Ha provato a impedirlo in tutti i modi, ancora una volta, comportandosi come un vecchio padrone del vapore. Non poteva accettare che il suo potere assoluto, personale e aziendale – sul lavoro e sulla vita dei suoi dipendenti – potesse essere messo in discussione – per non parlare di democrazia, qualcosa di totalmente alieno alla sua egocrazia.
Da perfetto figlio della way of life americana, evoluzione della vecchia logica del Far West, chiama libertà – il rapporto diretto tra la sua azienda e ogni singolo lavoratore – ciò che non lo è, perché si chiama in realtà (ed è una tecnica di esercizio del potere vecchia come il mondo) divide (i lavoratori) et impera (su di loro). Ha provato a impedirlo, ma alla fine ha dovuto cedere, anche se la storia infinita della guerra del capitale e del capitalismo contro i diritti dei lavoratori continuerà (“cercheremo di far invalidare il voto”). Stiamo parlando dell’oligarca Jeff Bezos e della sua Amazon e dei dipendenti di un magazzino di New York che sono riusciti a costituire un loro sindacato.
Sindacato è bello
La notizia non è recentissima, ma merita qualche ulteriore approfondimento. I fatti: due anni fa un dipendente del magazzino Amazon di Staten Island, a New York – il suo nome è Christian Smalls – aveva organizzato una protesta per chiedere migliori condizioni di lavoro durante il picco della pandemia da Covid-19. Una richiesta minima, elementare, esercitando un diritto che sarebbe normale in un paese liberale e democratico, come gli Usa dicono di essere.
Per tutta risposta, Amazon lo aveva licenziato, non ammettendo appunto che i lavoratori esercitassero democraticamente quel contropotere e quel bilanciamento dei poteri che dovrebbero essere normali in uno stato liberale e di diritto. Perché questo è un sindacato: democrazia e libertà di espressione e tutela organizzata dei propri diritti da parte dei lavoratori (una volta vi era spesso anche una coscienza di classe, oggi quasi scomparsa). Questo sono i lavoratori di un’impresa che si organizzano e rivendicano diritti e fanno richieste salariali e di riconoscimento di dignità, compreso quello – elementare – appunto di non ammalarsi in nome del profitto.
Anche un primo sindacato Apple Store negli Usa
I dipendenti di un Apple Store di Atlanta hanno presentato mercoledì una petizione per tenere un’elezione sindacale. In caso di successo, i lavoratori potrebbero formare il primo sindacato in un negozio Apple negli Stati Uniti.
I lavoratori sperano di unirsi al Communications Workers of America, che rappresenta i lavoratori di aziende come AT&T Mobility e Verizon, e ha fatto una spinta concertata nel settore tecnologico negli ultimi anni.
Il sindacato dice che circa 100 lavoratori del negozio – al Cumberland Mall, nel nord-ovest di Atlanta – hanno diritto al voto, compresi venditori e tecnici delle riparazioni, e che oltre il 70 per cento di loro ha firmato carte di autorizzazione che indicano il loro sostegno.
In una dichiarazione, il sindacato ha detto che Apple, come altri datori di lavoro di tecnologia, aveva effettivamente creato una forza lavoro a livelli che ha negato ai lavoratori al dettaglio la paga, i benefici e il rispetto che i lavoratori hanno guadagnato nei suoi uffici aziendali.
I lavoratori hanno detto che amano lavorare alla Apple, ma a volte si sentivano trattati come dipendenti di seconda classe. “Vogliamo un trattamento uguale a quello che l’azienda ottiene effettivamente”, ha detto Sydney Rhodes, un dipendente del negozio che è coinvolto nella campagna sindacale.
Cioè un sindacato e/o i lavoratori che si organizzano sono quel contropotere (dei molti che hanno poco potere contrattuale e politico, se non alleandosi tra loro) che bilancia il potere invece fortissimo dell’imprenditore, sia esso individuale o di un Fondo di investimento; in assenza del quale bilanciamento/contrappeso il potere dell’imprenditore diventa appunto autocratico/monocratico, rimuovendo ogni logica di democrazia e avvicinando il lavoro subordinato a un lavoro di fatto semi-schiavistico, non solo nei paesi in via di sviluppo (qualcuno ricorda i mille morti del Rana Plaza di Dacca, nel 2013?), ma anche nel democratico occidente (pensiamo al caporalato digitale espresso da molte piattaforme, non solo di food-delivery e ai tre morti al giorno per incidenti sul lavoro in Italia).
