Negli ultimi mesi le condotte commerciali tenute da due dei più grossi colossi del mercato (Amazon e Google) sono state sanzionate per aver violato le disposizioni sulla concorrenza tramite abuso di posizione dominante ex articolo 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Bene la super sanzione ad Amazon, la politica ci salvi dagli squilibri Big Tech
Il 10 novembre 2021 il Tribunale dell’Unione europea ha rigettato il ricorso e confermato la decisione della Commissione [1] emessa nei confronti di Google LLC [2], secondo la quale Google Inc. e Alphabet Inc. (società controllante), avevano violato l’articolo 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e l’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio Economico Europeo in 13 paesi Stati membri dell’Unione europea o parti dell’accordo SEE.
Il 26 novembre 2011 la stessa Google ha ricevuto una sanzione di dieci milioni di euro da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per violazione del Codice del consumo (artt. 21, 22, 24 e 25).
Poco dopo, il 9 dicembre 2021, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha irrogato una sanzione di oltre 1 miliardo di euro alle società Amazon Europe Core S.à.r.l., Amazon Services Europe S.à r.l., Amazon EU S.à r.l., Amazon Italia Services S.r.l. e Amazon Italia Logistica S.r.l. sempre per violazione dell’art. 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Secondo l’Autorità, Amazon detiene una posizione di assoluta dominanza nel mercato italiano dei servizi di intermediazione su marketplace e tale posizione le ha consentito di favorire il proprio servizio di logistica, denominato Logistica di Amazon (Fulfillment by Amazon, c.d. “FBA”) presso i venditori attivi sulla piattaforma Amazon.it ai danni degli operatori concorrenti in tale mercato e di rafforzare la propria posizione dominante [3].
Successivamente, il 14 gennaio 2022, negli Stati Uniti d’America, 14 Stati guidati dal procuratore generale del Texas hanno intentato una causa contro Google LLC con accuse di monopolio e pratiche di esclusione concorrenziale nell’ambito della pubblicità programmatica [4].
Vediamo di che si tratta e cosa accomuna queste vicende.
Abuso di posizione dominante e concorrenza sleale: i recenti provvedimenti nei confronti di Google ed Amazon
La prima considerazione parte dall’analisi della normativa di riferimento: l’articolo 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea dispone che “È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo” [5].
La ratio della norma è quella di punire quelle pratiche che, a prescindere dall’intenzionalità, stravolgono l’equilibrio della concorrenza a vantaggio dell’impresa dominante che le compie, facendo in modo che la concorrenza non sia fondata sul merito e sulla qualità delle prestazioni ma sulla struttura dell’offerta in modo tale da compromettere la libertà d’azione dei consumatori. Le imprese dominanti, infatti, in virtù della posizione in cui si trovano, possono incidere negativamente sia sulle scelte dei concorrenti sia, di conseguenza, su quelle dei consumatori.
L’ordinamento europeo non considera la posizione dominante di una o più imprese come una situazione illecita in quanto tale. Il raggiungere grandi dimensioni ed agire su larga scala o in più mercati non distorce la concorrenza di per sé, al contrario risulta essere a favore dei consumatori poiché significa che il titolare di tale posizione offre qualità e/o prezzo dei prodotti che soddisfano maggiormente le loro esigenze rispetto a quanto offerto dalle aziende concorrenti.
Risulta invece vietato l’abuso di tale situazione di posizione dominante: è illecito il comportamento di un’azienda dominante che sfrutti il proprio potere economico in modo da impedire ai concorrenti di operare regolarmente sul mercato provocando di conseguenza anche un danno ai consumatori.
Le condotte Amazon
La (o una) posizione dominante consente all’impresa che la detiene di operare sul mercato in maniera indipendente rispetto a concorrenti, fornitori e consumatori e quindi di trovarsi in una condizione di netta superiorità rispetto alle aziende concorrenti dettando così essa stessa le regole di mercato, imponendo ad esempio alle altre aziende concorrenti un determinato prezzo e/o specifiche caratteristiche del prodotto o, come nel caso di Amazon, concedendo un insieme di vantaggi esclusivi e irreplicabili sul marketplace Amazon.it ai soli venditori terzi che utilizzino il servizio di logistica offerto da Amazon stessa, denominato Logistica di Amazon (Fulfillment by Amazon). E tale “concessione” ha provocato importanti limitazioni della concorrenza nel mercato ed ha portato alla sanzione in commento.
