Un grande deficit di innumerevoli opere, tra i tanti e i vari mezzi di espressione, che si prefiggono di descrivere Cosa nostra, è quello di dipingere la mafia assimilandola al gangsterismo, come fossero sinonimi: nella terminologia, nella forma e nella sostanza.
Spesso, infatti, involontariamente, mafiosi e gangster si confondono in un tutt’uno. L’incomprensione è data sovente non dall’ignoranza degli Autori ma dalla difficoltà fattuale nel porre a schermo le sfaccettature più minute del fenomeno mafioso. Si può laconicamente dire che il fondamentale discrimen risieda nel loro differente rapporto con l’ordine costituito, con il Potere legale.
Dio e mafia, il binomio (im)possibile diventa reale nel mondo dei videogame
La mafia è essa stessa composta (anche) dal Potere legale dell’organismo sociale, ha al suo interno membri di rilievo: per titoli istruttivi, censori e professionali; essa è inoltre connessa con gli altri ingranaggi dell’ordinamento non da un rapporto gerarchico bensì pari ordinato, orizzontalmente, di collegamenti intrecciatisi in intricate ragnatele, che veicolano e irretiscono conoscenze, favori e affari.
La mafia è ancestrale e fin dalla sua nascita intrinsecamente una criminalità anche da e di salotto: Cosa nostra nello specifico viene definita la prima mafia dapprima nobile e poi borghese, ovverosia appartenuta, fin dalla genesi, intranea alla classe dirigente di una data geografia (differentemente alla cosiddetta camorra napoletana, sorta ai margini delle città e dalla crema sociale, culturalmente povera e reietta di censo; un’ulteriore differenziazione storica tra i due associazionismi, inoltre, è che Cosa nostra fu in principio una malavita prettamente rurale, la camorra, d’altro canto, “metropolitana”).
Il gangsterismo, invece, è una pervicace forma delinquenziale sì organizzata ma proveniente dalla strada; nasce, si radica e prospera ai margini della società. Alla crème dell’alta società e della classe dirigente non vi arriva se non molto dopo, quando riesce a divenire tronfiamente ricco e a permettersi letteralmente e continuamente di poter “acquistare” il proprio posto nei circoli di alto lignaggio. Perché? In quanto il gangsterismo “conquista”, come i barbari, il suo posto al tavolo dell’imborghesita gente che conta, perché il gangsterismo sovente non possiede quell’alfabeto che gli permette di essere apertamente accolto dai white collar, pure nel momento in cui raggiunge il momentum di farvi plateale ingresso: l’esemplificazione massima è in altri termini fornita dal fu narcotrafficante colombiano per eccellenza, Pablo Escobar, che divenne persino parlamentare ma venendo sopportato (per il tanto necessario) e non naturalmente supportato (sino allo stremo) dalla classe dirigente.
In due righe, quindi: la mafia è fin dall’origine e per sempre una malapianta “innestata”, fin dalle radici, di persone appartenenti alla classe dirigente del Paese, è essa stessa, quota parte, società; il gangsterismo invece, nasce ai margini della società per poi eventualmente riscattarsi ex post, quasi sempre e solo tramite il timore che suscita. Per la mafia la violenza armata è accessoria, il suo potere di prevaricazione, infatti, si manifesta nei favori, nella corruzione, nel prestigio e nel potere di cui è promotrice e attrice. Il che non vuole dire che la mafia non faccia uso di strumenti traumatici, tutt’altro: ma per essa sono eventuali assi nella manica da esibire soltanto laddove non fosse fisiologicamente accettata dall’interlocutore cui si appropinqua.
È questa fine differenza che confonde i rappresentatori delle arti e che ammanta, bisogna ammetterlo, anche i capitoli della saga Mafia, compreso il capostipite di cui qui si discorre, ma ivi è contenuta comunque una forza descrittiva e narrativa in grado di poter fare soprassedere a questo qui pro quo, specificatamente se muniti, come si sarà con questa lettura, ora, della giusta chiave decrittatoria dei fatti sciorinati a schermo.
«Sono diventato un criminale perché non volevo essere una vittima» [Thomas Angelo]
Se la storia di Lincol Clay (Mafia III, 2016) è di una vendetta brutale e pure razziale, pura e semplice; se la vita di Vito Scaletta (Mafia II, 2010) è l’emblema del “riscatto” sociale e personale quale «Espressione del self made man e del coronamento dell’American Way of Life», per dirla con le parole di Lorena Rao, Autrice di Storia a stelle e pixel. Come il videogioco reinterpreta il Novecento americano (2019), quella, questa storia di Thomas (Tom alias Tommy) Angelo è la cronaca di un’ordinaria (perché possibile e probabile) caduta agli inferi di un uomo “normale”, che: pensa, agisce, sbaglia, vince e perde come uno straordinario essere qualunque ma comunque non comune che, tardi ma mai troppo, riscatta il sé Persona in quell’ultimo briciolo di umanità rimanente.
Tommy Angelo è l’unico protagonista non eroe e veterano di guerra della serie, se non per la personale battaglia che combatterà con sé stesso proprio durante quel decennio cui lo interpreteremo, durante tutti gli anni Trenta del XX secolo.
Prima “dell’inizio della fine”, la sua, infatti, risulta essere un’esistenza sbiadita come quella di altrettanti miliardi di individui nella Storia. Né più né meno; né un pregio né un difetto: semplice dato di fatto. Egli, infatti, è un taxista che tira a campare in un’America depressa fintantoché, un giorno, lo straordinario (ir)rompe l’ordinario.
