proposte di legge

Nuove regole big tech negli Usa: perché sarà una dura partita

Anche gli Usa si sono convinti che non sono più rinviabili azioni per bloccare lo strapotere delle big tech, sia per ridare alla politica il ruolo di guida dell’economia sia perché senza l’apertura di nuovi spazi di mercato l’occidente rischia di continuare a perdere terreno. Ma non sarà facile per i regolatori

Pubblicato il 04 Feb 2022

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

lobbying

L’approvazione in commissione giustizia del Senato Usa del “American Innovation and Choice Online Act” è un primo passo in avanti verso una regolamentazione più stringente delle Big Tech.

Tuttavia, la strada sarà irta di ostacoli di ogni tipo e i tempi sono limitatissimi, nelle elezioni di mid-term di novembre i democratici potrebbero perdere la già risicatissima maggioranza e allora il provvedimento sarà a rischio. Il provvedimento è frutto di una mediazione tra i due partiti ma le pressioni sui parlamentari sono fortissime.

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Gli obiettivi della proposta American Innovation and Choice Online Act

La proposta di legge mira a limitare lo strapotere delle piattaforme di promuovere prioritariamente i loro prodotti su quelli delle altre aziende, di creare vincoli che impediscono ad altre soluzioni concorrenti di essere presentate agli utenti (come sistemi di pagamento diversi e alternativi a quelli definiti dalle Big Tech).

Amazon, in questo senso, è un caso esemplare poiché da una parte è un intermediatore tra domanda e offerta, dall’altra è anche un player che vende i servizi di logistica per chi vende, propone e consiglia prodotti, determina i prezzi di chi compra e vende e ha una sempre più vasta offerta di prodotti di largo consumo a marchio Amazon che si pongono in concorrenza con i venditori. In particolare, attraverso l’uso dei dati che raccoglie sui profili di consumo, le preferenze dei consumatori e i movimenti contabili dei venditori è in grado di costruire offerte di prodotti e servizi estremamente concorrenziali anche individuando quali sono esattamente i prodotti più richiesti e quale è il prezzo al quale i clienti li trovano maggiormente convenienti. La piattaforma è anche un potente “consigliere di vendite” che invia offerte, riduce o aumenta i prezzi, promuove e consiglia prodotti sulla base delle analisi sui dati di consumo dei suoi membri. In questa attività viene accusata di promuovere i prodotti sponsorizzati, realizzati in proprio, dove trova maggiore convenienza.

Un problema simile esiste per Apple ma anche Google, Microsoft e Facebook non sono da meno.

Quanto vale (e quanto ci costa) il potere di influenza e controllo delle Big Tech sul mercato

Da diversi anni negli USA ma non solo, si sono levate voci critiche su questi comportamenti, e non solo su questi, ma le piattaforme continuano ad integrare verticalmente settori, a inglobare possibili concorrenti, a dominare e influenzare persino le università (che negli USA sono pressoché private). Questo potere di influenza e di controllo sul mercato aumenta il giro di affari che ormai ha raggiunto i 9 trilioni di dollari l’anno (9 mila miliardi).

Le aziende innovative più piccole chiedono insistentemente l’intervento dello Stato come regolatore del mercato, mentre voci critiche si levano anche sulla capacità delle Big Tech di garantire la supremazia nell’innovazione tecnologica USA.

Le big tech si difendono sostenendo che non sia possibile garantire al cliente i benefici a cui sono abituati cambiando le attuali modalità di operare. Apple, ad esempio, difende le politiche del suo store di applicazioni motivandola con la necessità di garantire sicurezza e affidabilità di chi vi partecipa o amazon rivendicando i benefici trasferiti al cliente.

Le difficoltà delle Authority di fronte ai nuovi monopoli

Le autorità di garanzia del mercato fanno fatica a controllare ed eventualmente perseguire le piattaforme digitali e le loro attività monopolistiche, questo perché la loro attività di intermediazione non agisce come in un normale monopolio e gli strumenti di analisi economica dei monopoli non riescono a rispondere a questo nuovo fenomeno.