Secondo l’Autorità, infatti, “diversi indicatori, calcolati con i dati forniti da Amazon e dai suoi competitor, evidenziano l’esistenza di una posizione dominante in capo alla Società sul mercato italiano dei servizi di intermediazione su marketplace. A prescindere dalla misura utilizzata, infatti, si ottengono valori che non lasciano dubbi circa il potere di mercato estremamente significativo vantato da Amazon, al punto da poter configurare l’esistenza di una posizione di super dominanza”.
Il caso Google
Per quanto concerne Google, la Commissione prima e il Tribunale europeo dopo hanno evidenziato come questa Società facesse affidamento sulla sua posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generica per favorire il proprio servizio di shopping comparativo [6].
La seconda considerazione si basa su un elemento molto significativo che caratterizza la posizione dominante e cioè la disponibilità di un enorme patrimonio informativo sulla clientela costituito da dati personali, correnti e storici, scelte e abitudini dei propri utenti che queste Società possiedono.
Secondo l’Autorità antitrust e il Tar del Lazio, infatti, “il patrimonio informativo costituito dai dati degli utenti, nonché la profilazione degli utenti medesimi a uso commerciale e per finalità di marketing, acquista, un valore economico idoneo a configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il professionista e l’utente. Omettere di informare il consumatore del valore economico di cui la società beneficia in conseguenza della sua registrazione al social network, dunque, costituisce una pratica commerciale scorretta perché volta a trarre in inganno il consumatore e a impedire la formazione di una scelta consapevole” [7].
Abuso di posizione dominante e privacy. I casi Facebook, Telecom, Apple e Google.
In questo contesto, le due Autorità italiane di riferimento, il Garante della Privacy da una parte e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per la normativa anticoncorrenziale, sembrano attualmente andare su piani paralleli e ancora poco spesso hanno incrociato il loro cammino a livello decisionale, nonostante abbiano dato avvio il 30 maggio 2017 ad “un’indagine conoscitiva sui big data”, unitamente all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, volta ad approfondire la conoscenza degli effetti prodotti dal fenomeno dei Big Data e analizzarne le conseguenze in relazione all’attuale contesto economico politico-sociale e al quadro di regole in vigore, dando quindi conferma dell’interconnessione dei due diversi campi [8].
Una prima domanda potrebbe essere proprio quella se sia giusto associare i due cammini, che sembrano di fatto perseguire obiettivi così diversi.
Tuttavia, se il fine della legge anticoncorrenziale è quello di combattere gli abusi di potere per rafforzare un’economia di libero mercato, dall’altra non può certo negarsi che il trattamento di un numero esponenziale di dati possa contribuire al rafforzamento di una posizione dominante del mercato da parte di una azienda.
Come visto, non è un caso che le principali aziende con posizioni dominanti sui mercati di riferimento siano anche detentori di un gran numero di dati personali, ottenuti in prevalenza offrendo servizi gratuiti in cambio di conferimento di dati: pensiamo a Google, Facebook o Amazon, o ancora Apple e Microsoft.
Il fenomeno è ormai conosciuto: l’utente fruisce di un servizio e “in cambio” autorizza il trattamento dei dati personali, molto spesso senza alcuna consapevolezza sul tema. Questi dati iniziano ad essere oggetto di sfruttamento economico, la cui gestione può arrivare persino a predire i comportamenti dei propri utenti e raccogliere sempre più dati personali che sono infatti diventati un asset aziendale fondamentale su cui basare le attività di marketing, di vendita e in generale tutte quelle attività volte ad accrescere la propria immagine nel mercato.
Dati e posizione dominante
Se da una parte, come sopra precisato, non costituisce un illecito avere una posizione dominante sul mercato (è infatti l’abuso di posizione dominante ad esserlo), dall’altra si deve evidenziare che non necessariamente costituisce un illecito l’accumulo e l’utilizzo di dati laddove si rispettino i principi della normativa privacy.
Il punto però è che proprio la disponibilità di dati, dei big data, e degli algoritmi che li processano, ciò che principalmente potrebbe rendere possibile una posizione dominante sul mercato. Tali algoritmi sono infatti per esempio capaci di praticare prezzi discriminatori nei confronti dei consumatori finali, per esempio sulla base dei precedenti acquisti. Un importo, dunque, che per lo stesso prodotto potrebbe essere diverso tra singoli consumatori.