Rumori secchi per quanto striduli e l’odore di pneumatici bruciati sull’asfalto notturno cittadino, infatti, squarciano il silenzio facendosi sempre più vicini fino a un fragoroso schianto.
Un crash cui seguono le urla di uomini; i passi pesanti ma fugaci, i respiri affannati e gli strepiti, tra spari e sgommate preludenti al sopraggiungere di due “soggettoni” ben vestiti per quanto ammaccati che, armi in mano, intimano all’Angelo col suo taxi, di partire a tavoletta e di seminare gli inseguitori che nel frattanto facevano piovere piombo rovente.
Frammisto tra il sequestro di persona, del “ma proprio a me?” e dall’eccitazione dovuta all’adrenalina di sopravvivere, Angelo s’improvvisa stuntman con una precipitosa fuga tra le strade di Lost Heaven, riuscendo infine e finalmente a seminare i sicari. Accompagnati i due “clienti” nel locus da loro “gentilmente” richiesto, questi lo ringraziano calorosamente: hanno salva la vita.
Si congedano così con tanti complimenti; un invito di incontro futuro e un credito di “favore” che Angelo, quando vorrà, potrà riscattare per il servizio reso. Infine, gli forniranno una bella bustarella per il disturbo: per starsene zitto e riparare il veicolo provato dall’incandescente pioggia abbattutasi poco prima.
Tutto è bene quel che finisce bene: la routine si ristabilisce e le settimane seguenti passano “come sempre”. Fintantoché durante un break lavorativo, Tom viene bruscamente interrotto dall’impatto di una mazza da baseball contro il parabrezza del taxi e un cazzotto in volto.
Gli allora inseguitori riuscirono a segnarsi la targa del mezzo datosi alla fuga ed eccoli, ora lì, a restituirgli il benservito. Con un po’ di fortuna, il riflesso tattico e uno sprint da leprotto, Angelo scappa a perdifiato raggiungendo il locale in cui ripiegarono proprio i suoi famigerati “clienti” dell’epoca, fortunosamente distante solo un paio di isolati dall’agguato punitivo.
Dall’apparenza di un bar-ristorante dai fumi italiani esso è in verità il centro nevralgico di una delle più influenti famiglie mafiose locali: quella retta da Ennio (Don) Salieri. Tommy, di necessità in virtù, riscuote il favore-credito vantato con i due “soggettoni” che ormai pare una polizza vita e così, per il rotto della cuffia, la scampa anche questa volta.
Orbene, proprio con quest’avvenimento, deciderà di dismettere le vesti di preda per assumere il ruolo di predatore. Dirà infatti a proposito di ciò: «Sono diventato un criminale perché non volevo essere una vittima». Thomas, pertanto, accetta la proposta presentatagli dal consesso Salieri. Un po’ come quegli istanti che valgono un’esistenza, Tom sale (cade? O viene spinto?) su un treno in corsa: quello dell’associazionismo mafioso. Un treno che non si sarebbe mai fermato. Se non con la morte.
Flashforward: nel 1938, molti anni dopo dall’affiliazione, Angelo è “costretto” a incontrare in un’anonima tavola calda il detective Norman della Lost Heaven Police Department, la polizia cittadina. Lì, inaugurerà il dialogo informale che lo porterà poi alla collaborazione con la giustizia, la prima in assoluto nella storia fittizia della città: è il tavolo da cui si giocherà la partita da cui dipenderanno le sorti sue personali e quelle di tutta la propria famiglia. Quella letterale, composta dalla moglie Sarah e dalla giovanissima figlia nonché quell’ “altra”, ossia quella da cui parrebbe impossibile uscirsene vivi: la Famiglia.
Mafia: Definitive Edition, la donna nella rappresentazione mafiosa del videogame
«Tutti sanno che puoi aiutarli ma anche che puoi rovinargli la vita» [Thomas Angelo]
Mafia, come Mafia II, ha un arco narrativo di circa un decennio, contrariamente alla cronistoria di Mafia III integralmente ambientata nel 1968.
L’immaginaria città di Lost Heaven cui è localizzato il videogioco, urbe di oltre 1 milione di abitanti, è liberamente ispirata dal combinato disposto delle metropoli di Chicago, New York e San Francisco. Essa è un agglomerato un tempo finanziariamente florido e socialmente spumeggiante: ora però provata dagli strascichi della crisi del 1929, quindi in repentino declino ma al suo interno mantenendo comunque un tessuto brulicante.
In essa l’ordine formale è garantito dalla fiscale polizia metropolitana (la classica incarnazione dell’iniqua entità forte con i deboli e debole con i forti) con una “partnership” anche criminale con le due famiglie malavitose spadroneggianti in città, quella dei Morello e quell’altra dei Salieri (qui, più che di “trattativa” Stato-mafia si può parlare di vera e propria pax): un tempo alleate in quanto appartenenti al medesimo ceppo criminale, hanno da lungo corso intrapreso una faida che sta accrescendo la sua virulenza sin quasi spaccare in due fazioni il tessuto cittadino e accartocciare la pacifica convivenza sociale e locale.
Il primo Mafia (2002) così come il suo rifacimento (2020), si diceva, sono contornati dal medesimo difetto nel confondere l’immaginario gangsterismo-mafia: nondimeno proprio l’originale risulta essere il videogioco sull’argomento dal peso specifico più importante prodotto, perché descrive anche i connotati del potere criminale con il Potere (legale).
