Il decreto legislativo di attuazione della Direttiva 2019/790/UE, la cosiddetta “Direttiva Copyright”, approvato lo scorso 5 novembre, andrà a incidere in modo significativo – oltre che sul mondo dell’editoria e sulla responsabilità degli internet service provider per le violazioni del diritto d’autore online – anche su quello dell’arte.
Patrimonio culturale e tecnologia: le novità su diritto d’autore e diritti connessi
Focus sulle nuove forme di consumo della cultura
In particolare, l’attenzione è puntata sulle nuove forme di “consumo” della cultura, resa ancora più libera dal recente intervento europeo, la cui novità deve fare i conti con una legislazione risalente e protezionistica del patrimonio culturale e dei rispettivi enti a tutela dello stesso.
Il progresso tecnologico e la crescente digitalizzazione dei contenuti, infatti, hanno messo in crisi la tradizionale modalità di fruizione del patrimonio culturale. È dunque naturale che vengano presi in considerazione nuovi approcci, adeguati ai mutati comportamenti del pubblico.
Questo fenomeno generale trova una sua declinazione particolare nella fruizione delle ‘immagini’ (foto, video, o altre riproduzioni) dei beni culturali in regime di pubblico dominio, a seguito della scadenza dei diritti d’autore. Rispetto a tali immagini, gli enti museali ed archivistici adottano da tempo un regime di stampo autorale, che rende privo di effettività il pubblico dominio cui questi beni sono sottoposti. Accade infatti che la riproduzione delle opere del patrimonio culturale fatta per scopi commerciali, sia assoggettata ad una preventiva concessione e al pagamento di un canone, a vantaggio degli enti culturali che abbiano tali beni in consegna. Nonostante, giova ripeterlo, tali opere siano ormai “cadute” in pubblico dominio[1] con riguardo ai diritti d’autore, ossia, in capo agli stessi, sono scaduti i diritti autorali per decorso del tempo[2].
Ripensare il sistema autorizzatorio si rende necessario in un’ottica di accesso democratico alla cultura, di effettività del pubblico dominio e in ultimo, come garanzia della libertà di espressione.
L’evoluzione del concetto di patrimonio culturale
È opportuno precisare cosa si intenda per patrimonio culturale. Il significato di tale espressione è stato inteso diversamente nel corso dei secoli: da principio in un’ottica estetica che si è riversata in una legislazione cosiddetta “artistica” o “monumentalistica”, per poi evolversi e incentrarsi “sull’eccezionale interesse storico-artistico” che il bene, indipendentemente da qualsiasi pregio di natura estetica, porta con sé. Fin dalle prime testimonianze di normativa in materia, le quali risalgono ai primi del 1400[3], erano privilegiati oggetti di tutela i beni culturali che avessero una particolare qualità estetica, essendo sufficiente, ai fini della valorizzazione, che gli stessi fossero definibili come “bellezze”, prescindendo da qualsiasi valore culturale o interesse storico per la nazione. Si deve poi, all’articolo uno della cosiddetta Legge Rosaldi, la l. 20 giugno 1909, n. 364, il definivo abbandono della concezione estetica del patrimonio culturale e il passaggio alla valorizzazione di “ogni bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”[4]. Da ultimo, si è arrivati ad una definizione matura dello stesso con il Codice dei beni culturali (Decreto Legislativo 22 Gennaio 2004, n. 42, c.d. Codice Urbani), che privilegia il carattere identificativo di un popolo, raffigurato da quei beni che posseggano un eccezionale interesse artistico, storico, archeologico, archivistico e bibliografico[5]. Dall’analisi della legislazione in materia, diverse interpretazioni del significato di “eccezionale interesse” e diversi indirizzi rispetto a ciò che qualifichi il patrimonio culturale, rendono di difficile fissazione una definizione del concetto. Oggi l’identificazione dello stesso compete ad esperti del settore che, sulla base di un giudizio soggettivo, decidono della proteggibilità o meno di un bene come ricomprendibile nel patrimonio culturale della Nazione.
