il commento

Brunetta vuole una PA semplice, tipo Amazon? Ricette facili, difficili da applicare

Il ministro della PA Renato Brunetta è tornato sulla necessità di semplificare, di accelerare sui progetti (del PNRR) di interoperabilità dei database pubblici. A valle di una denuncia parlamentare. Brunetta immagina anche una PA come Amazon, “tracciabile”. Una ricetta c’è, anch’essa semplice, ma applicarla non lo è affatto

Pubblicato il 12 Mar 2022

Luigi Oliveri

Dirigente presso Veneto Lavoro

brunetta semplificazione amazon pa

Semplificare nella pubblica amministrazione non è impresa facile. Allo scopo occorre molta umiltà: quella necessaria per conoscere nel dettaglio il modo con cui si lavoro.

Semplificare subito, lo dice Brunetta. Sì, però…

Questa settimana il ministro della PA Renato Brunetta è tornato sulla necessità di semplificare, di accelerare sui progetti (del PNRR) di interoperabilità dei database pubblici, per consentire il rispetto del principio – già nelle leggi – dello once only; negli stessi giorni in cui la commissione vigilanza parlamentare ne denuncia la continua violazione da parte degli enti – nello specifico in ambito fiscale – appunto perché le banche date non si parlano, non c’è interoperabilità.

Brunetta anche invoca una PA che funzioni come Amazon, con processi tracciabili dal cittadino alla stregua di corrieri; con precisi e trasparenti responsabili di ogni pratica.

Gli enti pubblici non si parlano: vessati cittadini e imprese

Ma, si diceva e si perdoni il gioco di parole, semplificare non è semplice. Non è, conseguentemente, compito riservabile solo a docenti, analisti, ricercatori e consulenti. Una vera semplificazione richiede di rivolgersi anche ai “manovali”, coloro che ogni giorno svolgono concretamente le attività e si accorgono delle disfunzioni.

Pensare di risolvere tutto, quindi, con la bacchetta magica che divida per due i termini generali dei procedimenti (portandoli da 30 a 15 giorni, ma restando ferme tutte le altre migliaia di termini speciali fissati dalla legge) e ripetendo per l’ennesima tediosa volta che chi non rispetta i termini non ottiene incentivi, non porta da nessuna parte.

Capitanio: “La PA tradisce le leggi sullo once only, come risolvere”

Chi scrive sostiene da anni, da prima ancora che l’argomento divenisse oggetto di attenzione dei media perché trattato dal Ministro della PA, la necessità di tracciare l’attività amministrativa come un vettore postale fa con i pacchi o come un rivenditore on live fa coi propri prodotti. Dunque, non può che essere d’accordo con un Ministro intento a puntare su questo risultato.

Ritardi inevitabili

Tuttavia, non si può non rilevare che detto risultato, qualora giunga, subentrerà in forte ritardo, perché già previsto da anni da una serie di norme.

In ogni caso, il tracciamento dei procedimenti amministrativi incide positivamente molto di più sulla trasparenza che non sulla semplificazione.

Semplificare significa esclusivamente ridurre i termini di un problema, passare cioè da un postulato tipo:

{19 + [7·5 (4+5·2)·2]· (7·6-13·3)}: (3+15:3) =

fino al suo esito, passando per le progressive semplificazioni

= {19 + [35 (4+10)·2] · (42-39) }: (3+5) =

= {19 + [35 – 14·2] · 3}: 8 =

=(19+ [35- 28] · 3}: 8 =

= {19 + 7·3} : 8 =

= {19 +21}: 8 =

= 40:8 = 5

Anche se vediamo il tracciamento dell’iter, l’iter semplificato è il risultato della riduzione dei passaggi: si chiama “efficienza”.

Né è possibile pretendere che il tempo minimo necessario per affrontare un problema caratterizzato da troppi elementi (i procedimenti amministrativi sono troppo spesso caratterizzati dalla necessità di ottenere pareri da soggetti terzi, notificazioni a controinteressati, diritti di opposizione, richieste di intervento, sospensioni, interruzioni, pubblicazioni) si possa dimezzare per editto, senza avere analizzato minimamente le fasi, gli strumenti procedurali, le competenze, i carichi di lavoro.

Se è vero che nel 1990, quando con la legge sul procedimento amministrativo, la 241, si fissò senza alcuna analisi preventiva in termini generali un tempo di conclusione dei procedimenti in 30 giorni, ciò non giustifica l’intento di dimezzare tale termine, ripetendo l’errore di non analizzare input, output, modalità operative, numero degli addetti.

Un numero di giorni fissato in 30 o in 15, potrebbe risultare eccessivo o troppo breve in base ad una serie di variabili indefinita.