L’effigie di questo ruolo è quella di Frank Colletti («Il mio braccio destro. Si occupa degli aspetti legali del nostro business», dirà di lui il boss Salieri). Frank è in assoluto il migliore amico del Don, egli è l’eminenza grigia della family: ha le mani pulite rispetto il puzzo rugginoso del sangue caldo delle vittime appena terminate nelle pubbliche vie non già perché sia un santo (o anche soltanto innocente: tutt’altro!) bensì in quanto egli è, “al massimo”, il mandante.
Ovverosia colui che ordina ma non agisce materialmente insozzandosi di tessuto organico, polvere, sudore e fetore. Mai. Perché le sue mani devono formalmente rimanere immacolate, impastandosi ovunque: in ciascun settore remunerativo della città (edilizia, ristorazione, albergazione, trasporti, etc.). Costui è la «mente raffinatissima» (espressione propriamente impiegata nella realtà dal già magistrato Giovanni Falcone nientemeno che nel giorno in cui fu costretto amaramente a commentare chi potesse aver ordito la sua morte nell’allora fallito attentato all’Addaura del 1989).
Colletti è la rappresentazione di chi è salito nella scala sociale per suoi propri meriti professionali, istruttivi e performativi; egli è l’uomo di fine pensiero che (sor)regge la prosperità del casato criminale. Colletti è l’iconografia del professionista presentabile: colui che studia gli investimenti strategici; il tale che prevede l’andamento di mercato nei cinque anni successivi; il PRO che diversifica il portafoglio; il dottore sedutosi nei board delle multinazionali o il lorsignore interloquente con l’Onorevole, per non dire l’onorato che diventa senatore.
Frank è quel personaggio svoltante il gioco. È l’anello essenziale, di congiunzione finora mancante nella descrizione di mafia videoludica, tra il “mondo del basso” (la manovalanza della violenza) e quello dell’“alt(r)o” (la testa). Il Colletti è l’archetipo di tutte quelle figure professionali interne o colluse (favoreggiamento aggravato o concorso esterno in associazione mafiosa) con la mafia che le hanno permesso di conferirgli quel pedigree criminale in grado di farla prosperare per 160 anni.
Perché? In quanto è lampante capire che con un miliardo di euro in contanti ottenuti con affari illeciti, non ci si può fare nulla fintantoché non siano riciclati. Ripulitura che, per cifre cotanto considerevoli e per processi di incameramento continui, è difficilissimo da ottenere se non per, appunto, sofisticati, capaci, e insospettabili colletti bianchi che, grazie le di loro conoscenze tecnico-finanziario-legali riescono a costruire scatole cinesi da cui è impossibile districarsi, persino per gli organismi internazionali e gli inquirenti che fanno questo di mestiere e di vocazione.
Assente quest’ingranaggio all’interno dell’architettura mafiosa, si ingolferebbe l’intera macchina criminosa: destabilizzandola sino all’implosione. Sono siffatte figure che producono lo spillover criminale dalla quisque de populo al più gangsterista, al rampollo mafioso. Addivenendo, la loro presenza, a un vero e proprio salto di specie: quanto più se, come Cosa nostra, fin dalla nascita i potenti sociali ne prevedevano la presenza (e quindi anche le entrature e i contatti professionali) fin dalla costituzione mafiosa.
Il vero e più importante discrimen che distingue la mafia da tutto il resto, quindi, è l’appartenenza nell’“onorata società”, da sempre e per sempre, di elementi della “bella società”.
Frank è molto importante anche ai fini narrativi perché mostra a Tom sì di vivere nell’agio ma come bestia assassina e che, insomma, avrebbe dovuto aspirare a evolversi nel mood esistenziale: non ritirandosi dalla Famiglia (non potrebbe) ma progredendo nella “carriera”. Cessando le vesti della base piramidale, quella armata di lupara e pigliante ordini non commentabili e solo eseguibili, per imborghesirsi, non solo nell’apparenza tramite il bel vestire, ma nella sostanza. Suggerendogli di investire il ricavato delle malefatte in attività professionalizzanti, dignitose, ad alto valore aggiunto, dall’acume imprenditoriale e da un rientro netto non solo remunerativo ma anche nobilitante socialmente.
In città nessuno, infatti, dubitava ormai su chi fosse Tommy Angelo e certamente chiunque, ora, lo rispettava: ma essendo, quell’ossequio, da intimoriti e non già di lusingati.
Ma soffermandosi un attimo propria sulla figura dell’Angelo in questo frangente: è verosimile che un tranquillo autista si sia trasformato in un sicario? La risposta a Tommy: «Non ho rimorsi. Volevano fregarci così noi dovevano fregare loro: nessuna scusante. Per me era la stessa cosa. Non mi importava del destino degli altri. Tutti dicevano che era solo una questione di affari e che la Famiglia teneva uniti. Era diverso che vivere da solo, senza nessuno che si cura di te. All’improvviso tutti quelli che incontri ti rispettano, tutti sanno che puoi aiutarli ma anche che puoi rovinargli la vita. Cercano tutti di entrare nelle tue grazie».
Tornando pertanto alla domanda e replicando in tre parole: sì, assolutamente sì.
