La sentenza Interflora

Keyword advertising e abuso di marchio: le responsabilità di concorrenti e prestatore di servizio

Il Tribunale di Bari si è pronunciato sull’abuso di keyword di marchio altrui da parte di una società concorrente e del suo impiego all’interno di Google Ads per usufruire indebitamente della risonanza commerciale del “brand”: rilavata una condotta di concorrenza sleale confusoria per violazione dei diritti del marchio

Pubblicato il 02 Nov 2021

Lorenzo Baudino Bessone

praticante avvocato, Studio Previti

Rossella Bucca

avvocato, Studio Previti associazione professionale

Lorenzo Pinci

praticante avvocato Studio Previti

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La società Interflora Italia S.p.a. (in seguito, “Interflora”), titolare per il territorio italiano dell’omonimo marchio registrato, ha fatto ricorso in via cautelare innanzi al Tribunale di Bari al fine di inibire la condotta di concorrenza sleale perpetrata ai suoi danni dalla società concorrente International Flora S.r.l.s. (in seguito, “International Flora”).

La condotta additata consisteva, in particolare, nell’uso da parte di quest’ultima società del marchio registrato “Interflora” come keyword nel servizio di posizionamento Google Ads, con l’effetto per cui, ricercando il marchio “Interflora” su Google, il portale della società International Flora appariva come risultato immediatamente successivo a quello della società ricorrente. La confusione creata era, pertanto, palese dal momento che Interflora, oltre a fornire i medesimi servizi della società resistente, lamentava di aver da tempo iniziato a ricevere segnalazioni e reclami da parte di asseriti clienti, i quali si dolevano di ritardi e/o mancate consegne ovvero di errori circa i prodotti acquistati, con riferimento ad ordini che, tuttavia, erano riconducibili alla piattaforma di International Flora non della ricorrente.

Proprietà industriale, come cambia la registrazione dei marchi: cosa c’è da sapere

Il quadro normativo in materia di marchi e commercio elettronico

Come noto, l’art. 20 del Codice della proprietà industriale (in seguito c.p.i.) conferisce al titolare di un marchio registrato il diritto di vietare a terzi l’utilizzo di un segno identico al proprio marchio per prodotti o servizi identici ovvero di un segno identico o simile per prodotti o servizi identici o affini nel caso in cui vi sia un rischio di confusione per il pubblico.[1]

Il logo utilizzato quale segno distintivo dell’attività di un’impresa è considerato valido marchio di fatto, qualora sia riscontrato:

  • il suo carattere distintivo e individualizzante, idoneo ad indicare l’origine imprenditoriale dei beni o servizi offerti dalla titolare;
  • l’uso effettivo e continuo;
  • la notorietà non puramente locale, dalla quale si possa desumere la conoscenza effettiva del segno da parte della clientela interessata.

La sussistenza di tutti i requisiti costitutivi del diritto sul marchio fa scattare, dunque, tutte le tutele ed i rimedi preposti alla difesa del marchio registrato, in virtù delle disposizioni di cui all’art. 2571 c.c. e all’art. 2, comma 4, c.p.i. che garantiscono protezione qualitativamente identica al marchio registrato e al marchio di fatto.

Ove l’impiego del segno crei la possibilità di un collegamento dell’impresa terza con il marchio registrato, l’uso non è consentito, tornando a prevalere il regime di esclusiva accordato dalla legge al titolare del marchio.

L’orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Al quadro normativo fin qui ripercorso, si aggiunga poi che, nell’arco del diritto dei marchi europeo, e in relazione specifica all’uso di keyword per il posizionamento commerciale all’interno dei motori di ricerca, l’orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è consolidato in molteplici pronunce, affermando in via interpretativa che “il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a partire da una parola chiave corrispondente a tale marchio che il suddetto concorrente, senza il consenso del titolare del marchio, ha scelto nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga così indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio (parassitismo) oppure qualora tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo (diluizione) o a detta notorietà. […] Per contro, il titolare di un marchio che gode di notorietà non può vietare, in particolare, annunci pubblicitari fatti comparire dai suoi concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono a detto marchio e propongono, senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza peraltro arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio che gode di notorietà, un’alternativa ai prodotti o ai servizi del titolare di detto marchio”[2]

Violazione dei segni distintivi e concorrenza sleale parassitaria in relazione all’uso di strumenti di posizionamento

Come evidenziato poc’anzi, l’impiego, quali parole chiave nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, di segni corrispondenti a marchi di impresa, senza che i titolari di questi ultimi abbiano prestato il loro consenso, configura in astratto altresì due diverse fattispecie di illecito tipizzate dall’art. 2598 c.c., n. 1 e n. 3, in materia di concorrenza sleale.[3]

