un business in crescita

Pirateria libraria, quanto ci costa e chi ci guadagna: i numeri del fenomeno

La pirateria sottrae ogni anno al settore editoriale librario 528 milioni di euro, pari al 23% del mercato complessivo. Per il sistema Paese la perdita annua è di 1,3 miliardi, per il fisco 216 milioni. Un fenomeno grave e in crescita che va combattuto anche con l’educazione degli utenti

Pubblicato il 16 Nov 2021

Renato Esposito

responsabile antipirateria Associazione Italiana Editori (AIE)

pirateria online

La pirateria delle opere dell’ingegno è un tema centrale per tutta l’industria dei contenuti editoriali, ed è divenuta oggetto, da alcuni anni a questa parte, di forte attenzione da parte degli aventi diritto oltre che, ovviamente, degli organi legislativi di numerosi Paesi.

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I numeri della pirateria libraria

È fondamentale partire dai dati, ed è per questo che AIE – Associazione Italiana editori ha avviato un percorso di collaborazione con l’istituto di ricerca IPSOS che ha già visto il rilascio, l’anno scorso, della prima indagine in materia di pirateria libraria, mentre proprio in questi giorni è in corso la raccolta dei dati relativi alla seconda edizione, che saranno presentati all’inizio del prossimo anno.

La pirateria sottrae ogni anno al settore editoriale librario 528 milioni di euro, pari al 23% del mercato complessivo (escludendo il settore scolastico e l’export). Per il sistema Paese la perdita annua è di 1,3 miliardi, per il fisco 216 milioni. Dal punto di vista della perdita di posti di lavoro, parliamo di 3.600 persone nella filiera, 8.800 posti tenendo conto anche dell’indotto.

Oltre un italiano su tre (il 36% della popolazione sopra i 15 anni) ha compiuto almeno un atto di pirateria editoriale nel corso dell’ultimo anno. Uno su quattro ha scaricato almeno una volta un ebook o audiolibro da fonti illegali, il 17% ha ricevuto da amici/familiari almeno un ebook, l’8% ha ricevuto da amici/conoscenti almeno un libro fotocopiato, il 7% ha acquistato almeno un libro fotocopiato. Questo significa che ogni giorno vengono commessi quasi 300.000 atti di pirateria che comportano mancati acquisti di copie legali.

È quindi del tutto evidente che la pirateria costituisce un grave problema e un freno allo sviluppo dei mercati legali, e che un fenomeno così vasto non può essere contrastato solo con strumenti di repressione dell’illegalità, ma anche con l’educazione degli utenti (che hanno una percezione di scarsa lesività dei propri comportamenti: l’84% degli italiani è consapevole che gli atti di pirateria sono illegali, ma il 39% li considera comunque poco o per niente gravi, e il 66% ritiene poco o per niente probabile essere scoperti e puniti) e con il sostegno alla domanda di informazione e cultura.

I «business model» della pirateria libraria

Dopo aver descritto il contesto e aver fornito i dati oggettivi dal lato degli aventi diritto, è però anche utile approfondire gli aspetti economici del fenomeno dal lato del pirata e cercare di descrivere alcuni «business model» tipici della pirateria organizzata, per poter rispondere ad un’altra domanda spesso trascurata: quali sono i meccanismi che consentono ai pirati di incassare denaro? E soprattutto, visto che nella maggior parte dei casi al navigatore non viene richiesto di pagare per ottenere i file che desidera, chi li sta pagando?

Raramente, infatti, ci si sofferma sul perché della pirateria, salvo i casi in cui si liquida la questione affermando che esiste senz’altro uno «scopo di lucro» (o di profitto) da parte di chi carica i file nei vari siti, e uno «scopo di risparmio» da parte di chi scarica la versione pirata di un’opera, evitando così, nella larga maggioranza dei casi, un acquisto legale.

Eppure, la maggior parte delle legislazioni nazionali in materia di diritto d’autore ricollega la possibilità dell’esercizio delle difese penali da parte degli aventi diritto alla presenza di un fine di lucro nell’esercizio della pirateria, ed è proprio per questo che è interessante portare alla luce le modalità di finanziamento di queste attività.