In quest’interstizio Frank, comunque, ovviamente, non condannerà lo status di longa manus criminale: «Sai, anche i poliziotti uccidono in nome della legge. Tu difendi le nostre: è lo stesso, stiamo solo dall’altra parte della barricata». Orbene, qui è dipinta la doppia morale e il rigoroso ordine cui è sottesa la cultura mafiosa, del tutto imperniata da regole inflessibili: la mafia e Cosa nostra nello specifico, non sono in re ipsa l’antistato (a parte la parentesi corleonese dagli anni Ottanta alla metà dei Novanta del 1900), la mafia è un ordine fondato su un ordinamento e per questo tutt’altro che anarchica. Essa ha sue proprie “leggi” che prevedono persino la pena di morte dei trasgressori. Siffatta forma di criminalità inoltre non sovverte lo Stato (dirà Don Salieri: «Non pestare i piedi agli sbirri, noi li paghiamo») ma agisce per lo più parallelamente a esso (Frank asserirà in riferimento all’estorsione alias pizzo: «la gente ci paga [perché] riceve [da noi] dei servizi che la polizia non riesce a garantire»); altre volte, piegando (ma non strappando) le regole del sistema (ossia servendosi all’inverosimile delle norme, per esempio quando un mafioso è a processo appellandosi a ogni possibile artifizio legale pur di dilatare i tempi della giustizia).
Non è un caso che durante la commissione di una delicata missione di infiltrazione nella villa di un uomo di Stato, il boss Salieri espressamente ordina ad Angelo di non uccidere, per qualsiasi ragione, il proprietario, il procuratore. Perché?
Perché l’omicidio di un membro dello Stato e quanto più se apicale, i cosiddetti omicidi eccellenti, sono e rimangono un’eccezione (per quanto anche clamorosa e fragorosa), nella lunga storia mafia. In quanto provocano ondate di indignazione popolare e una risposta veemente delle pubbliche Autorità che intralcerebbero o smantellerebbero, in tutto o in parte, i redditizi traffici illegali. Sarebbe sempre meglio trovarvi un accordo o, perlomeno, una non interferenza pubblica e plateale, tra l’ordine costituito legale e quello illegale. Si pensi esemplificativamente che, realmente, tra il I e il II omicidio eccellente nella storia di mafia trascorsero oltre quindici anni e che, dal II al III, passarono più di cinquant’anni. Cinque decenni. Mezzo Secolo. Ah.
«Frank era l’unico vero amico del Don. L’amicizia non vale un cazzo» [Sam]
Il Colletti inferirà anche un argomento poi meglio sviscerato da Paul, l’amico fraternamente malavitoso di Tommy: la famiglia e la Famiglia.
In questo paragrafo, quella con la effe minuscola è quella di sangue, quella da cui si proviene biologicamente e si costruisce poi col focolare tra matrimonio e prole; l’altra è quella mafiosa. Ebbene, dicono i due, la famiglia non deve mai essere mischiata con la Famiglia. Quest’ultima verrà prima di tutto; inoltre, mai gli affari della Famiglia potranno coinvolgere la famiglia.
La donna, almeno tradizionalmente e per la maggiore, non deve essere edotta delle beghe di Famiglia: ella è e rimane la “classica” figura sacrificante tutta sé stessa per il bene della casa (figli, “maritino”, etc.). Qui emergerà anche un’altra delle regole ataviche di Cosa nostra (reale) poi platealmente “schernita” nel tempo: il non “toccare” né donne né bambini. Mantra di mero marketing, avendo Cosa nostra dimostrato non solo di eliminare le prime, ma persino di strangolare, sciogliere nell’acido e dematerializzare il corpo di piccoli indifesi come un quattordicenne, qual era Giuseppe Di Matteo. Correva l’anno 1996 e i boss ordinarono l’eliminazione dell’adolescente affinché il padre, Santino Di Matteo, si convincesse a non collaborare con la giustizia nell’ex post della strage di Capaci ove perirono gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani in protezione del magistrato Giovanni Falcone e della collega nonché propria moglie Francesca Morvillo, vittime di quella devastazione, esattamente trent’anni fa, il 23 maggio.
In uno scherzo del destino, però, durante il proscenio di trama, proprio Frank tradirà la Famiglia per la famiglia: in un frangente tesissimo, i Salieri subiranno l’offensiva militare dei Morello e la contemporanea e non casuale manovra a tenaglia degli investigatori.
È doveroso analizzare le condizioni fattuali per cui Colletti “abdica”. Nei giochi di potere di Lost Heaven, il nemico clan Morello riesce a coinvolgere alti esponenti della polizia affinché prelevino illegalmente moglie e figlia di Frank per sequestrarle e, se del caso, torturarle, al fine di ricattarlo acciocché consegni tutta la documentazione attinente agli affari del Salieri cosicché lo si potesse mettere definitivamente fuori gioco per le “buone” (ovverosia in galera e quindi evitando una dirompente guerra di mafia plateale).
Così, Frank, cedendo di schianto.
Le questioni, quindi, sarebbero due: il sentire la fine vicina (per sé e per i propri cari) e quindi buttarsi “pentito” per non morire e la “collaborazione”, folle, tra Stato e mafia.
Sono ambedue prospettazioni che, all’epoca, cioè dieci anni dopo la morte dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino potevano sembrare delle bazzecole di una mediocre trama videoludica ma che invece hanno poi interessato i due successivi decenni di indagini e processi italiani: dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina nel 1993 alla sfumata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995; dal depistaggio della strage Borsellino alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Processi quasi tutti risolti senza condanne (e cioè a dire con l’assoluzione degli imputati “eccellenti”), fuorché quello sul depistaggio di via D’Amelio, ma con anche importanti accertamenti da un punto di vista giuridico-fattuale e che, perlomeno, danno molta più consistenza intellettuale a quanto videogiocato nel 2002 rispetto a quello che poteva apparire allora: perché quella che all’epoca poteva sembrare una forzatura di sceneggiatura videoludica (nel “patto” tra i “buoni” e i “cattivi”) avrebbe interessato la vita giudiziaria di un Paese appartenente nientemeno che al G8, ovverosia una delle più importanti potenze mondiali.
