Il Piano Transizione 4.0 entra nel suo sesto anno di vita e, pur essendo il 2022 già “coperto” dalle misure esistenti, la Legge di bilancio anticipa la proroga del Piano Transizione 4.0 al periodo 2023-2025, dando quindi finalmente non soltanto continuità, ma anche stabilità e un orizzonte di medio termine a una misura che, a dire il vero, era nata con l’obiettivo di breve termine di dare uno “shock” positivo agli investimenti.
Nel corso del 2022 il Governo ha intenzione di aprire un tavolo di confronto con le imprese e non solo (ci auguriamo, magari, che venga ripreso lo spirito della cabina di regia allargata del primo Piano Industria 4.0) per capire come proseguire. Perché è evidente che l’attuale sistema dei crediti d’imposta con le merceologie elencate nei due allegati e le aliquote dimezzate non rappresenta il modo ottimale di investire i denari pubblici.
A supporto di questa tesi non ci sono comunque solo queste considerazioni sulla meccanica e l’appetibilità dell’incentivo, ma anche alcune necessità che sono emerse nel corso dei primi cinque anni del piano e che al momento non hanno trovato adeguata copertura nell’ambito delle politiche di incentivazione.
Transizione 4.0, la roadmap dagli albori a oggi
Presentato al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano il 21 settembre 2016, il piano Industria 4.0 è diventato operativo con la Legge di bilancio per il 2017 per poi essere confermato anno dopo anno con una serie di modifiche che hanno riguardato – oltre che il nome – anche il format degli incentivi. E così già dopo un anno il piano, nato per stimolare l’aggiornamento del parco macchine installato nelle industrie italiane sfruttando le potenzialità delle tecnologie abilitanti, aumentare la spesa privata in ricerca, sviluppo, creare competenze adeguate al nuovo contesto e stimolare il trasferimento di tecnologia a supporto della digitalizzazione del sistema produttivo italiano, cambiava pelle diventando Piano Impresa 4.0.
Un rebranding, questo, che mirava a due obiettivi: da una parte a estendere la portata delle agevolazioni dalla manifattura all’intero sistema imprenditoriale includendo tra i settori destinatari anche Agricoltura, Sanità, Turismo e Commercio; dall’altra a favorire una digitalizzazione dell’impresa nella sua interezza, piuttosto che del solo reparto produttivo.
A questi risultati si perveniva però solo in minima parte con l’adeguamento del dettato legislativo e di quelle merceologie elencate negli ormai famosi allegati A per i beni materiali e B per quelli immateriali. L’estensione della portata avveniva prevalentemente attraverso circolari e FAQ che, ridefinendo il concetto di “fabbrica”, favorivano l’estensione dell’ambito applicativo del Piano. Con la legge di bilancio per il 2020 il terzo cambio di passo, da Impresa 4.0 a Transizione 4.0. Stavolta il cambio è più netto e di natura anche tecnica: dal sistema della maggiorazione degli ammortamenti si passa ai crediti d’imposta con l’obiettivo dichiarato di estendere la base potenziale di aziende fruitrici; contemporaneamente si rivoluziona il credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo passando da un incentivo che premiava l’incremento della spesa a uno che premiava l’intera attività (se pur con aliquote evidentemente inferiori), aggiungendo inoltre uno specifico incentivo dedicato alle attività di innovazione e design.
L’anno successivo è quello in cui si possono iniziare a sfruttare le risorse del PNRR. Arriva così la conferma del piano Transizione 4.0 per il biennio 2021-2022 con un potenziamento delle aliquote per il primo anno e l’introduzione di un’agevolazione anche per l’acquisto di beni immateriali non 4.0. In assenza però delle risorse del PNRR (già sfruttate per il rinnovo del biennio 2021-2022) il piano viene stavolta finanziato con risorse interne, pagando un prezzo importante sul fronte dei benefici. Le aliquote infatti vengono sostanzialmente dimezzate sia per la parte relativa all’acquisto dei beni strumentali, sia per la parte relativa alle attività di ricerca, sviluppo, innovazione e design. Non vengono inoltre confermati né l’incentivo per l’acquisto dei beni strumentali tradizionali né quello per la cosiddetta formazione 4.0. Fin qui una necessaria, breve carrellata sui fatti, che rappresentano sempre una premessa fondamentale per l’analisi delle dinamiche di sviluppo futuro.