Mentre un monopolista tradizionale vende un prodotto o un servizio al cliente e questo deve comprarlo, nel caso di queste piattaforme esse coinvolgono entrambe le parti (two side markets). I costi non si trasferiscono sul cliente ma anzi in molti casi vengono trasferiti sul venditore che paga per accedere alla piattaforma, per essere promosso, ecc. Il cliente in alcuni casi ha prodotti “gratuiti” anche se surrettiziamente sta vendendo i suoi dati, la sua privacy, si sta mettendo in una condizione di non poter scegliere. La percezione del cliente è quella che non ha costi ma solo benefici ma in realtà i costi si scaricano sia nell’offerta che nella domanda e il mercato perde i requisiti necessari per produrre effetti positivi per la collettività.

Mentre il monopolista classico ha dei costi per realizzare i prodotti che propone sul mercato, questo genere di monopolisti scaricano i costi sui produttori e massimizzano i profitti nella vendita. In un certo senso si potrebbe pensare che assomiglino alle proprietà immobiliari dei centri commerciali ma non è così in quanto quest’ultimi devono sottostare a regolamentazioni stringenti, limiti, rischi di mercato che le big tech non hanno.

Internet che è nata nell’idea della disintermediazione tra conoscenza e utenti, tra clienti e venditori, in uno spirito di condivisione e libertà è ora sempre di più fatta di pochi siti gatekeeper che aggregano la stragrande maggioranza dei flussi di contenuto e di intermediazione commerciale. L’analisi dei dati che solo loro possiedono permette a questi gatekeeper di muoversi con una quantità di informazioni infinitamente maggiori per le loro politiche commerciali costituendo una situazione di asimmetria informativa senza precedenti.

La tacita spartizione delle attività tra Big Tech

Infine, possiamo notare come tra big tech esista una tacita separazione delle attività prevalenti e in molti casi tra loro esiste uno scambio commerciale che rafforza il “fronte comune”. La sovrapposizione tra le attività delle big tech è ridotta al minimo: Google è concentrata sul motore di ricerca; Apple sul suo store; Amazon sulle vendite online; Facebook (Meta) sul social network; Microsoft sul settore business. Google, ad esempio, versa ogni anno 15 miliardi di dollari ad Apple per poter avere il suo motore di ricerca come motore di default nei dispositivi IOS, ad esempio, troviamo spesso la pubblicità di Amazon sulla piattaforma Facebook, etc.

Le big tech negli ultimi 15 anni hanno profondamente ridisegnato i mercati, hanno aumentato il loro potere e stanno determinando ciò che accade sul settore tecnologico ma non solo.

Amazon vince perché mette il cliente al centro. E se lo facesse anche la PA?

Le strategie delle Big Tech

Le strategie delle big tech per crescere sono state perseguite principalmente attraverso tre direzioni:

  • l’eliminazione per acquisizione di potenziali concorrenti (caso Instagram, whatsapp o waze, ma ce ne sono decine di altri);
  • una politica di annunci che mira a presentarsi come pilastri dell’innovazione tecnologica e della competitività degli USA su altri paesi (Cina in particolare) e che raccoglie la benevolenza della politica;
  • annunci che mirano a “spaventare” potenziali concorrenti nell’investire in settori dove le big tech dichiarano di essere disposti a mettere investimenti fuori portata per la gran parte degli altri operatori sul mercato.

Gli annunci roboanti andati a vuoto

Le voci critiche hanno rilevato come tuttavia molti degli annunci di superiorità tecnologica vanno regolarmente a vuoto. Tutti ricordiamo solo pochi anni fa come gli annunci sull’auto a guida autonoma presentavano una realtà prossima al verificarsi mentre oggi, dopo qualche anno, le stesse aziende hanno ridimensionato le proprie iniziative su questo settore. Uber ha recentemente venduto il ramo di azienda che si occupava di queste ricerche e anche Google ha ridimensionato gli obiettivi e i tempi di realizzazione. Nel frattempo, le azioni sono salite considerevolmente, sono stati raccolti investimenti, è stato consolidato il mercato togliendo di mezzo i piccoli potenziali concorrenti che avevano allo studio soluzioni.

Gli annunci sull’”imminente” computer quantistico ancora non vedono prodotti commerciali e nei giorni scorsi Facebook ha annunciato di voler investire in un computer super-potente mentre in sordina ha accantonato l’annuncio di Libra che aveva destato notevole interesse negli investitori. Certo per fare prodotti innovativi ci vuole tempo e capacità, non tutte le iniziative portano buoni frutti ma molte voci critiche fanno notare come la politica degli annunci sembra scollata dalla realtà e funzionale ad altri obiettivi.