E allora è legittimo chiedersi in che punto due normative che perseguono obiettivi diversi possano interagire e convergere, potendo creare benessere nel mercato.
È infatti un dato di fatto che entrambe le normative di riferimento sopra citate affrontino la questione della circolazione dei dati personali nel mercato, ma mentre le norme in tema di concorrenza stabiliscono i confini oltre i quali si potrebbe avere un abuso di posizione, quelle in tema privacy i criteri per verificarne la legittimità, a prescindere dagli effetti sulla concorrenza.
Interconnessione privacy-antitrust: la pronuncia dell’Antitrust tedesco
Una delle prime pronunce in materia di interconnessione tra le due normative è stata quella dell’Antitrust tedesco (Bundeskartellamt), che ha imposto a Facebook severe restrizioni sulle pratiche con cui raccoglie ed elabora i dati dei suoi utenti. La decisione evidenziava che il consenso degli utenti all’utilizzo dei loro dati personali non costituiva una libera scelta in quanto preselezionato e subordinato alla iscrizione al social network. Inoltre, i dati degli utenti non riguardavano solamente quelli di Facebook ma anche quelli prodotti da attività di navigazione su altri siti.
Un primo ragionamento mosso dall’autorità tedesca ha avuto ad oggetto l’analisi della condotta secondo il rispetto dei principi europei in tema di protezione dei dati (Gdpr). Un secondo ragionamento invece ha comportato un’effettiva analisi delle pratiche effettuate da Facebook sotto il profilo della concorrenza.
Nello specifico, in relazione all’abuso di sfruttamento (elemento determinante per la violazione dei principi di concorrenza), la legislazione antitrust non ha più potuto trascurare il valore economico del dato, che diventa un vero e proprio corrispettivo anche se non monetario, con ciò considerando che anche le condizioni contrattuali inappropriate costituiscono un abuso di sfruttamento. L’elaborazione inappropriata dei dati e alla loro combinazione secondo il punto di vista dell’Autorità ha infatti consentito al Social Network di acquisire in modo illecito un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
La pronuncia è importante perché si è riconosciuto il “danno da violazione della privacy” connesso all’ abuso di posizione dominante. Inoltre, anche la circostanza della violazione di norme diverse da quelle relative alla concorrenza è stata determinante perché la stessa violazione ha di fatto contribuito ad ottenere un vantaggio competitivo che ha consentito all’impresa dominante di falsare la concorrenza, permettendo per esempio agli inserzionisti di sfruttare l’elevato grado di profilazione degli utenti del Social Network per proporre annunci a specifici gruppi di consumatori, con ciò danneggiando il mercato concorrenziale dei servizi pubblicitari online.
L sanzione Agcm a Facebook
Anche in Italia, come detto, l’Agcm ha sanzionato Facebook per il perpetrarsi di due pratiche commerciali scorrette, poste in essere nei confronti degli utenti italiani in violazione del Codice del consumo: in particolare quando Facebook – evidenziando la gratuità del servizio – aveva omesso di informare anche sulle finalità commerciali di utilizzo dei dati raccolti (pratica ingannevole), e quando Facebook aveva omesso di chiedere il consenso agli utenti per la trasmissione di quei dati dalla piattaforma social ai siti web/app di terzi, per finalità di profilazione e commerciali (pratica aggressiva).
Nel corso del procedimento, Facebook ha eccepito l’incompetenza dell’Agcm, rilevando che l’Autorità avesse agito “al di là delle proprie competenze nella misura in cui utilizza le norme a tutela del consumatore per analizzare condotte che dovrebbero essere valutate sulla base della normativa sulla privacy e sul trattamento dei dati personali”. Nel respingere l’eccezione, l’Agcm ha confermato la propria competenza ribadendo che «la circostanza che alle condotte della società [Facebook] sia applicabile la normativa sulla privacy, non la esonera dal rispettare le norme in materia di pratiche commerciali scorrette», laddove tra l’altro i dati degli utenti sono da considerarsi a tutti gli effetti “una controprestazione non pecuniaria”.