Una misura per il Paese e un messaggio per le imprese
Il primissimo punto saldo che possiamo fissare è questo: il piano Transizione 4.0 si è costantemente sviluppato, cambiando piano piano pelle, aggiornandosi nelle misure e negli strumenti, fino a trasformarsi da incentivo di breve termine in una misura quasi strutturale, che ha il compito non soltanto di guidare le aziende (non solo manifatturiere) sulla strada della trasformazione digitale, ma anche di rendere il Paese un luogo in cui convenga (tornare a) investire anche per le multinazionali, che negli ultimi anni hanno subito il fascino delle sirene di altri ordinamenti maggiormente attrattivi per ragioni che spaziano dalle infrastrutture alla fiscalità.
Il secondo punto è che la conferma del piano per il triennio 2023-2025 va letta più come un messaggio alle imprese che come un vero e proprio sistema puntuale di riferimento. Il messaggio è che il supporto agli investimenti privati innovativi proseguirà e che la misura di questo supporto non potrà essere della stessa misura che c’è stata nel biennio 2021-2022 grazie ai finanziamenti europei. Di conseguenza chi ha la possibilità di investire in questo 2022 ha ogni convenienza a farlo; viceversa, chi non è ancora pronto sappia che il 31/12/2022 ci sarà una riduzione dell’incentivo, ma non un salto nel vuoto.
Fatto salvo questo “messaggio”, il resto è tutto da vedere.
Le tecnologie di frontiera: blockchain e AI
Tra le necessità emerse e che non hanno ancora trovato copertura, la prima è l’evoluzione della blockchain e dell’intelligenza artificiale. Al momento in cui furono stilate gli elenchi delle tecnologie da incentivare – correva il mese di ottobre del 2016 – si trattava di tecnologie di frontiera su cui ancora non esistevano consolidate applicazioni in ambito industriale. In questi anni le cose sono cambiate. La blockchain è una tecnologia ormai matura che sta trovando impiego in settori diversi da quello delle criptovalute e della finanza: nella tracciabilità di filiera, per esempio, ma anche per i pagamenti digitali legati alla vendita dei servizi connessi al mondo machine-to-machine.
Quanto all’AI, l’Italia si è finalmente dotata di una strategia di sviluppo che si inserisce in un quadro europeo che, a breve, troverà espressione in un nuovo regolamento. Ricordiamo infatti che la scorsa primavera, ad aprile, sono state presentate sia una proposta di regolamento che sostituirà la direttiva macchine – dove trovano spazio anche considerazioni di sicurezza legate ai nuovi sistemi dotati appunto di “intelligenza” – sia una proposta di regolamento specifica sull’intelligenza artificiale che prevede obblighi, standard e… multe per un quadro normativo a prova di futuro.
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La transizione ecologica
Il secondo elemento di novità è legato all’ormai impellente necessità di sostenere, oltra alla transizione digitale, la transizione ecologica. Si tratta di due processi che, come è facile immaginare, hanno diversi punti di contatto e persino dei nessi di causa-effetto. Già nell’edizione 2020 del Piano Transizione 4.0 il legislatore ha provato a fare emergere le sinergie tra queste cosiddette twin revolutions, introducendo una premialità per quei progetti di innovazione tecnologica destinati “alla realizzazione di prodotti o processi di produzione nuovi o sostanzialmente migliorati per il raggiungimento di un obiettivo di transizione ecologica o di innovazione digitale 4.0”. Un buon inizio, ma – appunto – solo un inizio.
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E mentre nel caso delle tecnologie di frontiera un aggiornamento degli allegati A e B potrebbe ancora funzionare, per quanto non sia certamente la soluzione ottimale, è evidente che una sinergia tra i processi di innovazione digitale e la transizione ecologica non può che passare per un cambio di paradigma.