Una volta accertato questo, l’agire delle amministrazioni sarà rivolto alla duplice attività di valorizzazione e tutela, funzionale ad un accesso quanto più ampio possibile ai beni e contenuti culturali, nell’ottica non solo di preservare la memoria di un popolo, ma di creare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio. Ciò nella convinzione che la fruizione della cultura sia indice di democraticità, in quanto determina il libero sviluppo della persona e del suo intero sistema di valori[6], e la libertà di scelta in materia di formazione intellettuale.
L’anarchia della condivisione
Tale sistema di valori però è minato e sfidato dal mezzo digitale che ha disorientato il tradizionale impianto normativo in materia di condivisione e tutela, sia delle opere in pubblico dominio che delle opere protette dal diritto d’autore, permettendo «nuove opportunità attraverso soluzioni tecniche che possono ampliare fortemente l’accesso e soprattutto l’uso e il riuso dei contenuti digitali delle collezioni museali»[7].
Lo scopo della tutela autorale e della privativa, ai sensi del Codice Urbani, consiste nella volontà di incentivare la cultura e la sua promozione: per quel che riguarda il diritto d’autore, fornendo a titolo di corrispettivo la tutela in questione, ai fini di premiare il prodotto dell’ingegno; nel caso invece delle limitazioni nel riuso del patrimonio culturale, preservando lo stesso da riproduzioni che lo potrebbero fisicamente danneggiare irreversibilmente. Gli stessi principi valgono con riguardo al digitale, tramite cui gli utenti, hanno la possibilità di manipolare le opere e condividerle nuovamente online, spesso incontrastati, senza pagare alcuna royalty all’autore o a chi possiede i diritti economici sull’opera stessa (il più delle volte gli stessi permangono in capo all’autore, ma possono anche essere da lui trasferiti ad altri soggetti; nel caso invece del patrimonio culturale gli stessi sono in capo all’autorità che ha in consegna il bene). Il rischio, nemmeno tanto remoto, è quindi che il web determini una anarchia dei contenuti condivisibili.
La digitalizzazione nel diritto d’autore
Il diritto d’autore si è adattato al nuovo mezzo digitale, ormai pervasivo nella realtà di quella che è stata definita la “società dell’informazione”. L’intervento decisivo da parte del legislatore europeo si ebbe nel 2001, anno in cui fu approvata la Direttiva 2001/29/CE “sull’armonizzazione di alcuni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione”, direttiva recepita in Italia per il tramite del decreto legislativo n. 68/2003 che ha inciso su numerosi aspetti del diritto d’autore, innovandolo. In particolare, per quel che qui interessa, il diritto esclusivo di riproduzione è stato adattato al mutato mezzo digitale. All’articolo 2 della Direttiva 2001/29/CE, infatti, si dispone che gli Stati riconoscano un diritto esclusivo di vietare la riproduzione diretta o indiretta, temporanea o permanente, in qualunque modo o forma, in tutto o in parte agli autori, artisti interpreti, produttori, produttori di fonogrammi etc. Per la prima volta dunque si ha una elencazione esaustiva che ricomprende chiaramente le copie anche indirette – perché mediate da uno strumento – e temporanee, oltre ad armonizzare il diritto di riproduzione in capo a tutti i soggetti legittimati, uniformando le prerogative prima trattate separatamente.
Un ulteriore passo avanti è stato fatto più di recente, nel 2019, quando, per rispondere ad ulteriori esigenze connesse al mondo digitale e adeguare nuovamente la legislazione esistente, fu emanata la Direttiva Copyright, “sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE”. Come sopra detto, proprio nei giorni in cui scriviamo questa nota è stato adottato il decreto legislativo che dà attuazione alla Direttiva Copyright.