Anche il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla vicenda, affermando che le due normative sono complementari ed è importante garantire «tutele multilivello» che possano amplificare il livello di garanzia dei diritti delle persone fisiche, anche quando un diritto personalissimo sia «sfruttato» a fini commerciali, indipendentemente dalla volontà del soggetto.
Le decisioni Agcm vs Telecom, Agcm vs Google, e Agcm vs Apple
Altre tre decisioni molto importanti sono state quelle Agcm vs Telecom, Agcm vs Google, e Agcm vs Apple, in quanto il patrimonio informativo delle aziende appare essere stato determinante.
Per quanto riguarda Telecom, l’antitrust ha infatti ricordato che “il patrimonio informativo privilegiato detenuto da Telecom costituisce un vantaggio competitivo non eguagliabile dai concorrenti e potrebbe consentire alla società di costruire i profili dei clienti da recuperare proponendo loro offerte personalizzate” in quanto “se è legittimo anche per l’operatore dominante tentare di recuperare la clientela” tuttavia “ le offerte selettive possono costituire una forma di abuso di posizione dominante, con l’effetto di escludere i concorrenti”.
Per quanto riguarda invece Google e Apple, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel novembre 2021 ha sanzionato le due società per 10 milioni di Euro ciascuna aver posto in essere due pratiche che violano il Codice del Consumo: più precisamente per la mancata chiarezza delle informazioni, fornite in occasione della creazione dei relativi account, in merito alla raccolta dei dati dell’utente a fini commerciali e per la pre-impostazione, senza possibilità di scelta, del consenso alla raccolta dei dati personali a fini commerciali degli utenti.
Apple e Google hanno argomentato la propria difesa rilevando in primis l’incompetenza dell’Autorità nel caso in esame.
Anche in questi casi determinante è stata infatti la mancanza di un consenso “pieno ed informato” da parte degli utenti, in totale violazione dell’art. 7 del Gdpr, che ha poi portato a riconoscere le condotte come pratiche aggressive anche se – si legge nel provvedimento nei confronti di Google – “le contestazioni relative alle condotte di Google non riguardano il trattamento dei dati personali in senso generale, ma le pratiche ingannevoli e aggressive connesse al loro specifico utilizzo a fini commerciali, su cui esercita la propria competenza inequivocabile l’Agcm. Non sussiste, infatti, incompatibilità nell’applicazione delle due discipline”.
L’interdipendenza tra il diritto della concorrenza e il diritto sulla protezione dei dati
Chiaro, dunque, l’obiettivo perseguito dalle due Autorità: mentre la disciplina della privacy, affidata al Garante, tutela i dati personali laddove l’illegittimo uso possa compromettere diritti e le libertà fondamentali, il Codice del Consumo, in materia di pratiche commerciali scorrette, ha l’obiettivo di tutelare il consumatore da scelte economiche indotte da pratiche ingannevoli e aggressive.
La doppia prospettiva qui analizzata, della tutela del mercato e della tutela del diritto alla protezione dei dati personali, fa emergere dunque da una parte la doppia natura del dato personale, considerato bene di natura economica e altresì oggetto di un diritto fondamentale, dall’altra l’interdipendenza tra il diritto della concorrenza e il diritto sulla protezione dei dati nel momento in cui la violazione di quest’ultimo comporta un abuso di posizione che influenza sia le scelte degli interessati sia i rischi per i diritti e le libertà di questi ultimi.
Conclusioni
Possiamo pertanto ritenere che non sussista un conflitto tra le competenze delle due Autorità in quanto esse si integrano in maniera complementare: da una parte la normativa sulla privacy garantisce la protezione dei dati personali, definiti come informazioni relative ad una persona, allo scopo di tutelare uno dei diritti fondamentali della persona umana e spetta al Garante per la Protezione dei dati personali la competenza ad applicare le sanzioni per la violazione degli obblighi ivi previsti; dall’altra, la materia delle pratiche commerciali scorrette ha l’obiettivo di tutelare il consumatore da scelte economiche indotte da pratiche ingannevoli e aggressive e spetta all’Autorità antitrust occuparsene.