D’altra parte, che Amazon sia una delle peggiori e più ciniche espressioni del capitalismo digitale lo si sapeva da tempo (eppure tutti continuano a usare Amazon per i loro acquisti online e tutti osannano Bezos come imprenditore innovativo e visionario); come si sa da tempo che i suoi magazzini sono la vecchia catena di montaggio fordista e che la sua organizzazione del lavoro è peggio di quella tayloristica novecentesca (mai morta, in realtà in nessuna parte del mondo), anche se un tocco di digitalizzazione la fa sembrare iper-moderna e quel nuovo che avanza e che non si può e non si deve fermare… (e Amazon è uno dei maggiori datori di lavoro degli Stati Uniti), mentre i governi del mondo stendono tappeti rossi per invogliare Amazon a costruire sempre nuovi magazzini… senza mai dire nulla sull’organizzazione del lavoro e il rispetto della dignità dei lavoratori.
Ma poi la storia di Staten Island ha preso appunto una direzione un po’ diversa e lo scorso 1° aprile – al termine di “una campagna ostacolata in ogni modo da Amazon”, come ammesso anche dal NYT – si è dovuto riconoscere che i lavoratori avevano votato per poter aderire a un sindacato. Detto altrimenti, lo spettro non del comunismo (richiamando l’incipit del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, del 1848), ma del sindacato – cioè della democrazia e della libertà politica e civile dei lavoratori di organizzarsi anche nell’impresa privata – si è materializzato in un magazzino di Amazon. Ovvero: non più lo stato di eccezione bezosiano, non più l’autocrazia personale e d’impresa separata dalla democrazia politica, non più il capitalismo più sfrenato e ottuso e disruptivo.
Tutto bene – tanto da far pensare a molti, come a Elisabeth Shuler, presidente dell’Afl-Cio a una inversione di tendenza e a un mondo del lavoro che starebbe rialzando la testa contro il potere dell’impresa? Non proprio. E per molte ragioni: perché Amazon cercherà appunto di invalidare il voto; perché l’ego-ismo (l’ismo degli americani diventato l’ismo della globalizzazione neoliberale e tecnologica) e l’ego-patia (malattia esistenziale coattiva e compulsiva) sono oggi la cinica ed ecocida way of life dell’intero mondo tecno-capitalista; perché oggi tutti i diritti sono per l’impresa e il capitale, liberi di muoversi a piacimento e senza controllo; perché la vecchia lotta di classe è stata vinta dal capitale e il lavoro non ha ancora compreso il lutto che l’ha colpito.
E negli Usa – ma sempre più nel mondo intero – come ricordava il NYT, fare attività sindacale – cioè portare la democrazia oltre i cancelli della fabbriche/luoghi di lavoro, come si diceva da noi un tempo – è difficilissimo, a prescindere da Amazon; e “i sistemi di tutela dei lavoratori a livello federale sono inadeguati e spesso non sono applicati. Eppure, è significativo che i lavoratori interessati a far parte di un sindacato siano molti di più di quelli effettivamente sindacalizzati” (negli Usa il tasso di sindacalizzazione è attorno all’11%). A dimostrazione che il problema della democrazia e della tutela del lavoro esiste, ma che non viene deliberatamente risolto, anzi viene costantemente rimosso. E questo anche perché “il governo ha collaborato con i datori di lavoro per creare questa situazione. Negli anni Trenta” – pure con Roosevelt e il New Deal e le sue politiche per la piena occupazione e il riconoscimento della contrattazione – “il Congresso iniziò a fare marcia indietro imponendo ai sindacati più restrizioni rispetto alle altre democrazie. Nei decenni successivi” – riassume sempre il NYT – “Washington concesse gradualmente alle imprese un potere sempre maggiore nel contrastare le campagne sindacali con propaganda, minacce e perfino maltrattamenti dei lavoratori, arrivando alla possibilità di chiudere le attività quando i lavoratori sceglievano di creare un sindacato. Oggi alcune di questa tattiche sono illegali, ma le aziende che continuano a usarle sono punite raramente” – semmai, aggiungiamo, la pratica è diventata globale e normalizzata e la minaccia di chiudere/delocalizzare/licenziare è diventata la prassi che (es)segue ciò che è scritto nell’ideologia tecno-capitalista/neo-liberale.
