Delusione e scoramento da parte di molti ambientalisti rispetto agli esiti di COP26, che molti ritenevano potesse andare meglio.
Sarebbe potuto andare meglio perché Cina ed India hanno modificato l’obiettivo di eliminare l’uso del carbone in quello di ridurlo (e dal concetto di phase-out a quello di phase-down la differenza non è poca). Sarebbe potuto andare meglio perché alcuni obiettivi traguardano al 2050 (ed oltre) mentre si puntava ad avvicinare al 2030 alcune scadenze. Sarebbe potuto andare meglio perché molti attivisti considerano i risultati che ci si è prefisso di raggiungere poco concreti e troppo indefiniti, soprattutto vista la dilazione delle scadenze temporali. E così via.
Ma come ci insegna Voltaire, il meglio è nemico del bene.
Cop26, tutte le speranze e le sfide per salvarci dal disastro climatico
Cop26, luci e ombre
Volendo guardare, quindi, al bene, in COP26 per la prima volta si è affrontato seriamente il tema della riduzione progressiva dei combustibili fossili. E questo è un bene. Come è un bene che Cina e Stati Uniti abbiano finalmente dichiarato di voler cooperare nella lotta al cambiamento climatico. Come è un bene che oltre 100 Paesi abbiano firmato per la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030 e 40 Paesi lo abbiano fatto per fermare, sempre entro il 2030, la deforestazione; e che lo stesso numero di Paesi lo abbia fatto per l’abbandono del carbone. Come è un bene che un paese come l’India abbia migliorato i propri NDC (i nationally determined contributions, elemento essenziale degli accordi di Parigi, sono i piani per la riduzione delle emissioni di gas serra redatti dai singoli paesi aderenti ad essi). Cosa che non hanno fatto né gli Stati Uniti né l’Europa. Ed è un bene, infine, che tutti si siano impegnati a ridefinire tali piani annualmente, piuttosto che quinquennalmente.
Luci e ombre, quindi. Ma sono proprio queste luci e queste ombre, ossia la difficoltà nel definire un bilancio complessivo che consenta di convergere su un giudizio trasversalmente condiviso – anche se ad essere trasversale pare proprio la delusione – a far paradossalmente sperare, per certi versi, che ci si possa pian piano muovere nella giusta direzione. Una direzione nella quale a problemi complessi non si risponda o si tenti di rispondere con risposte che più che semplici si riducono ad essere semplicistiche, ma si forniscano quadri che devono essere letti presentando, appunto, luci ed ombre in funzione della prospettiva interpretativa che dispiegano.
Andare oltre la battaglia mediatica
Al di là della soddisfazione o meno delle singole parti che hanno partecipato alla conferenza, infatti, la principale difficoltà da superare non è di merito, ma di metodo. E fino ad oggi, in un contesto che ha visto le diverse parti impegnate – nel bene e nel male – in una battaglia che più che sostanziale è stata mediatica, di metodo (e quindi di sostanza) si è discusso davvero poco.
Perché mai come in questo caso il metodo definisce il merito, che è figlio di quel metodo utilizzato nella costruzione di obiettivi che, vuotati di tale dimensione, non consentono nemmeno di esser valutati nella loro attuabilità.
E così, mentre tutti si accalorano (con facile gioco di parole) sul fatto che il 2060 sia una data ottimistica o pessimistica per la neutralità carbonica della Cina, o sul fatto che il 2030 sia presto o tardi per uno stop alla deforestazione, troppo pochi sono coloro i quali si premurano di ragionare (e far ragionare) davvero sul perché tali date possano essere considerate ottimistiche o pessimistiche.