Il diritto alla privacy e la normativa antitrust (insieme a quella disciplinata dal Codice del consumo) hanno, dunque, un campo di applicazione differente e perseguono interessi distinti, ma si integrano in maniera del tutto complementare. Come abbiamo visto, anche la giustizia amministrativa si è espressa chiaramente in merito al rapporto tra le due discipline, precisando in particolare che: “A fronte della tutela del dato personale quale espressione di un diritto della personalità dell’individuo, e come tale soggetto a specifiche e non rinunciabili forme di protezione, quali il diritto di revoca del consenso, di accesso, rettifica, oblio, sussiste pure un diverso campo di protezione del dato stesso, inteso quale possibile oggetto di una compravendita, posta in essere sia tra gli operatori del mercato che tra questi e i soggetti interessati. Il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, impone agli operatori di rispettare, nelle relative transazioni commerciali, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore, che deve essere reso edotto dello scambio di prestazioni che è sotteso alla adesione ad un contratto per la fruizione di un servizio […] Deve anche escludersi che l’omessa informazione dello sfruttamento ai fini commerciali dei dati dell’utenza sia una questione interamente disciplinata e sanzionata nel “Regolamento privacy”. Come affermato dalla già citata sentenza del Consiglio di Stato [9], infatti, non esiste la sovrapponibilità del regime sanzionatorio tra i due settori, “avendo ad oggetto il primo la violazione delle regole di trattamento dei dati personali […] ed il secondo il condizionamento della consapevolezza dell’utente che per ottenere benefici illustrati come gratuiti deve cedere dati personali che non saranno utilizzati esclusivamente per ottenere i servizi ai quali aspira, ma costituiranno uno strumento di profilazione dell’utente a fini commerciali, in assenza di una adeguata e preventiva informazione del consumatore”.
Pertanto, continua il Consiglio, risulta infondata la questione di incompetenza dell’Autorità antitrust sollevata, in quanto le contestazioni relative alle condotte (in questo caso di Google) non riguardano il trattamento dei dati personali in senso generale, ma le pratiche ingannevoli e aggressive connesse al loro specifico utilizzo a fini commerciali, su cui esercita la propria competenza inequivocabile l’Agcm. Non sussiste, pertanto, incompatibilità nell’applicazione delle due discipline, né alcun contrasto tra la normativa nazionale ed europea in relazione al trattamento dei dati personali e le violazioni contestate dall’Autorità relativamente all’utilizzo dei dati dell’utente per fini commerciali.
Si può affermare dunque che, al posto di considerarle contrapposte, le due normative possano contribuire a portare maggiore trasparenza verso l’utenza, garantendo al contempo che quest’ultima riceva sempre un’adeguata informazione circa le finalità della raccolta e l’utilizzo dei propri dati e siano poi posti nella condizione di esercitare consapevolmente ed effettivamente le proprie scelte di consumo.
E ciò, a tutto vantaggio dell’utenza, nella doppia veste di consumatore ed interessato, e del mercato.
- Decisione C(2017) 4444 final. ↑
- Sentenza della Nona Sezione ampliata nella causa T‑612/17. ↑
- Cfr. provvedimento Autorità Garante della concorrenza e del mercato, 9 dicembre 2021. ↑
- Su questo si veda l’analisi approfondita di Barbara Calderini, https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/programmatic-advertising-cosi-google-e-facebook-manipolano-il-mercato-degli-annunci-elettronici/ ↑
- Il secondo comma dell’art. 102 prosegue con l’elencazione non esaustiva, come vedremo, di alcune tipologie di pratiche abusive che possono consistere:nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;
nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;
nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi. ↑
- “Tale conclusione – dice la Commissione – è basata sulle quote di mercato di Google, sull’esistenza di ostacoli all’espansione e all’ingresso nel mercato, sulla scarsa frequenza del «multihoming» (l’utilizzo contemporaneo di più piattaforme) da parte degli utenti, sull’esistenza di effetti prodotti dal marchio e sulla mancanza di contropotere da parte degli acquirenti”. ↑
- Cfr. provvedimento AGCM n. 27432 28 novembre 2018 e sentenza Tar Lazio 10 gennaio 2020 n. 260. ↑
- Indagine conoscitiva sui big data, Autorità garante della concorrenza e del mercato, 10 febbraio 2020. ↑
- Cfr. Tar Lazio, sentenza 10 gennaio 2020 n. 260 e Consiglio di Stato, sentenza 29 marzo 2021 n. 2631. ↑