Continuando col passaggio dal videogame al “game” reale propriamente detto, in riferimento al sentirsi braccato e in parte anche a un agire abusivo delle Forze dell’Ordine nella real life (quelle estere), si può parlare della prima storica collaborazione con la giustizia avutasi a Palermo negli anni Ottanta del XX secolo con Tommaso (don Masino) Buscetta. “Il boss dei due mondi” era pressoché un morto che camminava, braccato dai corleonesi (guerra mafiosa interna che gli costò la morte di undici parenti) e cercato dalla Polizia italiana nonché da quella brasiliana che finì per acciuffarlo. Dopo putative torture dell’autorità carioca (cui nulla c’entrarono le Autorità nostrane), tentò di ammazzarsi ma, sopravvissuto e privo di alternative nonché tornato in Italia e trovandosi dinanzi un letterale uomo di Stato quale fu Giovanni Falcone, collaborò con la giustizia contribuendo a portare, inedito, alla pubblica affermazione di Cosa nostra (si pensi che fin il giorno prima persino i giudici scrivevano che la mafia fosse un’invenzione dei media): con ciò cambiando per sempre la Storia dell’Italia.
Buscetta, comunque, non si “pentì” mai: morì con lo spirito del mafioso. Egli sempre, infatti, asseriva che a “tradire” l’“anima” di Cosa nostra fosse stata l’ala corleonese (i “ricottari” scesi dall’analfabeta alta montagna siciliana e spazzante via l’imborghesita e “composta” mafia palermitana), non lui, rappresentante di quella mafia “pulita” cittadina. In altri termini costui diventò un collaboratore di giustizia senza mai, mai, pentirsi di tutto quello che aveva commesso.
Tommaso Buscetta, quindi, collaborò perché vide pragmaticamente nello Stato l’unica entità che potesse garantirgli la vita: e così sarà, morendo molti anni dopo, di morte naturale, negli USA.
Concernendo l’altro aspetto certamente più scottante, si sappia che nel videogioco, Frank dopo aver ceduto alle pressioni del binomio mafia-“Stato”, si accinge alla fuga con moglie e figlia. Poco prima di espatriare viene però scovato dall’Angelo col mandato di eliminarlo. In un teso e intenso dialogo tra i due, questi rivela di voler trovare «Finalmente un po’ di pace»: che sia perenne o attraverso la creazione di un’altra identità altrove, non importa, purché la piccola e la moglie siano salve. Proprio qui, Colletti, infatti, “confesserà” di come la polizia lo stesse ricattando attraverso la minaccia di torture ed eliminazione delle “sue donne”. L’affermazione è clamorosa e pure Tom stenta a crederci: al giocatore difatti potrebbe apparire più come una trovata narrativa da Lost la serie tv, ma, così, amaramente, non sarebbe. Perché l’incredibile storia di mafia va oltre l’immaginazione.
Piegare per esigenze “proprie” la missione di servizio è uno dei crimini peggiori che un servitore dello Stato possa commettere: abusare del diritto, oltretutto per aiutare la mafia, è indegno. Ebbene, pure in tempi a noi prossimi (anni Novanta del XX secolo), parti dello Stato italiano, fisicamente e psicologicamente, torturarono persone innocenti per farle “confessare” crimini mai compiuti (sentenza definitivamente pronunciata nel 2021 dalla Corte Suprema di Cassazione sul cosiddetto processo Borsellino-quater). I cui effetti si ebbero anche con una revisione processuale all’esito della quale (2017) vennero liberati dopo circa due decenni di incarcerazione, persone condannate e in esecuzione di pena ma in verità assolutamente innocenti. Non è allora un caso che la sentenza di I grado sul cosiddetto processo Borsellino-quater ebbe a parlare del più grande depistaggio della storia del nostro Paese (expressis verbis: «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino [finto “pentito” anche indotto tramite sevizie; autoaccusatosi e poi condannato all’ergastolo, infine liberato] sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana [poste in essere da] soggetti inseriti negli apparati dello Stato»).
Da questo excursus emerge quanto in questo videogioco si tratti di finzione ma anche di come la realtà superi la fantasia. Soprattutto in terra di mafia.
Tommy, infine, risparmierà la vita inscenando la morte dell’amico Frank che scomparirà in Europa con la famiglia. Anni dopo, comunque, verrà ucciso dai Salieri che, avendo scoperto il tradimento dell’Angelo, decideranno di punirlo a sua volta.