La riproduzione ai sensi del Codice Urbani
L’avvento del digitale non ha risparmiato le pubbliche amministrazioni, i musei e gli archivi, che si sono trovati a gestire il patrimonio pubblico e la conseguente tutela e valorizzazione attraverso nuove modalità. La nuova società dell’informazione si rivela essere una risorsa per i custodi del patrimonio culturale perché, nell’ottica di rendere il patrimonio sempre più accessibile, il digitale darebbe nuova vita al passato.
I vantaggi della digitalizzazione sono stati ampiamente considerati dal legislatore europeo e dai più attenti commentatori, ma tali vantaggi non sembrano ancora convincere gli enti pubblici che resistono ad una piena liberalizzazione sulla base di un regime di autorizzazioni e concessioni di cui all’articolo 107 e 108 del Codice Urbani. Regime fondato su un controllo pervasivo in materia di riproduzione, al fine di salvaguardare non solo il bene in senso materiale ma pure il valore simbolico che questo veicola, tanto da estendersi – tale potere – pure su beni esposti alla pubblica vista, liberalizzando unicamente le riproduzioni fatte per scopi non commerciali.
Le disposizioni appena menzionate del Codice prevedono infatti, all’articolo 107, che le riproduzioni dei beni appartenenti al patrimonio culturale devono avvenire, dietro autorizzazione, con modalità che non danneggino gli originali, qualora fatte per contatto tramite calchi[8]. All’articolo 108, invece, sono stabiliti i criteri per fissare i canoni di concessione e i corrispettivi connessi alla riproduzione, da parte dell’autorità che ha in consegna i beni, e qualora questa non avesse provveduto a determinare un corrispettivo, sopperiscono dei tabellari ministeriali che determinano con modalità standardizzate il canone di concessione. Tali corrispettivi sono dipendenti dall’oggetto della concessione, dai mezzi utilizzati, dalla durata ed in ultimo dalla destinazione d’uso della riproduzione e dai benefici economici che il richiedente otterrà dall’attività. Ai commi successivi sono accordate delle eccezioni. Al comma 3 sono rese gratuite, ma necessitano comunque di autorizzazione, le riproduzioni fatte per motivi personali, di studio o di valorizzazione, stante la necessità dell’assenza di qualsiasi scopo di lucro. Ed in ultimo, al comma 3-bis, sono rese comunque libere per fini di studio, ricerca e libera manifestazione del pensiero, le riproduzioni dei beni consultabili – con esclusione di quelli archivistici – e la divulgazione delle stesse, con modalità che non consentano l’ulteriore condivisione a scopo di lucro. L’utente potrebbe quindi caricare l’immagine su un blog, ovvero su un social network, ma eventuali terzi non potrebbero appropriarsi dell’immagine e diffonderla a loro volta per finalità commerciali, senza preventivamente chiedere il consenso all’amministrazione.
In questo contesto la digitalizzazione moltiplica le occasioni di conflitto, facendo emergere come la giurisprudenza ed il legislatore propendano per estendere le prerogative proprietarie pure sulla raffigurazione del bene. La ratio di subordinare, in generale lo sfruttamento economico, e in particolare la riproduzione delle immagini, ad un regime concessorio o autorizzatorio ed al pagamento di un canone, risiede prima di tutto nella posizione di dominus che l’ente pubblico ha rispetto alla cosa, giustificato dal diritto di proprietà. In secondo luogo, si ritiene che la riproduzione e quindi l’uso individuale dei beni culturali, temporaneo o permanente, debba sottostare parimenti ad un regime di privativa e controllo per ragioni attinenti al decoro del bene. Ancora, l’origine di una tale privativa, è stato osservato, risiede anche nell’esigenza di preservare lo stesso valore culturale dell’opera, di talché essa sarebbe volta ad evitare un uso improprio dell’immagine del bene che incorpora tale messaggio ulteriore.
