Lo sforzo regolatorio e di controllo dell’Unione nell’ambito del Digital Services Act è notevole e da più parti ci si è domandati da dove verranno ricavati gli stanziamenti necessari a questa attività di monitoraggio costante.
La soluzione a cui sono arrivati gli organismi europei sembra sia tanto semplice quanto inedita: da notizie di stampa il DSA conterrebbe infatti una norma tesa a porre a carico delle grandi piattaforme tecnologiche una commissione dello 0,1% sul loro utile netto annuo al fine di coprire i costi di monitoraggio in capo al regolatore.
Ma di cosa si tratta, e chi dovrebbe pagare?
Cos’è il Digital Services Act
Il Digital Services Act (DSA) ha ottenuto il via libera del Parlamento europeo lo scorso 20 gennaio a larga maggioranza (530 voti favorevoli, 78 contrari e 80 astenuti), da allora si è aperta una fase di negoziazione a tre (il c.d. “Trilogo”) fra Commissione, Parlamento e Consiglio Europeo per arrivare al testo definitivo del trattato e che dovrebbe giungere a termine nel giro di un paio di mesi.
Il Digital Services Act è una proposta di regolamento rivolto alle grandi piattaforme online (la proposta di regolamento parla di “prestatori di servizi intermediari”) e mira a responsabilizzare i principali player del mercato (come ad esempio Google, Apple, Facebook, Amazon) con riguardo ai contenuti che questi veicolano online.
In un mondo dove la “porzione” della nostra identità residente online è sempre più ampia, è infatti essenziale il diritto a essere rappresentati correttamente e a eliminare i contenuti falsi o illeciti.
Il Regolamento si propone di rendere più facile e immediata questa attività di controllo dei nostri dati online, prevedendo canali di contatto efficienti e tempestivi fra utenti e/o autorità e i prestatori di servizi intermediari.
Inoltre vengono approntate norme più incisive sulla trasparenza degli algoritmi, sui meccanismi di consenso all’advertising mirato e consente l’adozione di appositi “protocolli di crisi” da parte della Commissione UE per affrontare situazioni di crisi strettamente limitate a circostanze straordinarie “che incidono sulla sicurezza pubblica o sulla salute pubblica” (la norma nasce, è evidente, nel contesto della pandemia COVID, ma se ne è discussa – opportunamente – l’estensione ad altri ambiti per evitare che la disciplina finisca per limitare l’attività della Commissione in materia di emergenza di tipo diverso da quella sanitaria, invece di ampliarla come nelle intenzioni del legislatore).
La “commissione” dello 0,1%
A pagare per l’attività degli enti dell’Unione in tema di DSA saranno quindi le stesse Big Tech da sottoporre a controllo.
Se la notizia venisse confermata (per ora ne riferisce Reuters il cui corrispondente afferma di aver visionato un documento UE che conterrebbe la nuova norma) si tratterebbe di una tassa “ad personam” con pochi precedenti nella normativa comunitaria (ad esempio nel settore delle telecomunicazioni ed in quello della vigilanza bancaria).
Ovviamente il tributo verrebbe richiesto solamente a quelle aziende che operano con finalità di lucro (quindi ad esempio verrebbero escluse realtà come Wikipedia) e pare verosimile una “soglia” sotto la quale l’imposta non sarà dovuta (viste le varie misure a tutela delle PMI contenute nel DSA).
Non è poi chiaro a cosa farebbe riferimento il documento quando parla di utile netto annuo, se stiamo parlando di utile netto globale annuo è evidente che l’imposizione rischierebbe di essere del tutto sproporzionata per aziende che hanno solo una piccola fetta dei loro affari in Europa, se invece si parla di utile netto annuo maturato in Unione Europea è altrettanto evidente come una Big Tech al di fuori dell’Unione potrebbe agevolmente “nascondere” parte degli utili generati, magari indirettamente, da utenti UE agli organismi dell’Unione deputati all’individuazione della misura della tassa.
Stando alle informazioni raccolte da Reuters, l’Unione sembra indirizzata verso un’imposizione calcolata su diversi elementi, da un lato l’utile, ma dall’altro la base di utenti nell’Unione, permettendo così di evitare distorsioni.
Rimangono numerose incognite all’orizzonte, anche perché non è detto che la proposta approdi nel testo definitivo del DSA, né che le big tech accettino supinamente l’imposizione del tributo, rinunciando ad impugnare una norma che in effetti fatica a conciliarsi con alcuni principi impositivi comunitari.
Le prospettive
Quel che è certo è che l’Unione Europea da tempo contrasta il modello di business di queste grandi aziende, cercando di regolare il mercato sia dal punto di vista della tutela dei dati personali dei cittadini UE, sia dal punto di vista antitrust.
In questo contesto, ricorrere a una tassa sembra voler dire ammettere una sconfitta, riconoscendo che gli strumenti utilizzati sinora per contrastare lo strapotere delle big tech non hanno portato ai risultati sperati, tanto da dover irrobustire l’intervento regolatorio al punto di necessitare un contributo.
Se la prospettiva di un’imposizione fiscale direttamente correlata a un “servizio” è senz’altro da accogliere con interesse, trattandosi di un meccanismo regolatorio per certi versi innovativo e certo efficace in termini di politica economica, è anche vero che si parla di una imposizione molto delicata da normare e gestire, specie perché il mercato digitale si presta a evoluzioni anomale in termini di e una simile imposizione (specie per le difficoltà dovute al “documentarne” la misura) potrebbe contribuire a spingere player extra-UE portatori di servizi di sicuro interesse per i cittadini comunitari a rinunciare al nostro mercato (pensiamo ad esempio a motori di ricerca for-profit ma privacy-oriented che dovrebbero comunque scontare l’imposizione e potrebbero faticare a rendicontare agli organismi dell’Unione i loro utili netti e/o i numeri dei loro utenti UE).
Le autorità europee poi possono ora contare su un esteso consenso a livello comunitario rispetto a questa normativa solamente perché i soggetti gravati dall’imposta saranno soprattutto player stranieri (leggasi statunitensi), ma è evidente che la situazione sarebbe destinata a cambiare nel caso in cui fossero dei prestatori di servizi europei a dover scontare questa imposizione.
In un’ottica di auspicabile crescita di questa concorrenza UE nei confronti delle Big Tech USA è evidente che la tassazione contenuta nel DSA potrebbe inoltre frenare questo sviluppo del mercato tecnologico interno, invece che favorirlo.