Tanto è vero che esistono migliaia di disposizioni normative che fissano per specifici procedimenti termini diversi dai 30 giorni.

Legge 241/1990

Proprio per questo motivo, il termine generale di 30 giorni è, in realtà residuale: cioè si applica quando altre disposizioni normative o regolamentari non fissino tempi di conclusione dei procedimenti diversi; per altro, quando ciò avviene, tali tempi diversi sono più lunghi e ciò è espressamente ammesso dalla legge 241/1990, il cui articolo 2 contiene i seguenti commi 2, 3 e 4:

2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni”; qui si pone il termine di 30 giorni come generale e residuale;

3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza”; qui si consente alle amministrazioni di fissare con propri regolamenti (la norma si applica anche a regioni ed enti locali, per effetto dell’articolo 29 della legge 241/1990) termini più ampi dei 90 giorni;

4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione”; infine, si permette in alcuni casi specifici di disporre termini fino a 180 giorni.

La complessità estrema da eliminare

Ancora, per semplificare, la prima cosa sarebbe cercare nelle norme gli elementi di complessità estrema: basti pensare alle 7 tipologie di conferenze di servizi, alle tre obbligatorie comunicazioni di avvio del procedimento nell’ambito dell’iter degli espropri, alla frammentazione estrema del procedimento di gara d’appalto e alla ripetitività multipla delle pubblicazioni richieste, alla follia delle procedure ambientali e paesaggistiche, ove concorrono decine di soggetti, ciascuno con tempi e modi propri. E, una volta individuati questi aspetti di complicazione, rimuoverli per ridurre appunto passaggi ed attività.

Ulteriore elemento: non vi è una regolazione chiara di quando e a che condizioni sia possibile sospendere i termini. Sul punto regna la confusione più totale, a partire dalla stessa legge 241 /1990. L’amministrazione chiamata a decidere ha bisogno di un parere consultivo? L’articolo 16, comma 1, della legge sul procedimento amministrativo stabilisce che l’ente da consultare deve rispondere entro 20 giorni dal ricevimento della richiesta. In un procedimento che duri 30 giorni, tuttavia, questo tempo è del tutto incongruente, perché eccesivo. Per altro, il comma 2 dell’articolo 16 dà facoltà all’ente chiamato ad esprimere il parere di non rispondere per nulla: in questo caso, allora, decorsi i 20 giorni, l’amministrazione procedente decide facendo a meno del parere. Ma sarebbe passato troppo tempo. La norma non parla assolutamente di poter sospendere il procedimento: logica vorrebbe che lo si sospendesse e, in effetti, molte amministrazioni di fatto così agiscono; oppure, allungano i termini oltre i 30 giorni, per includere nel lordo i 20 giorni “persi” per i pareri.

In effetti, il comma 4 dell’articolo 16 prevede che si possa invece interrompere il procedimento[1], ma solo nel caso in cui l’organo a cui sia stato richiesto il parere abbia ca sua volta chiesto maggiori elementi istruttori entro i 20 giorni a disposizione per rispondere; in questo caso, il parere deve essere reso definitivamente entro 15 dalla ricezione degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate.

E, se vi fosse bisogno di valutazioni tecniche? In questo caso è l’articolo 17 a parlare la lingua iniziatica del burocratese: “Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l’adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell’amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari”. Tradotto per gli umani: se una legge impone di acquisire valutazioni tecniche esterne da parte dell’amministrazione che deve chiudere il procedimento, l’ente chiamato ad effettuare la valutazione: a) può rispondere con le valutazioni richieste entro 90 giorni; b) oppure può chiedere valutazioni istruttorie, sempre entro 90 giorni; c) o, ancora, può non rispondere per nulla, nei detti 90 giorni. Nel secondo e terzo caso i tempi si allungano ancora (di quanto? Non si sa) perché l’amministrazione o invia approfondimenti istruttori, oppure si rivolge ad altri enti. Nel caso della richiesta di maggiori elementi istruttori, comunque, il termine si può interrompere, come visto prima per la richiesta di pareri.

Tuttavia, il comma 2 dell’articolo 17 ci ricorda che questa disciplina, che già può allungare i termini di 90 giorni – se va bene – non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini: in questo caso, si applicano solo i termini speciali e particolari, molto maggiori di quelli fin qui visti.

Infine, l’articolo 17-bis della legge 241/1990: esso regola l’ipotesi nella quale una PA può adottare un provvedimento solo dopo aver ottenuto l’assenso, il concerto o il nulla osta di un’altra PA. Quest’ultima PA, allora, deve comunicare il proprio assenso, concerto o nulla osta entro 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento; tale termine è interrotto qualora la PA che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta richieda approfondimenti istruttori o modifiche alla proposta di provvedimenti; la PA proponente, dunque, dovrà rispondere (ma la norma non dice entro quanto tempo) e la PA chiamata ad esprimere l’assenso, il concerto o il nulla osta si pronuncerà nei successivi 30 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento modificato.