Le maggiori innovazioni tecnologiche sono il frutto di iniziative di più di dieci anni fa, l’iPad di Apple rappresenta forse l’ultima iniziativa significativa di superiorità tecnologica che ha ridefinito il modo di utilizzare un computer.

L’intelligenza artificiale vede un travaso continuo di conoscenza dagli ambienti universitari alle big tech, sembra ancora diretta più dalla capacità di calcolo che da scoperte sconvolgenti (che pur non mancano in alcuni casi) e tuttavia la Cina sembra aver acquisito un vantaggio. È evidente a molti analisti che il modello unicamente privato di sviluppo tecnologico ha dei forti limiti. Senza prendere la Cina come modello (per tutta una serie di motivi che esulano le tecnologie) è evidente che la presenza dello “stato innovatore”, come direbbe Mariana Mazzucato, si sta dimostrando vincente per la capacità di direzionare le innovazioni e tenere attiva una competitività tra soluzioni e non solo finanziaria.

Gli “hype” generati dalle big tech hanno tenuto alta l’attenzione su di loro, hanno presentato soluzioni avveniristiche come concrete e alla portata di mano, molti annunci non hanno ripagato le aspettative. Poco male se poi non avessero utilizzato questi annunci per trovare sponda nella politica per affermarsi come lo strumento unico per mantenere la superiorità tecnologica verso i competitor della geopolitica. Ma anche questo non è avvenuto, oggi la Cina primeggia con gli Usa in molti settori di alta tecnologia e lo fa avendo bruciato meno investimenti. La pianificazione di Stato, pur nei suoi limiti, ha indirizzato gli sforzi, ridimensionato il flusso di denaro investito nel settore e prodotto risultati tangibili. Forse una riflessione è il momento di farla.

Parte dello “hype” generato dall’influenza delle big tech è anche propagandare come opzioni neutre delle iniziative che portano vantaggi a queste aziende, magari partendo da considerazioni condivisibili. Ad esempio, se pensiamo alla spinta verso il cloud e alla campagna di comunicazione in questo senso. Da una parte condivisibile poiché le nuove tecnologie infrastrutturali e applicative consentono di mettere in campo nuovi paradigmi funzionali alle nostre organizzazioni, dall’altra le tecnologie open vengono “riconfenzionate” dalle big tech e vendute come servizio proprietario. In questo modo i clienti potrebbero perdere competenze ed esporsi ad un lock-in tale che nei prossimi anni: qualora le big tech decidessero di incrementare i propri profitti aumentando i costi, poche organizzazioni saprebbero trasferire ciò che avranno messo in cloud in un’altra piattaforma. Mentre sarebbe saggio mantenere competenze elevate proprio sull’IT e le tecnologie (anche perché andiamo sempre più verso una società che ne dipende fortemente) molti clienti paiono scegliere strade apparentemente più semplici. Ma non è la strada scelta proprio dalle big tech che integrano verticalmente la tecnologia. Google è anche un provider di telecomunicazioni, anche le altre “sorelle” hanno la proprietà della rete, ad esempio, sviluppano il software interamente in casa o finanziano fondazioni no-profit che lo fanno affinché loro per prime lo utilizzino.

Le pressioni e le elargizioni delle Big Tech sulla politica

Dicevamo che il primo risultato in commissione giustizia al Senato degli USA non garantisce sul risultato finale. Tra le attività su cui maggiormente le big tech hanno investito c’è sicuramente quella di lobbying, con enormi budget messi in campo per influenzare le decisioni politiche.

Le attività di lobbying sono effettuate sia direttamente che indirettamente attraverso organizzazioni no-profit, che finanziano i maggiori partiti politici in campagne elettorali sempre più costose e singoli senatori o fondazioni politiche. Una situazione presente in modo rilevante in tutto l’occidente. Una attività lecita che negli USA è regolamentata e controllata.

Dal sito di opensecrets è possibile trovare traccia dei principali flussi finanziari in modo sistematico.