L’“antifa”-(Fa)miglia dirompentemente intelletta da Roberto Saviano
In apparente (ma esclusivamente in liminare) contrasto con la visione di Famiglia e di famiglia estrinsecata da Frank Colletti, è stata la disruptive lettura dello scrittore Roberto Saviano, ossia uno degli intellettuali italiani tuttora viventi più importanti e influenti al mondo che, con i propri sempre interessanti per quanto pregni editoriali sulle pagine del Corriere della Sera, ebbe a commentare l’arresto della camorrista Maria Licciardi con queste inconsulte per quanto pesantissime parole rivolte all’“antifa”-(Fa)miglia: «Per Maria Licciardi la famiglia è la radice di ogni profitto, di ogni ricatto, di ogni guerra. Se non esistesse il concetto di famiglia non esisterebbero le organizzazioni criminali. La famiglia è innanzitutto organizzazione, è mutuo soccorso ma solo verso chi ha il «merito» di condividere lo stesso sangue. Il matrimonio è un patto economico tra gruppi. I figli sono protezione del patrimonio e eredità. Le amicizie sono momentanee e utili se arrecano vantaggio. Chi crede che questo sia solo un comportamento delle famiglie criminali non ha abbastanza studiato le famiglie del capitalismo contemporaneo, macchina di controllo e competizione, di accordo e feroce ricerca di profitto. La criminalità organizzata è soltanto capitalismo nudo, senza infingimenti, e il concetto di famiglia di Maria Licciardi non è il solito familismo amorale [tale dicitura venne per la prima volta coniata e utilizzata nel 1958 con l’uscita di The moral Basic of a Backward Society («Le basi morali di una società arretrata»), nel quale l’antropologo statunitense Edward C. Banfield analizzava i comportamenti e la cultura dei risiedenti in un paesino “sperduto” della Basilicata: Chiaromonte] quanto piuttosto la regola della concorrenza, della competizione, del colpire prima di essere colpiti, di trovare la strada per ricattare, comandare, arricchirsi. La famiglia che perdona e accoglie per poter essere non solo violenza ma anche garanzia di sicurezza e pace, perché è nella sicurezza e nella pace che crescono maggiori guadagni. Questo a’ piccerella l’ha sempre saputo. […] Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite. Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità Vi detesto, André Gide».
È forte il richiamo alla mente di siffatta asserzione a quella evinta nei romanzi del compianto Leonardo Sciascia quando fa dire a un personaggio, di come, il non rubare alla collettività, equivarrebbe al rubare alla propria famiglia (sì, colla effe minuscola).
«E allora? Questo è tutto?» [Detective Norman]
A un certo punto, l’amico Paulie e Angelo scoprono un giro di diamanti dal valore incalcolabile operato dal Salieri senza che ne fossero mai stati messi al corrente (peculiare è constatare che, forse più verosimilmente, nel remake del 2020 denominato Mafia: Definitive Edition il “giro” sarà di ben altra consistenza, passando dall’essere i diamanti la copertura della droga. Lo si rimembri: in un periodo in cui la mafia italiana la “rifuggiva”). Amareggiati e Angelo pure un po’ pizzicato da quella pulce nell’orecchio messa a suo tempo da Frank sul “salto di qualità”, capiscono indubitabilmente di essere mere pedine di un tavolo che non gli appartiene. Su idea di Pauile, pertanto, procedono a un colossale colpo in banca totalmente all’oscuro della famigghia (recte: Famiglia). Lo shot va a frutto ma in una città ormai a disposizione del Salieri la notizia filtra in un attimo: il Don fa ammazzare Paulie derubandolo di tutta la refurtiva, tendendo immediatamente dopo un’imboscata a Tom.
In un giro trasformatosi in girone di tradimenti, si scopre che l’altro fraterno compagno del duo, Sam, fosse l’artefice della vendetta voluta dal boss: con l’attuale responsabilità di uccidere Tommy.
In quei monologhi da “fine corsa” un po’ inverosimili e che contornano il brand (ma che se ben fatti, come questo, sono tranquillamente giustificabili), Sam, guardando in faccia Tom, è certo, uccidendolo, di onorare e non già di tradire il loro “sangue”: perché ad aver originalmente minato la fiducia della Famiglia sarebbe stato Angelo (e non lo stesso Sam, ora con l’ingrato onere di assassinarlo).
L’unica cosa che Sam gli concede, per quanto ironicamente, sono gli onori di sapere, se non altro, di quanto egli sia in grado pensare: perché Angelo avrebbe dovuto limitarsi nell’eseguire e non nel giudicare a chi poter o chi non poter togliere la vita, come invece fece per la prostituta Michelle («Non riuscivo a uccidere una ragazza, una piccola ingenua che voleva solo aiutare suo fratello, che forse era un vero bastardo. Ma vale la pena farsi uccidere per una cosa così?») e il caro vecchio Frank.
Quando Calò diede mandato di uccidere l’amico Buscetta con cui condivise la cella per anni
Non è nuova la realtà per cui, sovente, alcuni assassini interni a Cosa nostra siano avvenuti prima, durante o dopo importanti riunioni della consorteria o, addirittura, nel bel mezzo di convivi di, tra e con gli affiliati ovverosia tra e con amici.
Diverso ma non troppo nonché semplicemente iconico, di quando, per la prima volta, «don Masino» ebbe a tenere un confronto pubblico durante il Maxiprocesso a Cosa nostra (1986) con «don Pippo». Durante il “faccia a faccia”, infatti, a un tratto, il cosiddetto cassiere di Cosa nostra Giuseppe (Pippo) Calò, per screditare il “superteste” iniziò a discorrerei dei suoi travagliati trascorsi famigliari tirando in ballo anche l’amicizia che lo legava al fratello di Buscetta, con cui letteralmente condivise parte dell’esistenza all’interno del carcere vivendo nella medesima cella (tra l’altro asserendo: «quando è morto il fratello e il nipote [di Tommaso Buscetta], mi sono preso più dispiacere io che lui [Tommaso Buscetta] perché lui se ne stava in Brasile a godersi la vita»).
A quel rimembrare, il “pentito” eruttò: «L’unica verità che lui dice in quest’aula [di Tribunale] è che mio fratello aveva un’amicizia molto cara con lui [Pippo Calò]. Però lui sta dimenticando, in questo momento, di essersi seduto insieme a tutta la Commissione di Cosa nostra per decidere la [morte] di mio fratello e di mio nipote» (cosa che poi avvenne, tra gli altri, per ambedue).
