare le attività e i profitti nella giurisdizione che pratica il “dumping” fiscale.

L’attuazione e i possibili effetti dell’accordo

L’accordo prevede che entro il 2022 i paesi sottoscrittori adottino la legislazione in modo da renderla efficace nel 2023, con tempi molto stringati rispetto a lavori parlamentari delle diverse nazioni ancora alle prese con la pandemia o con la gestione complessa dell’uscita dalla legislazione di emergenza. Nei casi dei precedenti accordi sulla tassazione erano stati necessari decenni di trattative parlamentari per giungere alla definizione delle norme attuative.

Quando sarà attuato l’accordo, secondo le previsioni dell’OECD, esso genererà un gettito addizionale di 130 miliardi di euro all’anno. A questo effetto si aggiungerà un trasferimento pari a 108 miliardi di euro dai paesi a bassa tassazione dove oggi essi vengono registrati e tassati con aliquote di favore.

Due scuole di pensiero si confrontano nella valutazione degli effetti macroeconomici della riforma della tassazione delle multinazionali.

Secondo gli economisti di ispirazione keynesiana e socialdemocratica, l’impatto della riforma porterà vantaggi ai paesi che avevano assistito ad una fuga degli investimenti, creando nuove opportunità di investimento e di lavoro. Ma nel disegno della riforma vi sono previsioni di attenuazione dell’impatto negativo che ciò potrebbe comportare a paesi, come l’Irlanda, che potrebbero assistere ad una fuga di investitori o addirittura alla chiusura delle sedi delle multinazionali che avevano scelto quel paese proprio per i vantaggi fiscali offerti. Questi meccanismi sono destinati ad attenuare anche i benefici per gli altri paesi, e quindi l’impulso che le loro economie potrebbero trarre dalla riforma.

Altri economisti, oggi in minoranza, temono che l’aumento del livello di imposizione fiscale sulle società deprima comunque gli investimenti e anche la capacità innovativa delle aziende, con l’effetto di rallentare la crescita globale. Temono anche, non senza ragione, che l’applicazione delle nuove norme da parte dei singoli paesi porti ad una giungla di regole che non contribuirà alla semplificazione del quadro fiscale che le multinazionali si trovano da affrontare, ma anzi contribuirà ad accrescere il contenzioso fiscale e aumenterà le distorsioni nel mercato internazionale, invece di ridurle. Infine essi temono che in molti paesi, soprattutto quelli con livelli di tassazione delle imprese più elevati, la disponibilità di nuovo gettito finisca per alimentare spesa pubblica improduttiva senza accrescere, anzi deprimendo, la propensione ad investire delle imprese, di quelle multinazionali in particolare.

Eliminazione della Digital Tax e controllo sui paradisi finanziari e fiscali

Abbiamo visto quali sono gli impatti attesi dell’accordo, sia sul piano del gettito addizionale sia sul piano della redistribuzione della base imponibile.

Abbiamo anche visto che alcuni economisti temono un effetto depressivo sugli investimenti globali, determinato dall’aumento della pressione fiscale sulle imprese, con effetti negativi sulla capacità di innovare.

Vi è però un effetto positivo certo, derivante dall’accordo, dopo anni di sconclusionati dibattiti sull’abolizione delle digital tax e di dannose iniziative unilaterali.

Sia l’amministrazione Biden sia l’Unione europea hanno accolto con calore l’annuncio dell’accordo. Gli Stati Uniti probabilmente sono soddisfatti proprio in ragione della clausola che prevede l’eliminazione delle tasse digitali che alcuni paesi, tra cui il nostro, avevano introdotto in modo unilaterale e contraddicendo ai principi fondamentali che impediscono la doppia tassazione o la tassazione diversificata di un settore rispetto ad un altro.

L’Europa, per una ragione più sottile, canta vittoria: la Commissione aveva ceduto malvolentieri alla demagogia degli Stati membri a proposito delle tasse digitali, impegnandosi in qualche modo ad introdurla qualora non si giungesse all’accordo in sede OECD, che per fortuna è giunto, sgombrando il campo dalle perniciose ed inefficaci digital tax domestiche.

Questo risultato non è di poco conto. Forse anche per questo motivo non si sono sentite voci fortemente negative dalle Big Tech, che pure avranno non poche tasse in più da pagare a livello globale.

L’altro, che potrebbe venire nei prossimi anni, riguarda l’applicazione degli accordi esistenti sulla trasparenza e lo scambio delle informazioni, per evitare che quanto rivelato dai Pandora Papers possa continuare a rappresentare una via di fuga non solo dalle tasse, ma anche dalla trasparenza richiesta ai personaggi della vita pubblica e delle istituzioni.

Note

  1. ) https://www.theguardian.com/news/2021/oct/04/almost-a-million-bibles-of-data-the-pandora-papers-in-numbers
  2. ) Scilla Alecci, Multinationals shifted $ 1 trillion offshore, sripping countries of billions in tax revenues, study says, International consortium of investigative Journalists, April 1, 2021.
  3. ) The Guardian, https://www.theguardian.com/news/series/pandora-papers.

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