Per quel che concerne l’illecito previsto dell’art. 2598 c.c., n. 1 – relativo alla violazione di segni distintivi – è necessario tenere presente che la medesima condotta può integrare sia l’ipotesi di contraffazione, sia gli estremi di illecito per concorrenza sleale, rendendo di fatto le due azioni cumulabili all’interno del medesimo giudizio.[4]

Rileva sul punto la figura di elaborazione giurisprudenziale della cd. concorrenza parassitaria che consiste nel “continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale”.[5]

La responsabilità accertata dal Tribunale di Bari in capo alla società concorrente

Senza pretese di esaustività nella rassegna di giurisprudenza sul tema, e individuate le norme centrali in subiecta materia, la pronuncia del Tribunale di Bari si pone correttamente in linea nell’applicazione dei principi già indicati, rispetto al caso di specie.

Il Tribunale di Bari ha evidenziato come la società International Flora utilizzava, per la promozione dei propri servizi, il marchio “Interflora” attraverso il servizio Google Ads.

Tale pratica, che in linea di principio, potrebbe anche non risultare illegittima (come già rilevato dalla giurisprudenza europea richiamata), nel caso di specie “realizzava un effetto confusorio, tale da escludere ogni sua legittimità e da consentire, invece, alla titolare del marchio (ricorrente) di vietare alla resistente di far apparire, a partire dalla keyword identica al proprio marchio, un annuncio pubblicitario per prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio è registrato”.

Confusione che, alla luce della identità dei servizi forniti dalle due società – consistenti nella vendita e nella consegna di fiori e piante online – era palese e risultante dalle evidenze relative agli errati ed insoddisfacenti acquisti compiuti dai consumatori i quali, convinti di usufruire dell’affidabile servizio fornito dalla società ricorrente, effettuavano acquisti sul portale della società resistente, tratti in inganno dalla condotta “parassitaria” di quest’ultima.

Al fine di integrare un’ipotesi di illecito non è dunque sufficiente il mero riscontro della identità sui due versanti (segni e prodotti o servizi), ma è necessario accertare se lo sfruttamento improprio del terzo sia idoneo a violare una delle funzioni protette del marchio; quindi la tutela della privativa in tale ipotesi sarebbe circoscritta ai casi di riscontro di un rischio di confusione o di un indebito agganciamento alla rinomanza di cui un marchio goda.

Per tale motivo – consistente nell’indebito vantaggio tratto dalla società grazie alla spiccata notorietà del marchio “Interflora” – il Tribunale di Bari, rilevata la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, riconosceva in capo a quest’ultima altresì la responsabilità per condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 1 e 3.

Così, in accoglimento del ricorso, è stata ordinata alla società resistente la immediata interruzione di qualsivoglia utilizzo abusivo del marchio e della keyword “Interflora” sul motore di ricerca di Google, per promuovere i propri prodotti e/o servizi, con inibizione dell’uso e dell’inserimento della keyword “Interflora” quale parola chiave “negativa” sul medesimo motore di ricerca, in aggiunta alla fissazione di una penale di € 500,00 per ogni successiva violazione.

Le responsabilità dei prestatori di servizi di posizionamento alla luce della giurisprudenza europea

Ebbene, la decisione del Tribunale di Bari appena ripercorsa riafferma alcuni principi già graniticamente accolti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea; ma lascia spazio al quesito se sia possibile rinvenire in capo anche al gestore del servizio di posizionamento (in questo caso, Google Ads) una qualche forma di responsabilità.

Nel caso in esame, infatti, al momento della scoperta della condotta concorrenziale sleale, Interflora aveva diffidato Google a “cessare – entro e non oltre ventiquattro ore – la vendita e/o qualsivoglia ulteriore utilizzo della parola chiave “Interflora” in favore del portale www.InternationalFlora.it”, sostenendo che l’impiego abusivo della keyword “Interflora” da parte di International Flora integrasse gravi ipotesi di violazione dei segni distintivi Interflora e di concorrenza sleale ai sensi dell’ art. 2598 c.c., nei quali concorrono non solo gli autori materiali, ma anche tutti coloro che – ancorché solo indirettamente – abbiano reso possibile o anche solo agevolato le condotte lesive.

Il titolare del marchio potrebbe astrattamente lamentare la contraffazione sia da parte dell’inserzionista che da parte del gestore del servizio di posizionamento, come afferma la giurisprudenza comunitaria che, difatti, ha operato una netta distinzione tra la responsabilità del prestatore di servizi di posizionamento e quella degli inserzionisti.

Sul punto può essere presa in esame, a titolo esemplificativo, la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella controversia instaurata da Louis Vuitton contro Google (rectius, le società francesi di Google che offrono servizi di posizionamento[6]).