Pseudo-copyright vs open access
È stato sostenuto che una tale impostazione configuri in capo alle amministrazioni competenti una sorta di diritto d’autore – uno pseudo-copyright [9] –, poiché la tutela non si colloca sull’opera, che è in pubblico dominio – salvo che non si tratti di opere ancora sotto tutela autorale – quanto piuttosto su un diverso bene, derivante dal primo, che sembra possedere i requisiti minimi di accesso alla tutela del diritto d’autore. Tali opere “derivate”, su cui insiste un diritto di privativa e suscettibili di essere sfruttate economicamente, le si identifica in banche dati, produzioni fotografiche, inserimento nei cataloghi, raccolte, edizioni critiche, archivi e, in ultimo, nelle attività di merchandising.
Ci si interroga però sulla bontà di una tale impostazione; infatti, appare controverso quanto la disposizione materiale di un bene legittimi una potestas sull’immagine dello stesso. I sostenitori di questo pseudo copyright sostengono che l’immagine sia il criterio privilegiato di individuazione del bene e dunque in quest’ottica si tratterebbe di un comportamento legittimo oltre che giustificato dagli articoli del Codice Urbani sopra indicati. Al contrario, chi invece propende per un open access e dunque un accesso libero e democratico alla cultura, sostiene che l’articolo 832 c.c., nell’accordare al proprietario di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, non farebbe riferimento pure alla componente immateriale del bene stesso, ma si rivolgerebbe alla “cosa” nella sua materialità.
Occorre ricordare anche che nella maggior parte dei casi si tratta di immagini di beni in pubblico dominio, non più proteggibili e tale stringente normativa finisce per creare restrizioni all’utilizzo dell’opera, originate dalla possibilità di esercitare un controllo fisico sul bene. Ciò si traduce nel determinare inevitabilmente un conflitto di interessi contrapposti, che necessitano di essere bilanciati: da un lato le istituzioni, il loro controllo sui beni culturali e l’esigenza di sfruttare tale controllo economicamente; dall’altro lato l’esigenza di valorizzazione e tutela e la garanzia del diritto costituzionalmente garantito di accesso alla cultura e alla libertà di espressione; in fine una terza posizione, di chi possa vantare un diritto d’autore sulle opere fotografiche.
Testimonianze di open access
Tale dicotomia tra il pubblico dominio e una privativa di stampo autoriale, sia esso sottratto o meno alla pubblica vista, ha da tempo suscitato le reazioni dei sostenitori dell’accesso aperto alla cultura.
Non sono infatti mancate testimonianze in questo senso: si pensi allo “Statuto per il pubblico dominio” di Europeana oppure, l’esperienza Open Glam, entrambe operanti da diversi anni in questo settore, raccogliendo ed incoraggiando esperienze di open access. O ancora, il valore e la ricchezza del libero accesso sono evidenti in esperienze quali il progetto Google Arts & Culture che consente, agli utenti registrati, di poter avere accesso alle collezioni di moltissimi musei mondiali, beneficiando di dettagli non visibili neanche ad occhio nudo, ed avendo accesso ad informazioni che rendono l’esperienza coinvolgente ed interattiva.
Significativo anche il progetto Wiki Loves Monument, il più grande concorso fotografico di opere d’arte al mondo, che invita i cittadini a fotografare le bellezze del proprio patrimonio culturale, nel pieno rispetto della tutela autorale, ma rilasciando le immagini con licenza libera, con il fine di condividere le stesse sul portale di Wikimedia e metterle a disposizione dei più, realizzando l’ideale di libera condivisione della cultura. Oltre i casi citati, le esperienze di libera condivisione della cultura sono innumerevoli, e il vantaggio che l’ente museale ottiene da una tale politica è un ritorno di tipo economico – perché attrae investitori – e di fama. Tale beneficio, è stato osservato, è molto maggiore rispetto a quello che otterrebbe attraverso la digitalizzazione e commercializzazione fatta in proprio.