I finanziamenti attraverso “terze parti” (che su opensecrets vengono chiamati “dark money”) sono ingenti e non è possibile risalire a chi c’è dietro in modo evidente. Per avere una idea di come funziona il meccanismo, opensecrets presenta una infografica.

La dimensione economica di questi finanziamenti è ingentissima, sul sito sono riportare le cifre superiori ai 100 milioni di dollari per il 2020.

In queste cifre c’è tutto, dall’industria delle armi a quella del petrolio, le big tech rappresentano una parte non indifferente.

Se poi prendiamo l’intervento economico diretto delle big tech, per farsi un’idea basta scorrere i grafici qui sotto:

Figura Microsoft corp

Figura Facebook inc

Figura Apple inc

Figura Amazon inc

Figura Alphabet

Come si vede stiamo parlando di cifre notevoli che sono aumentate negli ultimi anni in concomitanza con la presentazione di proposte di legge di regolamentazione. Tra gli schieramenti finanziati il maggiore è quello democratico che vive diverse contraddizioni interne.

La situazione degli schieramenti politici è alquanto problematica. Mentre tra i repubblicani le leggi che limitano lo strapotere delle big tech sono spinte da una sorta di “vendetta” perché imputano ad esse le azioni per chiudere la voce alle voci pro Trump (pensiamo alla limitazione del social network di destra “Parler”) e in generale la loro azione per moderare le voci della destra USA, i democratici da una parte esprimono la consapevolezza della necessità di ripristinare le regole del mercato e dall’altra storicamente sono state le amministrazioni che più hanno aperto allo sviluppo delle piattaforme dall’amministrazione Clinton a quella Obama. In più Biden ha ricevuto ingenti finanziamenti durante la sua campagna elettorale proprio tra i “colletti bianchi” della Silicon Valley anche se, a ragion del vero, le posizioni di Biden sono molto chiare nella volontà di limitare lo strapotere delle big tech e il Partito Democratico in questi anni ha cambiato molto i suoi rappresentati e le sue posizioni. Qualche rappresentante parlamentare di maggioranza potrebbe tuttavia agire in modo diverso e questo sarebbe molto problematico per una compagine che ha una maggioranza molto risicata e i sondaggi in calo.

La cosa certa è che l’amministrazione Biden non ha molto tempo per portare avanti questo progetto e che molte delle iniziative di legge presentate negli ultimi anni contro le big tech sono state affossate.

Conclusioni

Ciò che accade negli USA è molto rilevante anche per il resto dei paesi occidentali, sia per l’influenza che gli USA hanno sulle politiche economiche e sulla geopolitica, sia perché le azioni di lobbying messe in atto nel parlamento europeo e nei paesi europei non sono di portata minore anche se non sempre vi sono i dati.

Dal punto di vista del mercato è ormai urgente che si prendano delle iniziative per bloccare lo strapotere delle big tech ed aprire l’innovazione. L’urgenza è dovuta non solo alla necessità di limitare i monopoli e riportare alla politica il compito di guidare e indirizzare in modo armonico l’economia garantendo il pieno sviluppo del mercato ma anche perché senza una nuova spinta innovativa e l’apertura di nuovi spazi di mercato gli USA (e l’occidente) rischiano di continuare a perdere terreno nella competizione internazionale e nel predominio della tecnologia.

In questo quadro il riassetto del mercato è una condizione necessaria per fronteggiare l’avanzata delle economie emergenti e in particolare della Cina. Non ci sono le condizioni politiche per applicare lo Sherman Act ma certo le condizioni del mercato richiamano alla mente ciò che è stato fatto nel secolo scorso come iniziativa anti-monopoli (bollata a suo tempo come “socialista” ma proposto dai repubblicani), in realtà questo provvedimento è stato un’importante pietra miliare del capitalismo e della sua capacità di rigenerare le migliori energie liberandole in un quadro governato ed equilibrato.

Interrompere la capacità di integrare verticalmente e orizzontalmente settori contigui potrebbe essere un modo per ridare nuova energia alla concorrenza. Sarà una partita lunga e si giocherà fino all’ultimo, forse non sarà l’amministrazione Biden a segnare il punto ma sembra proprio che la politica e un bel pezzo di mondo economico si è ormai resa conto che il laissez faire non è più sostenibile.

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