Come fare per raggiungere gli obiettivi (oltre il blablabla)
È più facile dividere il mondo in buoni e cattivi, in verdi ed anti-verdi, in ambientalisti ed inquinatori, piuttosto che ragionare sul perché – una volta stabilita una meta ormai abbondantemente condivisa – sia di fondamentale importanza trovare un accordo concreto e sostanziale sulle modalità per raggiungerla. E sul fatto che la dimensione che porta alla definizione della modalità è tanto importante quanto la meta stessa. Perché ha poco senso raggiungere una meta se le condizioni con le quali la si raggiunge sono peggiori di quelle dalle quali si è partiti o, in una dimensione di sostenibilità – appunto – per raggiungere la meta ci si metta nelle condizioni di non consentire a chi verrà dopo di noi di fare altrettanto.
E se l’attenzione su tempi di abbattimento delle emissioni o percentuali di riduzione delle stesse è stata tanta, ancora troppo poco si è guardato, in un dibattito fatto più di contrapposti blablabla che di ragionamenti articolati, al come si pensi davvero di raggiungere obiettivi che, privati del metodo, non sono altro che slogan. Dall’una come dall’altra parte.
La base per vere strategie di sostenibilità
Per ragionare del metodo, quindi, è necessario identificare le caratteristiche sulla base delle quali si devono costruire le strategie di sostenibilità, che sono essenzialmente quattro:
- Sistemica: quando parliamo di sostenibilità non esiste la possibilità di considerare la componente ambientale, quella sociale e quella economica in maniera separata e distinta. Ogni volta che agiamo su una di queste tre leve influenziamo le altre due. Ciò implica che non si può guardare alle scelte ambientali senza prendere in considerazione le loro retroazioni sociali ed economiche. Così come non si può guardare alle scelte economiche senza considerare quelle sociali ed ambientali. Può apparire scontato, ma è esattamente quello che facciamo quando chiediamo ad alcuni Paesi di rispettare vincoli che noi stessi non abbiamo dovuto rispettare per arrivare nelle condizioni in cui siamo e che ci consentono di chiedere ad altri impegni che noi stessi non abbiamo dovuto assolvere per giungere dove siamo. Senza preoccuparci, per di più, di quale debba essere il nostro ruolo in questo loro percorso. Responsabilità loro, problemi nostri?
- Complessità: la sostenibilità non è solo una questione di sistema, ma di sistema complesso. Ed in un sistema complesso non siamo in grado di esplicitare tutte le relazioni e le regole che legano tra loro i singoli sottosistemi, definendo azioni e retroazioni. In altri termini: ad azione non corrisponde reazione, ma una serie di conseguenze che non siamo in grado di analizzare se non utilizzando logiche inferenziali. E questo vuol dire metterci di fronte alla necessità di guardare ai diversi temi non verticalmente, ma nelle relazioni che li collegano (si veda alla voce elettrificazione dei trasporti, tanto per fare un esempio).
- Inferenzialità: in un sistema complesso la logica d’analisi, appunto, deve essere inferenziale. Ciò implica la necessità di ricostruire una dimensione di senso in base alla nostra capacità di identificare pattern di ricorsività nei fenomeni, piuttosto che prevedendone l’andamento. E quando si sviluppano strategie ventennali o trentennali sapere che si avrà a che fare con modelli inferenziali è di capitale importanza.
- Adattività: è di capitale importanza perché le logiche, in tali sistemi, non sono prevalentemente predittive, ma adattive. Ciò implica la necessità di essere in grado di mutare i propri percorsi di pianificazione variandoli in funzione di processi che, non potendo per la loro stessa natura essere del tutto previsti, non possono nemmeno essere pianificati in anticipo. Covid-19 insegna. E di cigni neri come il covid-19, di natura sanitaria o di altra natura, dovremo abituarci a gestirne sempre di più.
La sostenibilità è un tema complesso (non complicato)
Insomma, dividendo il mondo in ambientalisti ed inquinatori, in buoni e cattivi, in bianco e nero facciamo l’errore di pensare che quello della sostenibilità sia un tema complicato, quando invece è un tema complesso. E nel tentativo di trovare soluzioni semplici rischiamo di identificare soltanto soluzioni semplicistiche. Che, per loro natura, sono quasi sempre sbagliate.
