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Crowdfunding: tutti i nodi di un sistema che non funziona

Quanti degli investitori delle piattaforme di crowdfunding investono su più di un progetto? Qual è la percentuale media che arriva dal network della piattaforma? Il racconto di due esperienze concrete, il ruolo del pre-committment

Pubblicato il 30 Dic 2021

Pierluigi Casolari

founder di Unconventional Road, autore di Startup 3.0, blog su startup, innovazione e web 3.0

crowdfunding

Cosa c’è di meglio di una piattaforma online dove puoi caricare la tua idea e raggiungere migliaia di investitori? La prima volta che ho fatto crowdfunding era il 2018. La seconda, il 2020. Di seguito com’è andata e perché c’è ancora molto da migliorare.

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Crowdfunding: quell’80/20 di cui non si parla

Nel 2018, per la prima esperienza di crowdfunding abbiamo scelto una delle piattaforme top five in Italia, partecipata dallo stesso acceleratore di startup di cui eravamo partecipati noi. Gioco fatto.

Ci sono stati un po’ di passaggi tecnici, in primis sullo statuto della società per l’adeguamento alla normativa Consob e la tutela degli investitori. Abbiamo preparato la documentazione, firmato il contratto e siamo andati online. Tutto sembrava veloce e promettente: migliaia di piccoli investitori facili da raggiungere e convincere, invece di decine di investitori difficili e irraggiungibili.

Anche noi del management abbiamo investito qualche migliaio di euro sulla campagna, per far capire ai finanziatori esterni la presenza di capitale, e abbiamo pagato il setup fee alla piattaforma in cambio della visibilità al network degli investitori.

La campagna aveva un obiettivo minimo di 100.000 euro: nel crowdfunding se la soglia minima di investimento non viene raggiunta, la campagna fallisce e la quota investita torna nei conti bancari degli investitori.

Dopo le prime due settimane, gli unici bonifici erano ancora solo i nostri. Dopo le altre due, sono arrivati da investitori della piattaforma 2-3.000 euro.

Molto preoccupati, ci siamo resi conto che la campagna rischiava di fallire e abbiamo iniziato a consultare potenziali investitori in modo tradizionale. Dopo decine di incontri, abbiamo trovato un investitore privato con ampie disponibilità che si è appassionato alla nostra idea e ha investito 100.000 euro. In extremis, sono arrivati negli ultimi giorni 10.000 euro da un investitore del network della piattaforma.

Alla fine, l’aumento di capitale si è concluso con successo. L’obiettivo minimo di 100.000 euro è stato superato: è stato possibile incassare i soldi e ripartire con il business.

Totalmente impreparati all’idea che la maggior parte del lavoro lo avremmo dovuto fare noi, ci siamo ritrovati con il dover pagare la commissione del 7% anche sugli investitori afferenti al nostro network, tra cui l’investitore dei 100.000 euro che ha salvato la campagna e che nemmeno sapeva cos’era il crowdfunding.

Tuttavia, felici di poter continuare a lavorare sul nostro progetto di business, non abbiamo pensato ai 7.500 euro di commissione da pagare per i 10.000 euro di investimento proveniente dal network della piattaforma.

Vista l’esperienza negativa, mi sono consultato con altri imprenditori e startupper che come me hanno provato la strada del crowdfunding. La maggior parte mi ha confermato che l’80% del capitale è sempre a carico della startup. Le piattaforme ti aiutano sul 20% mancante. In alcuni casi, questa percentuale può crescere al 30%.

I dati che mancano sugli investimenti

Ho quindi iniziato a ragionare sul modello di business di queste piattaforme. La startup recluta gli investitori, contattandoli e presentando loro il progetto su Linkedin. Gli investitori che si convincono ad investire, si iscrivono alla piattaforma e investono. Una volta che l’investitore è presente nel database, diventa un asset della piattaforma, e permette a questa di raccontare una storia irresistibile per un imprenditore: decine di migliaia di investitori iscritti al database che potrebbero investire nella tua startup.