Sindacato è brutto
Gli imprenditori (con rarissime eccezioni) non amano i sindacati, a meno che siano aziendali/aziendalistici e funzionali all’impresa. Non li hanno mai amati. Da Henry Ford a Taylor (che era fortemente critico verso i sindacalisti – e la contrattazione collettiva – e li considerava come sviati, ne condannava l’azione di restrizione della libertà imprenditoriale e dell’attività produttiva e si vantava, con la propria organizzazione scientifica del lavoro di avere tolto la legittimità e la legittimazione stessa dell’azione sindacale: perché se questa poteva essere al limite giustificata davanti a comportamenti irrazionali della Direzione aziendale/management, essa perdeva appunto ogni giustificazione davanti ad una organizzazione autodefinitasi come razionale e scientifica), passando per Sergio Marchionne (la sua azione, poi sanzionata come incostituzionale, di esclusione-delegittimazione contro la Fiom) e arrivando appunto a Jeff Bezos e a tutti coloro che sognano di essere come Bezos.
E in Italia, lo Statuto dei lavoratori – massima espressione in Occidente della democratizzazione delle fabbriche e dei luoghi di lavoro – non è stato forse progressivamente svuotato dai governi neoliberali, arrivando infine al JobsAct, proprio per assecondare i voleri dell’impresa in nome di una competitività del sistema Italia che, se non poteva più essere mantenuta come un tempo attraverso la svalutazione della vecchia lira doveva esserlo attraverso la svalutazione del lavoro (un lavoro sempre più low cost), fatta appunto di crescente precarietà e flessibilità, disarticolazione del sindacato, individualizzazione contrattuale e soprattutto esternalizzazione del lavoro, piattaforme, digitalizzazione e la favola dell’essere imprenditori di se stessi – con le cosiddette nuove tecnologie (a-democratiche/anti-democratiche e individualizzanti in sé e per sé – ancora il divide et impera sublimato nell’apparato tecnico) che hanno dato un colpo quasi-mortale alla democrazia e ai diritti delle persone nei luoghi di lavoro, permettendo il ritorno a uno sfruttamento del lavoro otto-novecentesco non solo nel mondo della GDO ma anche dell’Industria 4.0, cioè del vecchio taylorismo, ma digitalizzato.
Nel solco poi di un pensiero neoliberale (illiberale) integratosi con la tecnica e per il quale – ad esempio Wilhelm Röpke (1899-1966) – l’imprenditore “può paragonarsi a un navigatore, il cui compito principale è quello di navigare senza sosta sul mare del mercato. […] Sarà ragionevole, da parte dell’equipaggio, di non accampare richieste di partecipare alle decisioni o di democratizzazione della guida della nave. La democrazia è qui fuori luogo, come in una sala operatoria. La democrazia economica sta altrove e cioè sul mercato”. Ovvero, il modello neoliberale di impresa (come quello permesso dalle nuove tecnologie) è autocratico/monocratico e soprattutto antidemocratico, dimenticando che un’impresa non è mai paragonabile a una sala operatoria.
La democrazia nei luoghi di lavoro
Le cosiddette nuove tecnologie e l’ideologia neoliberale ci stanno cioè portando da quarant’anni a questa parte, anche in Europa ai (bassissimi se non inesistenti) livelli di democrazia nei luoghi di lavoro degli Stati Uniti. Ovvero, stiamo seguendo il modello sbagliato, progressivamente abbandonando ogni principio di giustizia sociale e di giustizia democratica. Ma lo facciamo con una determinazione irrazionale che sconfina nella paranoia. Aggravando l’esclusione sociale, l’alienazione, le disuguaglianze e la reificazione dell’uomo ridotto a dato e a merce/forza lavoro a pluslavoro crescente. Quella democratizzazione del capitalismo e delle imprese che aveva caratterizzato l’Europa tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta del Novecento viene cioè progressivamente rimossa, il lavoro ha smesso di essere un diritto – pur continuando ad essere scritto come diritto in Costituzione – e torna ad essere sempre più una merce, mentre i diritti vengono quasi totalmente trasferiti all’impresa. Dove però non basta certo sostituire il termine lavoratore con collaboratore – secondo le retoriche insistite del management – per mutare una realtà che è invece e ancora di più (perché digitalizzata) fatta di sfruttamento e di precarizzazione, dai riders al taylorismo digitale dell’Industria 4.0, dove proprio il digitale determina una esasperazione dei tempi e dei ritmi di lavoro, espropriando ancora di più il lavoratore di conoscenza, esperienza e spirito critico.