Questo vale per il passaggio alle rinnovabili così come per l’elettrificazione, vale per il cambiamento climatico così come per quei tanti cambiamenti che – ci piaccia o no – ognuno dovrà affrontare in prima persona per sostenere la sfida della sostenibilità. Sfida alla quale – ce lo dicono alcuni dei dati dell’ultima ricerca della Fondazione per la Sostenibilità Digitale, che presiedo – siamo largamente impreparati.
E lo siamo per più di un motivo.
In primo luogo, lo siamo perché la maggior parte di noi non ha alcuna capacità di correlare le proprie visioni ideologiche con quelli che dovrebbero essere i comportamenti conseguenti. Quasi tre italiani su quattro, ad esempio, non sono in grado di rapportare la propria visione di sostenibilità con le conseguenze economiche e sociali ad essa conseguenti. Per non parlare dei comportamenti. Stiamo diventando bravissimi a chiedere che i prodotti che scegliamo siano sostenibili, ma non lo siamo affatto quando siamo noi in prima persona a dover assumere atteggiamenti sostenibili. Soprattutto se ciò implica cambiare i propri comportamenti. Insomma: siamo tutti sostenibili con le emissioni degli altri. Il risultato? Meno di un italiano su sette, pur sapendo che un dato comportamento o l’adozione di particolari strumenti o accortezze potrebbe produrre un risultato positivo in termini di sostenibilità, trasforma questa consapevolezza teorica in un comportamento concreto. Come se la sostenibilità fosse sempre un problema fondamentale, ma fondamentalmente di qualcun altro.
In secondo luogo, perché facciamo ancora molta fatica a capire davvero quanto la sfida della sostenibilità richiede un’attenta riflessione sul ruolo delle tecnologie digitali. Ed anche in questo la confusione è tanta. E parte spesso dalle istituzioni. Non ha senso parlare – come fanno molti – di twin strategy. Come se ambiente e trasformazione digitale potessero davvero essere due rivoluzioni “gemelle” e non rappresentassero, invece, due aspetti di un unico sistema complesso – che è quello della sostenibilità appunto – che le vede inestricabilmente connesse ed inscindibilmente collegate. Invece, paradossalmente, non solo le concepiamo come elementi distinti, ma talvolta addirittura in contrasto. Non è casuale, ma frutto di una visione che viene rafforzata anche da imbonitori da prima serata, il fatto che spesso la digitalizzazione e la tecnologia vengano viste in contrapposizione all’ambiente. E non è casuale che quanto più ci si avvicina a posizioni vicine all’ambientalismo più radicale tanto più aumenta la diffidenza nei confronti del digitale (diffidenza che è di 15 punti percentuali maggiore della media nelle persone che si dichiarano di visione “fortemente ambientalista”, pur non comprendendo appieno, nel 76% dei casi, cosa ciò voglia dire in realtà in termini di impatti economici e sociali). Eppure, nulla di cui ciò che chi si dichiara fortemente ambientalista dovrebbe puntare ad ottenere sarebbe possibile senza digitale: dalla transizione energetica, impensabile senza il ricorso a sistemi smart grid, all’economia circolare, che vede nella tecnologia digitale – tanto che si parli di piattaforme di intermediazione centralizzate che di sistemi distribuiti – un vero e proprio elemento abilitatore.
Conclusioni
La tecnologia non è né buona né cattiva, certo, lo ripetiamo come un mantra. Ma gli impatti della tecnologia sono tutt’altro che neutrali. Per questo dobbiamo guardare alla tecnologia mettendola in intrinseca relazione con la sostenibilità. E dobbiamo quindi concepire la sostenibilità digitale da una parte come il modo in cui le tecnologie digitali possono contribuire al perseguimento degli obiettivi di sostenibilità che occasioni come COP26 sono essenziali per definire e ribadire, dall’altra per utilizzare i criteri di sostenibilità come guida per contribuire a definire la direzione di quello sviluppo tecnologico a sua volta indispensabile per vincere la sfida della sostenibilità.