Dalla macchina alla filiera
Terzo fattore di novità è infine la volontà di aumentare il raggio di azione degli incentivi dal relativamente semplice aggiornamento dei macchinari e delle linee produttive alla digitalizzazione delle operazioni dell’intera fabbrica, fino ad arrivare alle relazioni di filiera. Quali sono dunque concretamente gli scenari che potrebbero aprirsi nel corso del 2022 per il rinnovamento del piano Transizione 4.0 per il periodo 2023-2025?
Transizione 4.0, le opportunità della discontinuità
Ci sono diverse possibilità allo studio. Una prima prevede l’abbandono definitivo del sistema di incentivazione basato sulle specifiche tecnologie elencate negli allegati in favore di un sistema che premi i risultati a prescindere dagli strumenti adottati. Ecco dunque che l’aggiornamento di una sala server con soluzioni energeticamente efficienti e in grado di dotare la fabbrica di maggiore “intelligenza”, attualmente escluso dal novero delle tecnologie agevolate dal piano Transizione 4.0, potrebbe invece rientrare nel nuovo sistema di incentivi. Anche l’evoluzione di una fabbrica verso modelli produttivi demand-oriented (e quindi a prova di sprechi), ma basati su una catena di fornitura diversificata, digitale e resiliente, potrebbe trovare adeguata incentivazione, a condizione magari di mantenere i livelli occupazionali.
Si tratterebbe però di un cambio di passo radicale che richiederebbe una discontinuità con il sistema attuale che proprio in questi ultimi anni le imprese hanno, non senza fatica, imparato a conoscere. Ecco quindi che appare più probabile una soluzione più soft, che mantiene in vita l’attuale sistema, magari rivedendo gli elenchi previsti negli allegati, andando ad affiancare dei novi strumenti a supporto dei processi di transizione più complessi.
La formazione
Un altro grande tema su cui c’è da aspettarsi delle novità importanti è quello della formazione. Per il 2022 resta in vigore il “vecchio” incentivo che prevede dei crediti d’imposta commisurati al costo orario dei dipendenti impiegati nella formazione. Va detto che si tratta di un’agevolazione che non ha mai fatto breccia nel cuore (e nel portafoglio) delle imprese: sin dal principio, infatti, il rapporto tra gli oneri a carico dell’impresa beneficiaria, soprattutto di natura burocratica, e il beneficio economico era poco favorevole. Nonostante in questi ultimi anni si sia effettivamente lavorato per migliorare il rapporto costi-benefici della misura, resta il fatto che probabilmente quello del credito d’imposta è uno strumento probabilmente inadeguato al compito di agevolare la formazione delle competenze su nuove tecnologie e processi di business.
Ma se lo strumento non è stato rifinanziato per il periodo a partire dal 2023, resta forte – anzi è cresciuta – l’esigenza a cui questa misura era chiamata a dare risposta. Lo testimonia, per esempio, il successo del Fondo Nuove Competenze gestito dall’Anpal, creato con il cosiddetto decreto Rilancio e poi rinnovato. La misura è estremamente semplice e prevede la possibilità per le aziende di ridurre l’orario lavorativo del personale per destinarlo a corsi di formazione per il miglioramento delle competenze. Una soluzione sfruttata da molte aziende che si sono trovate nella condizione di dover interrompere momentaneamente delle produzioni a causa dei problemi di approvvigionamento e che hanno quindi approfittato per indirizzare i lavoratori su percorsi di formazione su competenze che sarebbero tornate poi utili alla ripartenza.
Un altro esempio di soluzione che ha avuto successo è quello dei voucher per gli Innovation Manager: un sistema che, con tutti i limiti del caso, ha comunque consentito a molte imprese di avvalersi della consulenza di professionisti dell’innovazione per migliorare i propri processi. Da esempi di successo come questi e dall’azione dei fondi interprofessionali occorrerà ripartire per supportare ulteriormente le aziende e i lavoratori nel necessario processo di adeguamento delle competenze.