E allora, per buttare nel cestino l’ideologia neoliberale e quella legata alle nuove tecnologie, proviamo a richiamare nuovamente un grande sociologo e politologo americano di un passato non troppo lontano, Robert A. Dahl (1915-2014) , che scriveva: “Il demos e i suoi rappresentanti hanno il diritto di decidere, mediante il processo democratico, come dovrebbero essere possedute e controllate le imprese economiche, allo scopo di realizzare, per quanto è possibile, valori quali la democrazia, l’equità, l’efficienza, la promozione delle qualità umane desiderabili e il diritto a quelle minime risorse individuali che possono essere necessarie a condurre una vita buona”. E ancora: “Se la democrazia è giustificata nel governo dello stato, allora essa deve esserlo anche nella conduzione delle imprese economiche. Ciò che più conta: se essa non trova valide motivazioni nella gestione delle imprese economiche, non si vede proprio come potrebbe averne nel governo dello stato. [Cioè] abbiamo il diritto di autogovernarci democraticamente all’interno delle nostre imprese economiche. Ovviamente, non ci aspettiamo che [questo] le renderà perfettamente democratiche, o supererà completamente le tendenze verso l’oligarchia che appare essere insita in tutte le grandi organizzazioni umane, incluso il governo dello stato. Ma proprio come noi incoraggiamo il processo democratico nel governo dello stato, nonostante le sostanziali imperfezioni che esistono in pratica, così sosteniamo un analogo processo nell’amministrazione delle imprese economiche. […] E intendiamo esercitare quel diritto”.
Così facendo, continuava Dahl, “un popolo democratico compirebbe un passo importante verso il perseguimento degli obiettivi di eguaglianza politica, di giustizia, di efficienza e di libertà”. E invece, da quarant’anni a questa parte, il modello autocratico d’impresa è diventato modello anche per la gestione di uno stato. Inutile chiedersi quindi perché l’autoritarismo e il populismo dilagano nel mondo e sono ricercati dall’oligarchia tecno-capitalista; inutile chiederselo se la causa è proprio nel modello adottato e normalizzato e accettato, nonostante in Costituzione sia scritto il contrario.
Un così facendo di Dahl – aggiungiamo – che oggi invece dovrebbe riguardare non solo le imprese, ma la tecnica come apparato. E quindi, come abbiamo scritto altrove, dovrebbe essere creata una forma/legge costituzionalizzata, una grammatica comune, una procedura democratica per un governo ex ante dell’innovazione tecnica e delle sue applicazioni e dei suoi impatti su società ed ecosistema naturale, per finalizzarla a scopi di utilità sociale e ambientale e di responsabilità verso il futuro, così come oggi è per altro prescritto dal nuovo articolo 41 (ma anche dall’articolo 9) della Costituzione italiana. Per farlo, occorre che l’uomo/individuo e il collettivo (il noi) si riprendano il potere e il sapere di immaginare e di prevedere responsabilmente, imponendo un preliminare principio di precauzione a ogni innovazione tecnica e ad ogni agire d’impresa. Che poi è il modo – l’unico forse possibile – per esercitare un vero principio di responsabilità, che ci è imposto dalla crisi climatica e ambientale.
Bibliografia
Dahl R. A., “La democrazia economica”, il Mulino, Bologna, 1989
Demichelis L., “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene”, FrancoAngeli, Milano, 2020
Re David F., “Tempi (retro)moderni. Il lavoro nella fabbrica-rete”, Jaca Book, Milano, 2018
Röpke W., “Scritti liberali”, Sansoni, Firenze, 1974