Digital Economy and Society Index

Il DESI cambia ma i problemi restano: perché (e come) dobbiamo uscire dal “Medioevo digitale”

Uscendo dal mero dato formale del (comunque modesto) 20˚ posto dell’Italia nel Digital Economy and Society Index (DESI) europeo. Resta il macigno dell’analfabetismo digitale: il tema del capitale umano e le competenze digitali devono diventare una priorità strategica dell’agenda digitale o il futuro è a rischio

Pubblicato il 15 Nov 2021

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

Cos'è il PIAO, il Piano integrato di attività e di organizzazione

L’edizione DESI 2021 si è fatta di molto attendere rispetto alla consueta tempistica di pubblicazione delle precedenti edizioni, e nel frattempo, i “rumors” sembravano andare nella direzione di un effetto sorpresa favorevole – come aspettativa in realtà poco credibile – per le “performance” digitali italiane, premiando gli sforzi compiuti nel recente periodo per cercare di colmare il profondo “gap” esistente rispetto a una parte di ecosistema imprendibile del continente europeo che corre verso mete tecnologiche oggi impossibili anche soltanto da immaginare nel contesto italiano.

La speranza sempre più labile di un possibile cambio di rotta dell’Italia è venuta definitivamente meno quando sono stati resi noti i dati ufficiali del Report: al netto delle modifiche apportate ai criteri metodologici dell’analisi che monitora lo stato di digitalizzazione degli Stati UE, i risultati non cambiano nella sostanza.

Desi 2021, l’Italia va male ma c’è speranza: ecco perché

I risultati

Sembra fuorviante e superficiale guardare al mero dato formale del (comunque modesto) 20˚ posto (su 27 Stati) ottenuto dall’Italia nella classifica europea come un’effettiva risalita da commentare positivamente in termini di “bicchiere mezzo pieno”, perché in realtà i problemi – quelli più radicati e complessi – restano ancora irrisolti nonostante ben 7 lunghi anni dal primo “monito” sul diffuso deficit cognitivo provocato da un significativo livello di analfabetismo digitale riscontrato nella popolazione italiana. Anni definitivamente persi, tra “annuncite” acuta e sindrome delle “buone intenzioni” nel nome di un fare ipotetico declinato al futuro indeterminato che in realtà ha lasciato un “deserto digitale” senza una seria programmazione progettuale definita in una prospettiva a medio-lungo termine in un momento storico decisivo in cui si sarebbe potuto forse invertire il trend quando ancora l’evoluzione digitale si trovava in una fase relativamente embrionale di sviluppo rispetto all’attuale inesorabile impatto pervasivo delle tecnologie sulla vita delle persone, che si ritrovano metaforicamente alla guida di un potente mezzo senza la capacità di orientarsi nelle autostrade telematiche del traffico quotidiano.

Competenze digitali, perché il capitale umano resta il tallone d’Achille

I progressi infrastrutturali di connettività – in ogni caso lenti ed esigui – al pari della crescita dei servizi pubblici digitali (pur ancora in ritardo) restano in secondo piano se poi, in termini di capitale umano (l’Italia precipita al 25˚ posto), solo il 42 % delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base (56 % nell’UE) e solo il 22 % dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (31 % nell’UE), mentre nel frattempo in Finlandia il 76% ha competenze di base e il 50% ha competenze superiori a quelle di base (rispetto ai livelli medi dell’UE pari al 56% e al 31%), così come in Svezia si registra il 72% della popolazione in possesso di competenze digitali di base a fronte del 42% di persone con competenze di livello superiore. Di analogo tenore anche i risultati in Danimarca, ove il 70% della popolazione possiede competenze digitali di base e il 49% ha competenze digitali superiori a quelle di base (tra le più alto dell’UE).