Nel mondo fisico è tuttora presente il problema delle copisterie pirata che, con modalità operative sempre più raffinate, offrono in vendita copie integrali di libri (specialmente universitari) a prezzi che vanno dalla metà ad un terzo dell’originale. L’epoca dei sequestri di interi magazzini con migliaia di libri piratati si è conclusa da tempo, lasciando il passo a sistemi di “print on demand” da archivi digitali che consentono di ridurre i rischi in fase di controllo da parte delle forze dell’ordine, e che si spingono fino alla consegna a domicilio delle fotocopie commissionate on line (fenomeno che si è manifestato in maniera significativa durante il lockdown). L’attività illecita viene svolta per definizione in maniera imprenditoriale, e gli acquisti sono l’oggetto di comuni compravendite, benché di prodotti illeciti, e pertanto privi di interesse dal punto di vista del modello di business.

Passando all’online, e tralasciando i casi di cosiddetto “casual infringement”, cioè di messa a disposizione di materiale protetto in forma del tutto sporadica, talvolta senza consapevolezza di violare la legge e in genere senza collegamento a strumenti di remunerazione, la pirateria libraria tende ad assumere forme strutturate, talvolta sovrapponibili a quelle delle normali aziende legali: organizzazione gerarchica del “personale”, servizi di assistenza al “cliente”, pubblicizzazione dell’offerta, etc.

Storicamente, il fine di lucro è sempre stato collegato alla presenza di banner pubblicitari nei siti pirata. in base a questo modello, gli inserzionisti corrispondono al proprietario del sito una somma rapportata al numero di visualizzazioni (o di click) del proprio banner. Evidentemente, perché l’attività sia minimamente profittevole, è indispensabile attirare il maggior numero possibile di visitatori, e in un sito pirata questo risultato si ottiene mettendo a disposizione grandi quantità di file, con particolare attenzione alle novità. Sono modelli in declino, dato che in casi simili è abbastanza agevole seguire la regola “follow the money” per risalire ai responsabili e porre fine alle loro attività.

Il business dei cyberlocker

Il modello di business attualmente più diffuso è quello del cosiddetto “linking site”, cioè un sito che funge da “vetrina” ed espone un catalogo di libri, con schede descrittive contenenti metadati (spesso tratti in maniera automatica da fonti legali), ma non ospita alcun file protetto dalla legge sul diritto d’autore presso i propri server. I contenuti veri e propri vengono raggiunti attraverso uno o più link presenti nella scheda descrittiva, che puntano a servizi terzi denominati “cyberlocker” o “OCH” (One Click Hoster).

I cyberlocker sono degli archivi virtuali nei quali possono essere caricati dei file, e hanno normalmente due livelli di servizio: uno free, limitato alle funzionalità base, e uno a pagamento, nel quale, ad esempio, sono rimossi i vincoli di velocità di banda, o i limiti di quantità di dati scaricabili in un dato intervallo di tempo, o l’impossibilità di effettuare più download contemporaneamente, etc. Di norma non presentano banner pubblicitari e si conformano alle regole europee e USA in materia di responsabilità dei prestatori di servizi della società dell’informazione, rimuovendo in tempi brevissimi i file una volta che siano stati correttamente informati del fatto che attraverso il loro servizio si stanno commettendo delle violazioni. All’atto del caricamento, l’uploader riceve un link univoco che punta al contenuto caricato, e successivamente lo dissemina in rete, attraverso il sito vetrina. Il cyberlocker riconosce all’uploader una somma per ciascun download, effettuato da terzi e da diversi indirizzi IP, dei contenuti che ha caricato. Parliamo normalmente di pochi millesimi di dollaro o di euro, per cui per il pirata che voglia trarre un qualche guadagno dalla propria attività illecita diventa indispensabile offrire centinaia o migliaia di contenuti.

I link ai cyberlocker possono essere a loro volta “protetti” da servizi ulteriori che rendono fruibile il link solo dopo che il navigatore ha compiuto qualche attività (come risolvere un “captcha”, cioè rispondere ad una domanda di facile soluzione per un umano ma non per una macchina: tipicamente si tratta di trascrivere una serie di caratteri presentati in forma di immagine distorta o offuscata, o di riconoscere alcuni oggetti presentati in una griglia). I pirati utilizzano i captcha sia per rendere più complessa l’attività antipirateria, sia per ottenere altre piccole remunerazioni: servizi di questo tipo riconoscono infatti circa 1 millesimo di euro per ogni captcha risolto. Talvolta i cyberlocker prevedono che il download di un certo contenuto produca la remunerazione di cui abbiamo parlato soltanto se il file supera una certa dimensione. Questo è il motivo per cui nell’ambito della pirateria libraria (i file che riproducono libri sono normalmente molto “leggeri”) è frequente che i contenuti vengano messi a disposizione in forma di archivi compressi, a cui vengono aggiunti altri file, contenenti ad esempio la «firma» dell’uploader in alta risoluzione o altri contenuti utili a superare la soglia della remunerazione. Per chiarire definitivamente il meccanismo occorre specificare che il cyberlocker trae i propri guadagni dalle sottoscrizioni degli abbonamenti “premium” e dal traffico che riesce a generare, rendendo così sostenibile il modello.