La maggior parte però ha investito in un’unica startup, quella da cui sono stati contattati. E si comportano come la maggior parte degli utenti dei database: utenti passivi che raramente aprono persino le newsletter.

Per capire quali sono le vere potenzialità di queste piattaforme bisognerebbe chiedere: quanti dei “vostri investitori” investono su più di un progetto? E rispetto al totale degli investimenti che una startup raccoglie, qual è la percentuale media che arriva dal network pre-esistente della piattaforma?

Al cliente, che in questo caso è la startup, i dati reali sugli investitori non vengono forniti. Raramente vengono fornite informazioni sulle aperture delle newsletter, sugli investitori che hanno dimostrato interesse. Le piattaforme costruiscono un asset grazie alle startup che si prodigano per cercare gli investitori – che non arrivano dalla piattaforma. E queste allo stesso tempo sono così preoccupate e gelose di questo asset che forniscono pochissima reportistica alle stesse startup il cui lavoro accresce il valore delle piattaforme.

Crowdfunding: perché il pre-committment non basta

Ho riprovato con il crowdfunding nel 2020, con una piattaforma ancora più blasonata, che ha richiesto una documentazione preliminare estremamente dettagliata e puntigliosa.

Per tre settimane abbiamo lavorato instancabilmente: conto economico, previsioni patrimoniali, presentazione con un numero standard di slide, video intervista ai founder, il tutto realizzato con precisi requisiti.

Inizialmente la sensazione è stata molto positiva: abbiamo pensato che la puntigliosità nella preparazione dei materiali fosse segno di investitori attenti, rigorosi e attivi.

Inoltre, sulla scorta dell’esperienza precedente, in questa seconda occasione avevamo lavorato dietro le quinte per il pre-committment.

Il precommittment sostanzialmente coincide con la dote che la startup porta sulla piattaforma: sono gli investitori del proprio network che investono nei primi giorni della campagna o addirittura quando ancora la pagina della campagna è in modalità privata, in modo che il giorno del live, gli investitori del network della piattaforma vedano che la campagna è già quasi vicina al suo obiettivo minimo di raccolta.

Nonostante con il nostro pre-committment fossimo già al 60% dell’obiettivo minimo, dal network della piattaforma non è arrivato nulla.

A quel punto, noi soci abbiamo deciso di investire ulteriori risorse personali per arrivare all’80% del minimo di raccolta. E abbiamo iniziato ad esprimere forti dubbi. Non tanto per la mancanza di investitori. Non tanto per la banca blasonata sponsor e investitore della piattaforma che ci ha trasmesso l’ingenua idea di illimitati investitori. Ma per il tempo che ci è stato rubato per redigere una documentazione dettagliatissima, da realizzarsi esattamente come previsto da loro, ma rivelatasi totalmente inutile.

Alla fine, in extremis, sono arrivati 10.000 euro da canali interni della piattaforma e anche in questo caso abbiamo raggiunto la soglia minima. La campagna ha raccolto 60.000 euro, di cui l’80% è stata reperita e negoziata dalla società, il 20% dal network della piattaforma.

Il rammarico ha riguardato i quattro mesi di tempo dedicati ad un progetto enorme che ha generato un topolino e che avrebbero potuto essere serenamente trascorsi a occuparsi del business model, utilizzando quell’80% (ovvero 50.000 euro) che proveniva dalle nostre fonti interne.

Anche questa volta abbiamo discusso con la piattaforma per i fee che in base al contratto avrebbero dovuto essere pagati, sebbene in forma ridotta, anche per gli investitori del nostro network. La piattaforma ha rinunciato alla commissione sugli investitori portati da noi ma ha rimbalzato la nostra accusa di non avere un database attivo di investitori. Ci hanno fatto sapere che il nostro è un caso unico. E che normalmente le campagne vanno molto bene. Ovviamente.

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