Il tema delle istanze online è solo apparentemente semplice e, d’altronde, assicurarsi che non vi siano ostacoli alla possibilità per un cittadino di presentare online ogni tipo di istanza esperibile per via cartacea all’Amministrazione costituisce l’essenza della trasformazione digitale.
Uno dei problemi che si affaccia sui tavoli degli studi legali e degli studiosi che si occupano dei temi della trasformazione digitale con sempre maggiore frequenza riguarda la configurazione legale dei servizi prestati dall’ampia categoria di soggetti privati che svolgono funzioni intermedie (o addirittura di intermediari) tra cittadino e pubblica amministrazione.
Si tratta di professionisti (commercialisti, notai, avvocati, consulenti del lavoro, ingegneri, architetti, geometri, medici, ecc.), enti privati ma regolati (CAF, patronati), società di servizi, associazioni, commercianti di particolari categorie di beni, e ancora altre categorie quali le scuole private.
Si tratta, insomma, di categorie commerciali, professionali, imprenditoriali e dell’associazionismo – anche sindacale – accomunate dalla necessità di intermediare la relazione dei propri utenti con i servizi della Pubblica Amministrazione.
Una situazione paradossale
In alcuni casi, ad esempio nel caso di CAF e patronati, ma anche di molti dei professionisti prima menzionati, si ha la necessità di raccogliere vere e proprie “istanze” verso l’Amministrazione, da gestire per conto del proprio cliente/utente/assistito.
Il problema è proprio questo ed è paradossale: normalmente, su queste pagine, si legge che mancano all’Amministrazione norme che consentono di utilizzare meccanismi digitali che per i privati sono ormai comuni; laddove un privato debba presentare una istanza a una P.A. per conto di un proprio cliente, accade invece l’esatto contrario: è il privato che non ha a disposizione i medesimi strumenti e facilitazioni normative di cui dispone l’Amministrazione, quando deve identificare un cittadino in via digitale e ricevere una istanza per via telematica.
Infatti, ci sono norme che “eliminano” ogni problema e rendono la vita semplice in materia di identificazione e firma, quando il cittadino comunica direttamente con l’Amministrazione, ma – per come sono strutturate – prevedono meccanismi che non operano se tra Amministrazione e utente si pone un intermediario privato.
Ora, alcune tipologie di professionisti (es. avvocati e commercialisti, ma non solo) sono stati dotati di norme “ad hoc” – tutte differenti tra categorie – per ovviare a tale problema. Ad esempio, l’avvocato può “provare” al Tribunale di aver identificato il proprio assistito apponendo la propria firma digitale alla copia pdf della procura firmata dal cliente e trasmessa per via telematica.
Il problema non ha mai però ricevuto una considerazione unitaria.
Non si è mai pensata una riforma del CAD, magari contenuta in qualche nuovo decreto semplificazioni, che “risolva” questo tema, magari consentendo al privato di utilizzare alcuni dei meccanismi semplificati che usa l’Amministrazione per farsi inviare istanze dai cittadini, quando si invia una istanza “conto terzi”.
Un esempio per comprendere il problema
Facciamo un esempio per capire il problema: Mario Rossi vuole chiedere all’INPS di riesaminare la propria posizione contributiva.
Se lo fa direttamente, può inviare una PEC, con allegata l’istanza e il proprio documento di identità come previsto dal Codice dell’Amministrazione Digitale, per il quale sono valide tutte le istanze inviate alla P.A. per via telematica purché sottoscritte dall’interessato ed accompagnate da copia del documento di identità.
Se vuole incaricare un CAF, un patronato, un commercialista, un consulente del lavoro o un avvocato, deve seguire, a seconda della figura prescelta, complesse procedure, tutte diverse.
Se poi, vuole dare l’incarico ai suddetti enti/professionisti per via telematica, le procedure possono addirittura essere inesistenti o estremamente complesse e tali, da prevedere, in genere e nella quasi totalità dei casi, la necessità per l’ente/professionista di identificare di persona il Sig. Rossi o di utilizzare, magari, SPID ma con pagamento delle “tariffe” fissate dall’Agid per l’utilizzo privato, nonostante si tratti di un utilizzo finalizzato a una richiesta del Sig. Rossi nei confronti della PA.
