Non c’è nessun grande problema italiano a cui la digitalizzazione non possa essere di aiuto: la lotta alla corruzione, la sburocratizzazione, l’incertezza del diritto, la buona giustizia, l’evasione fiscale, la lentezza dei processi autorizzativi, la riforma della sanità, un welfare sostenibile, l’assistenza sanitaria capillare, la semplificazione, la delegificazione, la trasparenza e l’elenco potrebbe continuare.
Ma finché non si inizieranno a mettere a sistema in un quadro più ampio di una singola questione i problemi del Paese con le soluzioni che il digitale può dare, guardando con pragmatismo alle condizioni reali della digitalizzazione del Paese (digital divide culturale, infrastrutture, età media della popolazione, ecc.) la digitalizzazione rimarrà un corpo estraneo rispetto allo sviluppo dell’Italia e qualsiasi strategia non sarà che un velleitario desiderio appiccicato sotto l’albero per un Babbo Natale che non arriverà mai.
All’Italia manca ancora un’Agenda digitale nazionale: che fare
È bene precisare subito che non è mia intenzione aprire una discussione accademica su cosa sia una strategia in un articolo che vuol fare un bilancio e dare un po’ di prospettiva su un tema delicato e importante come l’Agenda digitale italiana.
Ma, a dieci anni dall’avvio dell’Agenda Digitale italiana, si può ben dire che qualunque fosse la reale strategia per la digitalizzazione dell’Italia – esplicita o implicita – non può che essere giudicata inadeguata per una delle maggiori economie del mondo. Proviamo allora a guardare il quadro più ampio.
L’avvio dell’agenda digitale italiana
La storia dell’Agenda Digitale italiana ha avuto ufficialmente inizio nel 2011, quasi dieci anni fa. Per la precisione, il 31 gennaio, quando con una pagina comprata a pagamento sul Corriere della Sera, un gruppo di manager, professionisti, accademici e dello spettacolo (tra cui il compianto Marco Zamperini, Stefano Quintarelli, Gianluca Dettori, Peter Kruger, Franco Bernabè, Paolo Bertoluzzo, Lorenzo Jovanotti, Luca De Biase, chi scrive e circa cento altri), chiedevano al Governo di allora di dare un’Agenda Digitale all’Italia, una strategia per la sua digitalizzazione. Perché non ne aveva nessuna, come autorevoli osservatori internazionali avevano fatto notare.
Di solito, gli appelli a pagamento sui giornali cadono nel vuoto e risuonano nel silenzio. Quella volta, invece, non fu così. La prima reazione positiva arrivò soltanto nove giorni dopo da Neelie Kroes, allora Commissaria per l’Agenda Digitale della Commissione Europea. Poi quelle della politica nazionale con Paolo Gentiloni, Pier Ferdinando Casini, Renato Brunetta. Quello stesso anno, nelle sue ultime considerazioni da Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi ricordava che la “produttività [italiana] ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione. Capirne le ragioni è stato l’obiettivo di molta parte della ricerca svolta in Banca d’Italia negli ultimi anni”. Poche settimane dopo, il Presidente dell’Agcom Corrado Calabrò nella sua relazione annuale alla Camera dei deputati chiedeva un’Agenda Digitale per il Paese mentre 34.000 cittadini avevano già sottoscritto l’appello sul Corriere della Sera e sia la Regione Lombardia sia il Comune di Milano se ne stavano dando una.
Passato ancora qualche mese, nel suo discorso di insediamento al Senato, il 17 novembre 2011, il neoincaricato presidente del Consiglio Mario Monti parla per la prima volta di Agenda Digitale, inserendola tra gli obiettivi del suo Governo, che pur partiva nella situazione più drammatica immaginabile per il Paese. La promessa fu mantenuta poco più tardi con il decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 – Misure urgenti per la crescita del Paese, che sanciva la nascita dell’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid). Era l’inizio di un percorso e di un nuovo tema di discussione che da allora in poi nessun governo avrebbe trascurato.
Molti obiettivi non fanno una strategia
Quella pagina a pagamento si intitolava: «Diamo una strategia digitale all’Italia». L’appello, ancora consultabile su agendadigitale.org, chiedeva di non perdere il treno del digitale, l’opportunità del progresso, la promessa del futuro. Da allora l’agenda digitale del Paese si è riempita, attraverso ben sei governi, di tanti argomenti (identità digitale, fatturazione elettronica, anagrafe unica, sistema di pagamenti unificato per la PA, linee guida dei siti web della PA, il cloud della PA, la rete unica o la non-unica rete, ecc.). Ma un elenco di obiettivi, anche se tutti condivisibili, non fa una strategia. Al più è un insieme di mosse tattiche.