Guardando ancora meglio il dato specifico legato alle competenze digitali, rispetto alla quota di specialisti che si attesta nei citati Paesi scandinavi tra il 7,5% e il 5,5%, con una significativa distribuzione di genere che prolifera nell’ambito di un mercato fertile in cui più del 50% delle aziende continua a essere alla ricerca di esperti da assumere registrando posti vacanti e/o difficili da coprire, in controtendenza – come se fosse un altro pianeta – la percentuale di specialisti ICT in Italia è pari al 3,6% dell’occupazione totale (ancora al di sotto della media UE del 4,3%) mentre le donne rappresentano il 16% della categoria degli esperti (la media UE è del 19%).

Integrazione delle tecnologie digitali

Se, sul versante dell’integrazione delle tecnologie digitali, la maggior parte delle PMI italiane ha un livello di intensità digitale almeno di base (69%, ben al di sopra della media UE del 60%), registrando ottimi risultati soprattutto nell’uso della fatturazione elettronica, unitamente all’uso dei servizi cloud in crescita al 38%, resta ancora basso lo sfruttamento dei big data, utilizzati soltanto dal 9% delle imprese italiane (rispetto a una media UE del 14%), al pari dei sistemi di intelligenza artificiale (18% delle imprese italiane, mentre la media UE è del 25%): praticamente – ancora una volta – indietro rispetto alla rapida crescita delle tecnologie strategiche all’avanguardia come strumenti trainanti dell’attuale sviluppo socio-economico globale.

L’uso (modesto) dei servizi pubblici digitali

Lo scenario italiano rileva inoltre l’uso ancora modesto dei servizi pubblici digitali: la percentuale di utenti online italiani che ricorre a servizi di e-government è passata dal 30% nel 2019 al 36% nel 2020 (ben al di sotto della media UE del 64%).

Ogni anno la storia si ripete e, sistematicamente, si dimentica altrettanto in fretta, perché dopo la consueta visibilità mediatica dedicata al DESI tra le principali “breaking news” da veicolare al dibattito sociale per alimentare analisi, riflessioni e buoni o cattivi propositi, nel giro di pochi giorni, venuta meno la centralità della notizia, si ritorna nella classica “routine” dello status quo che ormai manifesta i tratti preoccupanti di un vero e proprio “Medioevo digitale” ancora troppo distante da un’accettabile condizione minima di inclusione socio-digitale sostenibile.

I fattori di preoccupazione

Non solo preoccupa – nel presente – il deficit cognitivo diffuso nella popolazione italiana (peraltro anche sottostimato dall’analisi europea rispetto al dilagante analfabetismo digitale stratificato nel Mezzogiorno del Paese), ma si prospetta ancor più cupo e insidioso il futuro dell’innovazione italiana se, di fronte a un dato così grave di divario digitale culturale, si continua a pensare in una logica estemporanea di quotidianità contingente legata alle esigenze del momento per “tappare i buchi” del gap attuale inseguendo le scadenze senza una pianificazione organica e sistematica in grado di modellare, con azioni concrete, l’evoluzione di una società tecnologicamente equa, inclusiva e sostenibile, prima che sia davvero troppo tardi.

Il tema del capitale umano legato allo sviluppo delle competenze digitali deve diventare una priorità strategica dell’agenda politico-istituzionale, nonché un argomento centrale del dibattito pubblico generale per favorire – con sano realismo – un processo graduale di credibile trasformazione digitale del Paese ove sia possibile costruire un futuro all’avanguardia che richiede tempo, continuità e concretezza.

Conclusioni

Pensare di risolvere, una volta per tutte e subito, problemi decennali che rallentano storicamente la crescita del Paese è un grave errore da evitare, così come assumere un approccio divisivo di accentramento decisionale destinato a sfociare in un incomprensibile isolamento foriero di lacune e criticità.

È giunto il momento di una vera “Costituente” digitale aperta anche al contributo attivo della società civile secondo un efficace “multistakeholderismo” istituzionalizzato come efficace modello di co-decisione sinergica e condivisa per promuovere la piena accessibilità alle tecnologie e diffondere la cultura digitale a partire da coloro che sono a rischio di esclusione sociale.

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