Sembra a qualcuno che queste norme siano chiare, semplici, tali da poter far predeterminare con un minimo di attendibilità le durate effettive dei procedimenti?

È su norme di questo tipo, ma, a ben vedere, sull’intero sistema che si deve agire per semplificarlo: parlare solo di dimezzamento dei termini è solo parlare per slogan.

Lo strumento principale esiste già: è il silenzio-assenso. Tuttavia, attualmente esso vale solo per le procedure attivate su istanza, e con l’eccezione di quelle che le singole amministrazioni escludano dal meccanismo con propri provvedimenti: quindi, anche in questo caso regna l’incertezza.

Il silenzio assenso, regolato dall’articolo 20 della legge 241/1990, è lo strumento fondamentale per consentire ai privati di non subire conseguenze negative connesse all’inerzia della PA: infatti, esso consente comunque la costituzione, sia pure implicita, del provvedimento favorevole al cittadino.

Ovvio che il rischio insito a tale meccanismo è che i ritardi e la torpidità della PA possa favorire la creazione silenziosa di provvedimenti amministrativi illegittimi. Purtroppo, nella legge 241/1990, all’articolo 21-nonies, è stata inserita una norma deleteria, la cui esiziale conseguenza può proprio favorire il consolidamento di illegittimità anche plateali: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.

È pur vero che il cittadino deve poter contare sulla tempestività dell’azione amministrativa e considerare che il decorso del tempo implichi l’acquisizione definitiva di una propria posizione giuridica; ma se il provvedimento tacito si sia formato in modo da creare un vulnus permanente, non appare ammissibile limitare nel tempo un intervento in autotutela.

Poche mosse per semplificare

Una semplificazione radicale, quindi? Poche mosse:

  1. imporre alle PA di fissare tempi valutati in base a valutazioni su modalità di produzione che tengano conto di input ed output, quindi anche mutevoli a seconda del tipo di PA, delle competenze, dei dipendenti in servizio, purché i tempi siano certi: ai cittadini più che una PA supersonica, occorre certezza di quando si conclude un iter;
  2. stabilire in modo lineare se e quando, con elenchi tassativi, sia possibile sospendere o interrompere i procedimenti amministrativi e per quanto tempo, computando nei termini complessivi queste eventualità;
  3. prevedere una norma generalizzata di chiusura simile alla seguente: “qualora la PA competente non concluda il procedimento amministrativo entro il termine predeterminato dalla legge o dai propri atti regolamentari, si forma automaticamente e tacitamente per il soggetto interessato un provvedimento di contenuto favorevole. E’ fatto divieto a qualsiasi soggetto, pubblico o privato, condizionare proprie attività all’esibizione di documenti a comprova dell’avvenuto silenzio assenso: è onere di tali soggetti rivolgersi all’amministrazione che ha dato corso al silenzio assenso verificare la costituzione implicita del provvedimento. Laddove il silenzio assenso conduca alla formazione di provvedimenti illegittimi, in ogni tempo la pubblica amministrazione competente può adottare provvedimenti contrari in autotutela. Dell’eventuale danno, derivante in particolare dal decorso del tempo, subito dal privato che aveva fatto affidamento sull’inerzia della PA procedente, rispondono civilmente nei confronti del privato medesimo, amministratori e funzionari che all’epoca della formazione del silenzio, restarono inerti, anche se cessati dalla carica o dal servizio. Dell’illegittimità rilevata e rimediata con l’intervento in autotutela, gli attuali amministratori o funzionari danno notizia alla Corte dei conti”.

Comunque, pensare davvero che sia possibile semplificare in un Paese che solo pochi mesi fa ha adottato una norma che trasforma il silenzio assenso in una certificazione[2], non appare impresa realmente fattibile.

Note

[1] Purtroppo, occorre in modo pedante chiarire. Sospendere il procedimento significa bloccarlo ad una certa data e farlo riprendere da quella data. Esempio, se al 25° giorno di un procedimento che ne dura 30 si sospende per 10 giorni, trascorsi questi 10 giorni, il procedimento riprende dal 26° giorno (per un totale lordo di 40). Interrompere il procedimento, significa ripartire da zero. Se al 25° giorno di un procedimento che ne dura 30 il procedimento si interrompe per 10 giorni, riparte dal primo giorno, per un totale lordo di 65 giorni (25+10+30).

[2] Articolo 20, comma 2-bis, della legge 241/1990, come introdotto 62 del d.l. 77/2021, convertito in legge 108/2021: “Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l’attestazione è sostituita da una dichiarazione del privato ai sensi dell’art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.

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