Il fenomeno dei referral

Un altro modello in forte espansione, anche questo senza passaggi di denaro evidenti, è quello basato sull’uso di “referral”, cioè di link che rimandano ad un certo sito di e-commerce che, in accordo con chi li ha forniti, gli riconoscerà un compenso per ogni transazione conclusa attraverso quel link. L’esempio tipico, anche se non l’unico, è quello dei gruppi Telegram di condivisione di contenuti. Telegram in sé opera senza apparente scopo di lucro ma all’interno dei vari gruppi e canali che ospita è invece frequente che le violazioni della legge sul diritto d’autore, che si concretano in varie modalità, siano rette dallo scopo di lucro. Nello specifico, normalmente i canali si organizzano in forma di “network”, nel senso che sviluppano diverse sezioni specializzate nell’offerta di contenuti afferenti ai vari ambiti della proprietà intellettuale (ebook, film, musica, videogiochi, etc.), a cui aggiungono magari un singolo canale di indicizzazione di offerte (lecite) di beni fisici in vendita su ignari siti terzi che presentano variazioni di prezzo significative, spesso dovute a errore umano, alle quali si accede tramite il referral pubblicato nel canale. In tal modo, per ciascun acquisto concluso dopo essere giunti sulla piattaforma di vendita (es. Amazon) tramite il referral, chi ha messo a disposizione il link riceve un importo fisso o una percentuale del valore del bene acquistato. È evidente come in questi casi la messa a disposizione di grandi quantità di contenuti renda attrattivo il canale per i navigatori, aumentando così la platea dei soggetti potenzialmente interessati a concludere acquisti tramite i referral presenti nel canale. Più raramente, Telegram viene utilizzato per la disseminazione di link a cyberlocker, che quindi producono l’ordinaria remunerazione per gli uploader attraverso canali esterni a Telegram, come nel caso dei siti vetrina.

Esistono anche dei modelli in cui il pagamento è esplicitamente richiesto per l’accesso al “servizio”. Uno dei principali siti vetrina, ad esempio, dichiara di collaborare esclusivamente con un singolo cyberlocker, che offre il servizio soltanto agli abbonati paganti. Un altro maschera alcuni dei propri link e li rende visibili soltanto agli utenti che abbiano versato una certa somma (quindi in questo caso il pagamento viene fatto a favore del sito vetrina, non del cyberlocker). In alcuni casi i gestori dei siti richiedono donazioni o comunque contributi che vengono presentati come necessari per la manutenzione dei sistemi, talvolta come esplicito corrispettivo per l’accesso ai contenuti protetti, o addirittura come forma di finanziamento per l’acquisto di nuovi libri che, una volta privati delle misure tecnologiche di protezione che normalmente li accompagnano, verranno posti a disposizione dell’intera comunità di riferimento (generando così nuovi profitti per i pirati). Non mancano i casi di aste on line relative a file digitali (o fotocopie), i siti che vendono riassunti non autorizzati, le letture di libri trasmesse tramite servizi di streaming che seguono le ordinarie regole di monetizzazione in base al numero di visualizzazioni di un certo contenuto.

Conclusioni

In conclusione, possiamo affermare che il panorama della pirateria libraria organizzata è molto variegato e che lo scopo di lucro, anche se spesso non appare evidente, è una costante. Acquisire consapevolezza del fatto che i pirati ottengono guadagni spesso assai consistenti anche senza che i navigatori corrispondano un vero e proprio “prezzo” per l’accesso ai contenuti è quindi un elemento essenziale per la corretta qualificazione giuridica del fenomeno che, nei casi descritti, ha quasi sempre rilevanza penale.

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