Il controverso recepimento dell’articolo 14 della Direttiva 2019/790/UE
In questo senso, il recente intervento della Direttiva 2019/790/UE ha risposto alle istanze del mondo della cultura, con l’intento di garantire l’effettività del pubblico dominio e superare le incongruenze fino ad ora descritte. Indi per cui, gli Stati devono, ai sensi dell’articolo 14 della Direttiva su riportata, escludere la proteggibilità, ai sensi del diritto d’autore, di semplici riproduzioni di opere in pubblico dominio, a meno che le stesse non siano creative di per sé e quindi opere esse stesse. L’articolo 14 infatti così recita: «Gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore».
Se ad una prima lettura il testo può sembrare chiaro, esso in realtà nasconde delle insidie, lasciando agli interpreti alcune incertezze in sede di recepimento. Il legislatore italiano, dal canto suo, non sembra essersi posto numerosi interrogativi, limitandosi a recepire fedelmente l’articolo[10].
Un primo passo è stato fatto con la legge 53/2021 la cosiddetta “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea- Legge di delegazione europea 2019-2020”, che provvede a delegare l’esecutivo per l’adozione dei decreti legislativi ai fini del recepimento delle direttive adottate dall’Unione Europea. Questo ha dunque elaborato una bozza di decreto legislativo di attuazione, approvato e discusso dalle camere nell’ambito della procedura di consultazione obbligatoria, e proprio il 5 novembre 2021 definitivamente adottato dal Governo. La Direttiva dunque si fa legge. Con specifico riguardo all’attuazione dell’articolo 14 della direttiva è dal mondo degli operatori del settore che provengono alcune considerazioni meritevoli di maggiore attenzione. In particolare, si rileva come sarebbe opportuna, se non necessaria, una modifica degli articoli 107 e 108 del d.lgs. 42/2004, altrimenti si rischierebbe di vanificare, a parere dei più, l’intero intervento. Perché facendo venir meno una tutela per i fotografi, senza intervenire sul versante pubblico del Codice, ci sarebbe un danno per la prima categoria, restando vincolate, dal regime che vieta l’utilizzo a fini di lucro, le riproduzioni di opere in pubblico dominio in consegna agli enti museali, vanificando quindi l’intervento comunitario. La legislazione in materia di riproduzione dei beni culturali, inoltre, si fonda sulla distinzione tra scopo commerciale e non commerciale, una differenza evidentemente assente nell’articolo 14, il cui recepimento potrebbe essere quindi frustrato da una mancata modifica al sistema concessorio tutt’ora in vigore. È pur vero, che la disciplina del Codice potrà essere ritenuta implicitamente abrogata, in tutto o in parte, in quanto non compatibile con la nuova norma. Tuttavia, è a causa dell’ambiguità tra il testo di recepimento che si riferisce alle opere delle arti “figurative” e non alla più generale categoria delle opere delle arti “visive”, ed inoltre alla diversa finalità perseguita dagli articoli del Codice Urbani – che prevedono dei corrispettivi a tutela del patrimonio come bene pubblico e non come corrispettivo di diritto d’autore – che si esclude che la disciplina così come recepita sia direttamente sovrapponibile, sulla base del principio di prevalenza, alle norme del Codice, che potrebbero continuare a produrre i loro effetti.
È suggerito dunque, al fine di recepire al meglio la norma, di definire chiaramente il contenuto delle opere delle arti visive ricomprendendovi non solo le opere d’arte figurativa, di cui all’articolo 2 n. 4) della l. 633/41, ma estendendone i criteri fino a ricomprendervi pure i beni culturali di cui agli articoli 10 e 11 del relativo Codice, che siano in formato analogico o digitale, altrimenti operando una ingiustificata disparità di trattamento tra le opere dell’arte figurativa e i beni del patrimonio culturale.