Nella fattispecie, la Corte si è espressa in via interpretativa:

  • da un lato, sulla questione se il titolare del diritto di privativa possa vietare l’uso del proprio marchio al prestatore del servizio di posizionamento a pagamento, il quale mette a disposizione degli inserzionisti parole chiave che riproducono o imitano tale marchio registrato;
  • dall’altro, in caso di risposta negativa al primo quesito, se il prestatore del servizio di posizionamento a pagamento possa essere considerato fornitore di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione delle informazioni fornite da un destinatario del servizio (e quindi di cd. “hosting” ai sensi dell’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE) di guisa che non è possibile ravvisare una sua responsabilità – non essendo generalmente questi servizi gravati da obblighi generali di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, né da un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite –; o quantomeno tale responsabilità non è ravvisabile prima che il prestatore di servizio di posizionamento sia stato informato dal titolare del marchio dell’uso illecito del segno da parte dell’inserzionista.[7]

Per quanto riguarda il primo punto, la Corte ha escluso che possa essere ravvisata una responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento in quanto, pur chiaramente operando nel commercio quando consente agli inserzionisti di selezionare, quali parole chiave, segni identici a marchi, esso non fa uso del marchio ai fini della propria comunicazione commerciale.[8]

Con riferimento al secondo profilo, la Corte ha ritenuto che la riconduzione dell’attività del prestatore di servizi di posizionamento nell’ambito della definizione di servizio della società dell’informazione non fosse semplicemente giustificata dalle circostanze che il servizio di posizionamento sia oneroso; che Google stabilisca le modalità di pagamento; o ancora che esso dia informazioni di ordine generale ai suoi clienti.

Al contrario, anche alla luce del Considerando n. 42 della Direttiva n. 2000/31,[9] risulta che le deroghe alla responsabilità previste da tale fonte normativa riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, con la conseguenza che detto prestatore non conosca né controlli le informazioni trasmesse o memorizzate. Pertanto, conclude il ragionamento la Corte, “l’art. 14 della direttiva 2000/31 deve essere interpretato nel senso che la norma ivi contenuta si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su Internet qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. Se non ha svolto un siffatto ruolo, detto prestatore non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi”.

Conclusioni

Alla luce di quanto fin qui detto, la decisione del Tribunale di Bari si pone sicuramente in evidenza per la corretta applicazione dei principi che sono stati per la gran parte accolti in seno alla giurisprudenza europea in tema di uso di marchi altrui come parole chiave nei servizi di keyword advertising.

Cosicché l’individuazione di una violazione dei segni distintivi e di una condotta di concorrenza sleale parassitaria non può prescindere dall’accertamento di un chiaro effetto confusorio generato nella platea dei consumatori medi del prodotto (o degli utilizzatori del servizio fornito). Mentre, per quanto attiene al lato del prestatore di servizi di posizionamento, e in assenza di una decisione sul tema da parte del Tribunale di Bari, il discernimento di una qualsivoglia responsabilità in capo a quest’ultimo per l’omessa vigilanza o ricerca del fatto illecito pare tuttora essere legato all’esito di una (complessa) attività di verifica da svolgersi caso per caso sul ruolo (attivo o passivo) effettivamente ricoperto dal servizio di keyword advertising.

Note

  1. Cfr. art. 20 c.p.i.: “I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica: a) un segno identico al marchio per i prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è registrato; b) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.
  2. Cfr. ex multis Corte giustizia UE sez. I, 22/09/2011, n.323, in Giurisprudenza annotata di diritto industriale 2013, 1, 1291.
  3. Cfr. art. 2598 c.c., n. 1: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente […]”; e n. 3: “3. Si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
  4. Cfr. Cassazione civile sez. I, 02/12/2016, n.24658, in Guida al diritto, 2017, 8, 78.
  5. Cfr. in ultimo Cassazione civile sez. I, 12/10/2018, n.25607, in Rivista di Diritto Industriale 2019, 4-05, II, 434.
  6. Cfr. Corte giustizia UE grande sezione, 23/03/2010, n.236, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica (Il) 2010, 4-5, 707.
  7. Cfr. art. 14: “1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso. 2. Il paragrafo 1 non si applica se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore. 3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, per un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa, in conformità agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, di esigere che il prestatore ponga fine ad una violazione o la impedisca nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime”; e art. 15: “
  8. Uso che pertanto deve ritenersi differente rispetto a quello propriamente “commerciale” ai sensi delle disposizioni della Direttiva 89/104/CEE (art. 5) e del Regolamento (CE) n. 40/94 (art. 9).
  9. Cfr. Considerando n. 42: “Le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.

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