Come diceva il generale George S. Patton, protagonista della Seconda Guerra Mondiale, le buone tattiche possono salvare anche la peggiore strategia, ma con sole tattiche si distruggerà anche la migliore strategia. Perché, come afferma Henry Mintzberg, uno dei più importanti studiosi di management di sempre, “la strategia non è la conseguenza della pianificazione, ma l’opposto: il suo punto di partenza”.
Intendiamoci, se si va sul sito dell’AGID, alla voce “Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione” vi è una sezione “Strategia e principi guida” che recita:
“La strategia [digitale italiana] è volta a:
- favorire lo sviluppo di una società digitale, dove i servizi mettono al centro i cittadini e le imprese, attraverso la digitalizzazione della pubblica amministrazione che costituisce il motore di sviluppo per tutto il Paese,
- promuovere lo sviluppo sostenibile, etico ed inclusivo, attraverso l’innovazione e la digitalizzazione al servizio delle persone, delle comunità e dei territori, nel rispetto della sostenibilità ambientale,
- contribuire alla diffusione delle nuove tecnologie digitali nel tessuto produttivo italiano, incentivando la standardizzazione, l’innovazione e la sperimentazione nell’ambito dei servizi pubblici”.
Ma “favorire, promuovere e contribuire” a “società digitale, sviluppo sostenibile e nuove tecnologie digitali” sono delle ottime intenzioni, al più degli ottimi obiettivi, certamente condivisibili, ma non una strategia. Anche i “principi guida” del piano sono altrettanto condivisibili (digital & mobile first per i servizi; accesso almeno tramite SPID; cloud first; servizi inclusivi e accessibili, interoperabili by design; sicurezza e privacy by design; user-centric, data driven e agile; once only per i dati dei cittadini; dati pubblici come bene comune; codice aperto). Comunque, non fanno una strategia.
Questo perché una strategia, anche in un’azienda, non necessariamente deve essere esplicita. Inoltre, perché questo non sarebbe certo il luogo più adatto e neanche questo il momento opportuno, date le circostanze drammatiche che la nostra società e il mondo intero stanno vivendo per la pandemia. Al contrario, è un auspicio per l’anno appena iniziato, perché l’Italia – a mio avviso – ne avrebbe bisogno, soprattutto alla luce delle enormi risorse che il PNRR ha finalmente dedicato alla digitalizzazione del Paese.
Tutti danno per scontato che digitalizzare l’Italia sia un obiettivo importante. Verissimo. D’altronde, basta guardarsi intorno per averne conferma. Ben otto delle prime dieci società al mondo per capitalizzazione di borsa sono tecnologiche. La singola cosa più importante per gli italiani durante la pandemia è stata proprio la tecnologia. Se guardiamo alla nostra vita di tutti i giorni, è sempre più dipendente dalla tecnologia. Poi, leggiamo l’indice DESI, elaborato e da poco pubblicato dalla Commissione Europea, che misura il livello di digitalizzazione dell’economia e della società, e constatiamo con desolazione che l’Italia rispetto al 2020 ha perso una posizione (da diciannovesima è diventata ventesima). E già in sé non è una buona notizia, anche se il metodo di calcolo è stato rivisto e c’erano già studi che prevedevano un netto miglioramento dell’indice alla luce del salto in termini di digitalizzazione fatto dal nostro Paese proprio durante – e a causa – del lockdown. Invece, la distanza dell’Italia dalla media degli altri paesi è notevolmente aumentata. Nel 2020 eravamo a una posizione distanza dalla media europea, quest’anno siamo a cinque posizioni.
Conclusioni
Non è un atto di accusa al Governo in carica, che ha in larghissima parte ereditato una situazione di fatto dal passato. E neanche all’Agid che, come Agenzia, ha avuto ed ha molti problemi, ma non ha autonomia nel fissarsi obiettivi, mezzi e strategie. È un atto di accusa all’intera classe politica che è per definizione l’unica detentrice legittima di quella visione a medio e lungo termine dell’evoluzione del Paese che è la base di partenza per la definizione di una strategia per il Paese, per la sua digitalizzazione come per la competitività.
“Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” diceva Seneca. E sembra la fotografia della politica italiana rispetto al digitale. Si accende con fiammate improvvise per questioni singole come il cloud computing di stato, il tracciamento dei contagi, la rete unica o gli incentivi alla digitalizzazione. Ma non fa mai neanche il tentativo di inserire anche solo parte di questi temi in un quadro più ampio che la gente, il mondo economico ma anche la stessa pubblica amministrazione sia in grado di comprendere e fare propri.