Com’è che disse Sam a Thomas? «L’amicizia non vale un cazzo».
Miracolosamente (e poco verosimilmente) divincolatosi dagli scagnozzi di Sam, Tommy compie un’ultima, “salvifica” (per sé) apoteosi di sangue, prima di uccidere l’(ex) amico Sam.
A Thomas Angelo, rimasto solo e braccato dalla sua fu Famiglia, non resta altro che precipitosamente scappare dal paese con la propria famiglia, essendo ora una persona finita. Avendo letteralmente i giorni contati, dapprima tergiversa alla bell’e meglio, infine decide di affidarsi all’unica possibilità sensata ma non priva di incognite e pericoli: collaborare con la giustizia.
Si torna così a quel 1938 in cui il protagonista entra nella tavola calda per incontrare il detective Norman. Lì si principia letteralmente l’ultimo capitolo della sua vita come Thomas Angelo: con una protezione blindata da parte dei federali, il nostro sarà il grimaldello che scardinerà la famiglia Salieri per mano della Giustizia. Ottanta componenti del clan finiranno condannati, la minor pena inflitta sarà di otto anni; innumerevoli gli ergastoli e verrà persino irrogata la pena di morte. Lo stesso Angelo sconterà quasi dieci anni in una località protetta e segreta. Questo finale è, cambiate le cose che debbono cambiare, esattamente quello che accadde in Italia nel gennaio 1992: quando dopo anni di “Maxiprocesso” a Cosa nostra promosso dal cosiddetto pool antimafia (principiato da Rocco Chinnici, ereditato da Antonino Capponnetto e i cui componenti sono stati a vario titolo: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo Guarnotta, Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci; di questi, proprio in virtù del contrasto mafioso, persero la vita per mano violenta, peculiarmente per o a seguito di attentati dinamitardi: Rocco Chinnici nel 1983; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992) e grazie proprio, in primis, alle parole del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, vennero condannati centinaia di mafiosi, per la prima volta in assolto, a migliaia di anni di pena da scontare in carcere (lo stesso Buscetta visse in plurime località protette; sotto falso nome e nuove identità nonché ex post intervento chirurgico di plastica facciale trovando però una morte, differentemente dall’Angelo del videogame, di morte naturale).
Liberato, con un nuovo nome, un’identità in incognito e assieme la stessa sua amata moglie e figlia, il fu Angelo lo si sa sereno all’antipodo geografico di dove sempre aveva vissuto, ovverosia a Empire Bay (anch’essa città fittizia del videogame): con un’esistenza ricostruita in parvenze di assoluta normalità di un lavoro dignitoso com’era del resto fare l’autista, un po’ come nei tempi che furono e da cui tutto ebbe inizio. Fin quando, un dì, durante una bella e soleggiata giornata autunnale, l’ormai anziano protagonista di un titolo di opera artistica che non gli corrispondeva più, mentre innaffia il giardino della propria amorevole villetta, si sente denominare alle spalle.
Col suo nome. Quello vero.
Egli, sorpreso, si gira annuendo quasi in riflesso condizionato. Poi, poi il “battesimo” di lupara.
Thomas Angelo muore così, guardando il cielo terso mentre, come tutto iniziava, ora finiva: con l’odore di pneumatici bruciati dall’asfalto fischiante in sgommata dell’auto che (ri)parte. È l’ultimo viaggio.
Ogni collaboratore di giustizia finisce automaticamente nella lista nera di qualsiasi associazione mafiosa; spesso, con lui, pure tutta la sequela di parenti laddove non apertamente dissociatisi dal gesto con tanto di rinnegazione di sangue: dacché esista la legge che li prevede, è accaduto amaramente e davvero, di vederli ammazzati. Verosimilmente, uno dei più sorprendenti e recenti omicidi collaterali sarebbe pure avvenuto in latitudini insospettabili quando, Marcello Bruzzese quale fratello di un “pentito”, nel giorno di Natale del 2018 venne crivellato di colpi in un altrimenti serafico centro storico pesarese, in piena Italia centrale, presumibilmente assassinato da affiliati della ‘ndrangheta (proprio per una ritorsione di Famiglia).
Il videogioco termina così: con Angelo pancia all’aria sventrato dal colpo di grazia in pubblica piazza, con in sottofondo un ultimo, toccante per quanto profondamente vero monologo dello stesso Angelo che, forse, nonostante tutto e per tutto, davvero, dall’Angelo in terra trapassò in cielo…
«Sapete, il mondo non è governato da leggi scritte, ma dalle persone. Alcune seguono le leggi e altre no. Dipende da ciascun individuo come sarà il mondo, da come lo crea. E ci vuole anche un bel po’ di fortuna, per evitare che qualcuno ti renda la vita un inferno. Non è facile come ti insegnano alle elementari. Ma è giusto avere dei solidi valori e rispettarli. Nel matrimonio, nel crimine, in guerra, insomma sempre e dovunque. Io ho fallito. Come Paulie e Sam. Aspiravamo a una vita migliore, ma in fondo eravamo peggiori della maggior parte della gente. Sapete, credo che sia importante mantenere l’equilibrio. Già, l’equilibrio, è la parola giusta. Perché chi vuole troppo rischia di perdere assolutamente tutto. Certo, chi vuole troppo poco dalla vita, rischia di non ottenere assolutamente nulla» [Thomas Angelo].