Se, poi, il suddetto ente o professionista (chiamiamolo, per semplicità “intermediario”) avesse la malaugurata idea di voler identificare il Signor Rossi tramite SPID, scoprirebbe di doversi accreditare presso Agid quale “service provider privato”, con tutte le complicazioni del caso, aderendo alla convenzione SP privati di Agid e di dover versare ai gestori dell’identità SPID un corrispettivo per ogni identificazione SPID effettuata, rendendo, il più delle volte, non percorribile l’operazione per la necessità di dotarsi – nella sostanza – di una struttura tecnica di gestione: di fatto, SPID, non è utilizzabile per il riconoscimento contestuale ma solo nell’ambito di un “servizio” formalmente registrato.
Problemi anche con la CIE
Non va meglio per la CIE, che – se utilizzata per la funzione d’identità elettronica e non come “carta di identità”, richiede anche un accreditamento come fornitore di servizi.
Originariamente tale procedura era incardinata presso il Ministero dell’Interno ma, a quanto si comprende, per comprensibili esigenze di coerenza normativa (una suddetta procedura di fatto, dal CAD, non è prevista) tale accreditamento dovrebbe in futuro essere trasferito ad Agid e ricevere una disciplina analoga a quella oggi vigente per SPID.
La soluzione degli “aggregatori”: i problemi
La soluzione sembrerebbe allora risiedere nell’esistenza di soggetti “aggregatori”, soggetti che, cioè, sono in grado di intermediare tra Agid e l’intermediario di cui dicevamo.
Il nostro professionista, ente o scuola, ecc. dovrebbe esternalizzare a un soggetto accreditato come aggregatore privato presso Agid l’attività di identificazione tramite SPID dei propri clienti e l’aggregatore si occupa di tutti gli aspetti tecnici ed amministrativi di gestione del rapporto con Agid.
Anche questo modello ha però problemi: il primo – notevole – è che Agid non ha ancora emanato la convenzione per aggregatori privati, attesa dal 2020 e non vi è dunque alcuna possibilità di accreditarsi come aggregatore privato; in secondo luogo, anche quando vi sarà tale possibilità, rimane il fatto che l’utilizzo di un aggregatore SPID (o CIE se vi saranno anche aggregatori CIE) presuppone un costo per i servizi dell’aggregatore e, ancora una volta, per l’uso dell’identità SPID (non è noto se vi sia anche per l’uso dell’identità CIE).
Immaginiamoci il CAF, il commercialista o il geometra che dice al Cliente che lo deve identificare con SPID e gli deve chiedere 1 euro o più per tale operazione… la criticità è abbastanza rilevante e, soprattutto, sembra ovvia l’obiezione del Cliente: “ma scusi: lo SPID non me lo chiede per mandare la dichiarazione/istanza allo Stato? Devo pagare per questo?”.
Dunque, esiste un primo problema, nel fatto che gli intermediari, secondo le regole attuali, sono costretti a pagare le identificazioni SPID, anche se fatte in relazione ad istanze/atti destinati ad essere inoltrati alla P.A., specie se con l’utilizzo di aggregatori.
Se, infatti, è comprensibile che i gestori dell’identità abbiano il (sacrosanto) diritto di richiedere un pagamento per l’uso della propria infrastruttura da parte di privati per le proprie attività privati, occorrerebbe una diversa regolamentazione dell’uso dei privati per intermediare servizi dello Stato o, quanto meno, una forma più lieve e forfettaria di tariffazione perché il cittadino-utente non accetterà mai di pagare un’operazione di identificazione che, se fatta direttamente, non ha alcun costo.
L’esito di questa riflessione potrebbe costituire un importante acceleratore della trasformazione digitale e agevolare lo sviluppo di importanti servizi di intermediazione, abilitatori della digitalizzazione di procedure, altrimenti costrette a rimanere cartacee.