Da quanto sopra, appare evidente che ad essere modificata dal recepimento dell’articolo 14 sarà in primis la disciplina della fotografia semplice[11], che inevitabilmente dovrà essere rimodulata se non addirittura abrogata, nel caso di riproduzioni di opere in pubblico dominio, per dare effettività alla norma sovranazionale. Ancora, per rendere effettivo tale mutamento di prospettiva è necessario incoraggiare gli enti a diffondere quindi le riproduzioni con licenze del tipo Creative Commons, del genere CC0[12] – qualora si voglia impedire il sorgere di qualsiasi diritto d’autore –, oppure del tipo Public Domain – usata nei casi in cui il diritto d’autore è ormai scaduto o non è mai sorto – garantendo una diffusione quanto più possibile libera da vincoli.
Incoraggiare tali pratiche significherebbe pure modificare radicalmente l’articolo 70 comma 1-bis della legge sul diritto d’autore – che consente di diffondere liberamente le opere nel web, purché a bassa definizione e senza finalità di lucro – poiché in contrasto con lo spirito della riforma.
Un ulteriore ostacolo alla liberalizzazione delle immagini dei beni culturali consiste nella privativa di fatto attuata rispetto ai beni esposti alla pubblica vista. Questi ultimi, infatti, fanno pacificamente parte del patrimonio culturale e in epoca di liberalizzazione sarebbe opportuno ripensare il vincolo, come opportunità di ulteriore accesso libero alla cultura.
Queste modifiche sono state abbondantemente evidenziate in sede di audizione parlamentare, ma seppur invocate da due dei più importanti operatori del settore (Wikimedia Foundation e Creative Commons Italia) sembrerebbe che tali istanze non siano state recepite dalle Camere che hanno fondamentalmente confermato il testo proposto dal Governo ormai approvato nell’attuale, insoddisfacente, formulazione. L’unica speranza è che le modifiche evidenziate dagli esperti del settore vengano comunque recepite a posteriori, per non svilire il senso di un intervento che nella sua semplicità rivoluziona un intero settore, conferendo effettività al pubblico dominio.
Conclusioni
Il recepimento è dunque una sfida, necessaria, per operare il passaggio da un approccio al diritto sull’immagine che nasce da una condizione di possesso sul bene riprodotto, ad un passaggio per cui l’immagine si fa bene essa stessa, sembra giunto il tempo, grazie anche alle nuove esperienze digitali, in cui la valorizzazione economica del patrimonio in senso digitale debba lasciare spazio alla fruizione pubblica delle immagini. Storicamente, infatti, va riconosciuta alla possibilità del riuso la conservazione per millenni del nostro patrimonio culturale e di aver favorito qualsiasi processo di innovazione. Perché ogni opera innovativa si fonda sempre sull’interpretazione creativa di ciò che l’ha preceduta.
Il digitale non sembra fare eccezione; al contrario, permetterà di salvare dall’oblio il patrimonio storico-artistico, perché permettendo di esaltare i risultati di ogni elaborazione creativa, grazie ad un libero accesso al patrimonio, oltre a far rivivere la memoria del passato in modo attivo, potrà offrire un sostegno significativo alla ripresa economica e culturale del nostro Paese, tutelando sempre il prodotto dell’ingegno creativo, proprio del suo autore. Il passato, infatti, e la sua testimonianza, nella forma di patrimonio culturale, non è una sterile eredità da contemplare, ma un luogo di incontro concreto tra passato e futuro, che passa dagli occhi di chi osserva.
Lo stesso concetto è espresso chiaramente nelle parole di Tomaso Montanari[13], il quale considera l’incontro con il passato come un dialogo in cui interrogare le testimonianze di una storia che ci ha preceduto, per renderle eloquenti e vitali. Tale dialogo, sostiene lo scrittore, ci libera dalla «dittatura totalitaria del presente», un presente che ci inchioda in un orizzonte limitato, che non ci fa percepire altro da noi.