Dalle ceneri della Fenice, per un avvenire di costruzione e di istruzione. Non distruzione
L’epilogo di Mafia: The City of Lost Heaven: tragico, memorabile ed emozionante è tale in quanto simboleggia il riscatto di una vita spesa col e nel crimine, per un’emenda di sé medesimo e, eventualmente, di un popolo.
Mafia: The City of Lost Heaven è il videogioco sull’associazionismo mafioso unico e insuperato, quello cui l’intrattenimento permette di riflettere anche sulla cultura. Mafia: The City of Lost Heaven è quella gemma, magari anche grezza (appunto: di vent’anni fa), che rispecchia lo stato dell’arte del medium e ne fa intuire le potenzialità. Anche di educazione.
Proprio oggi si festeggiano i cinquant’anni del media videogioco (il primo titolo videoludico mainstream mondiale fu Pong per l’Atari, rilasciato nel 1972) e chissà che, entro i prossimi cinquant’anni, non si possa parlare di una sua piena maturazione anche per la veicolazione valoriale contribuente finanche, quota parte, all’eradicazione della cultura mafiosa.
Perché Mafia: The City of Lost Heaven ebbe a uscire esattamente dieci anni esatti dopo il definitivo accertamento, per la prima volta nella Storia dello Stato italiano, dell’esistenza della mafia. Quella “vera” (e non quella che si “vagheggiava” solo in romanzi o lungometraggi), nella fattispecie Cosa nostra; perché Mafia: The City of Lost Heaven ebbe scritturato in sceneggiatura un fittizio che ha “anticipato” il “reale” nei due successivi decenni di processi, di cronaca e, in certa qual maniera, da quel momento in poi anche di Storia di questo Paese; perché Mafia: The City of Lost Heaven forse pure per eterogenesi dei fini, vent’anni dopo il suo giorno di uscita, è molto più di un videogioco inscritto negli archetipi del medium e del ricordo che, all’epoca, fu per chi ci aveva giocato (e checché ne avesse detto il PEGI: infatti si ricordi che è il brand Mafia è sempre e soltanto un videogame consigliato a un pubblico di adulti), in specie degli allora bimbi ora divenuti uomini e che, appunto, due decadi d’acqua sotto i ponti dopo, ne hanno fatto e ne stanno facendo oggetto di culto, di studio, di divulgazione e di cultura ben al di là dell’in medias res divertimento cui è principiatore e portatore il videogame del caso concreto.
Mafia: The City of Lost Heaven è letteralmente sopravvissuto ai suoi stessi creatori (lo studio di sviluppo ceco di Illusion Softworks poi divenuto 2K Czech espirò per fusione in Hangar 13 nel 2017) e alle logiche di mercato (che vorrebbero affossato il successo o l’insuccesso nonché il ricordo di un videogame, per lo più, entro un mese dalla release). Persino al suo stesso remake di due anni or sono: perché Mafia: Definitive Edition è un gioco profondamente rispettoso dell’originale per innumerevoli punti ma assolutamente diverso, narrativamente, per piccole e grandi differenze di storytelling che però ne restituiscono un mutamento di percezione considerevole. Soprattutto per questioni di mafia.
Quindi sì: al netto di una vetustà grafico-tecnica e di gameplay di Mafia: The City of Lost Heaven originariamente uscito su PC per poi approdare su PlayStation 2 e Xbox (2004), ancora oggi, è il titolo sulla mafiosità più importante mai realizzato cui caldamente si invita nel videogiocare. Per completarlo. Arrivando alla fine certamente essendo persone diverse e, ci si spinge a dire, potenzialmente migliori (se non altro perché incuriosite nell’approfondire) di quel che si fosse prima di principiarlo.
Il sottoscritto è tra l’altro pronto a scommettere già da ora che, presto o tardi, magari forse proprio con il giorno della cattura dell’“ultimo super-latitante” qual è Matteo Messina Denaro (tra l’altro pure grande appassionato di videogiochi), nel “covo”, assieme ai tradizionali cimeli, verrà trovata una copia, digitale o fisica, di un qualche videogame sulla mafia. E chissà che non sia proprio della saga di Mafia.
A conclusione, il perché di questo articolo, oltretutto con la splendida copertina del fotografo virtuale Pierfrancesco Olianas (si specifica che le immagini della predetta, per esigenze tecniche, sono tratte dal rinnovato Mafia: Definitive Edition): esso è un estratto aggiornato e rielaborato del capitolo La mafia nel nuovo medium: il videogame (2020) quale parte integrante del libro a firma del sottoscritto, Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente (2018). Dapprima steso in tempi non sospetti (2010/2011) ma che, dopo gli incontri sulla legalità realizzati nelle scuole (2018-), lo scrivente si convinse ancora di più, di come e di quanto, i mezzi tradizionalmente impiegati per parlare ai giovanissimi su queste tematiche necessitassero anche di una ri-mediazione. Perché, sovente, semplicemente, altrimenti, da loro non utilizzati e per costoro non ingaggianti nell’apprendimento o se non altro nel far scoccare quella scintilla curiosale facente tutta la differenza del mondo tra l’esserne informato e l’esserne consapevoli. Proprio quest’esigenza di narrare alle nuove generazioni su un tema imprescindibile com’è la lotta alla mafia e alla di sua cultura, mi avvicinò ragionatamente all’estrinsecazione mediata del videogame. Riconoscendo per questo e infine al medium la dignità che gli appartiene e impiegandolo per veicolare il più giusto significante in grado di spiegare finanche la complessità. Ne va del nostro futuro, perché «è molto più facile […] essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev’esser sempre» (Luigi Pirandello, Il piacere dell’onestà, 1917).