Il patrimonio culturale al contrario ci libera, poiché relativizza l’uomo inserendolo in una storia, e lo responsabilizza anche nei confronti delle generazioni future. Per questo motivo, il patrimonio è una grande opportunità di vita in primis, ma anche una sfida a preservarlo, contaminandolo con la propria individualità. Così, conclude lo stesso Montanari, è vera la famosissima citazione: «la bellezza salverà il mondo»[14], ma «la bellezza non salverà proprio nulla, se noi non salveremo la bellezza»[15].
Note
- Art. 25, l. 633/41: “I diritti di utilizzazione economica dell’opera durano tutta la vita dell’autore e sino al termine del cinquantesimo anno solare dopo la sua morte”. ↑
- È possibile elencare tre diverse situazioni che danno origine al pubblico dominio per un’opera: il primo è il caso in cui siano scaduti i termini di tutela accordati dall’ordinamento; il secondo è il caso in cui i titolari dei diritti abbiano espressamente diffuso l’opera rinunciando a qualsiasi diritto economico sulla stessa; in ultimo il caso in cui l’opera sia priva dei caratteri di creatività necessari per essere considerata opera dell’ingegno tutelabile. Nel caso in esame del patrimonio culturale è pacifico che ci si trovi nella prima delle ipotesi illustrate. ↑
- Si tratta nello specifico delle bolle papali di Pio II e Sisto IV, rispettivamente dal titolo Cum almam nostrum urbem e Cum provida, sul punto: R. Borio Di Tigliole, La legislazione italiana dei beni culturali: con particolare riferimento ai beni culturali ecclesiastici, Milano, 2018, p. 26. ↑
- Definizione di patrimonio culturale contenuta nelle “Ottantaquattro Dichiarazioni” elaborate dalla Commissione Franceschini del 1966, una commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio. Composta da 27 membri (16 parlamentari e 11 esperti), tra cui il presidente, l’On. Franceschini, di cui porta il nome. ↑
- Cfr. art. 10 d.lgs. 42/2004. ↑
- M. Cecchetti, Art. 9, in A. Celotto – M. Olivetti – R. Bifulco (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, p.223 ↑
- F. Morando – E. Bertacchini, Gioconda 2.0: politiche per l’accesso e l’uso delle immagini di beni culturali in pubblico dominio, in Tafter Journal, 2012, n.47, consultabile presso: https://www.tafterjournal.it/2012/05/02/gioconda-2-0-politiche-per-laccesso-e-luso-delle- immagini-di-beni-culturali-in-pubblico-dominio/. ↑
- Ciò poiché la legislazione in materia è improntata sulla materialità e su modalità di riproduzione tramite calchi per contatto o stampi, nonostante ciò le norme valgono con riguardo a qualunque tipo di riproduzione. ↑
- Espressione coniata in: C. Piana, Esiste uno pseudo-copyright sui beni culturali?, in Tech economy 2030, 2018. ↑
- “Dopo l’articolo 32-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, è inserito il seguente:Art. 32-quater
Alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti figurative, così come individuate all’art. 2, n. 4), il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che non costituisca un’opera originale”; è il testo che risulta dalla bozza di Decreto legislativo, per la formulazione finale è necessario attendere la pubblicazione di quest’ultimo in Gazzetta Ufficiale, ma si è portati a ritenere che il risultato sarà pressoché identico. ↑
- Art. 87, l. 633/41. ↑
- Acronimo di “Creative Commons zero”. Tale licenza è concepita per lasciare l’opera libera da vincoli e garantire un effettivo pubblico dominio, con l’unico limite irrinunciabile, dei diritti morali. ↑
- T. Montanari, Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, Roma, 2014: «l’identità dello spazio congiunge e fa dialogare tempi ed esseri umani lontanissimi. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali». ↑
- F. Dostoevskij, L’idiota, Berlino, 1989. ↑
- S. Settis, come riferito durante un’intervista rilasciata a Rai Cultura il 17 settembre 2020. ↑