Mercati digitali

Ricerca e sviluppo in Italia, chi eccelle va via: ecco perché e come fermare l’esodo

Specializzazioni produttive a basso valore aggiunto, blocco dell’ascensore sociale, logiche clientelari nelle nomine manageriali e padronali nella gestione delle aziende: l’Italia non riesce a trattenere i propri talenti. Ma ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie sono cruciali. Un’analisi e qualche proposta

Pubblicato il 06 Mag 2022

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

ricerca e sviluppo - startup

Nella prima gara di automobili a guida autonoma, mostrata in un servizio di Report il 18 aprile 2022, l’Italia ha dimostrato ancora una volta di saper competere in ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie[1].

Malgrado la situazione di scarsi investimenti pubblici e privati in ricerca e formazione, continuiamo a produrre talenti e capacità tecnologiche e scientifiche di eccellenza. Sappiamo che molti di questi devono andare all’estero per trovare un lavoro dignitoso e all’altezza delle loro capacità.

Proviamo a fare alcuni bilanci.

Investimenti in startup: com’è messa l’Italia sullo scacchiere globale

Ricerca e sviluppo: gli enti pubblici non sono azionisti, i salari si riducono

Negli ultimi anni i finanziamenti a startup nel nostro Paese sono aumentati enormemente: in molti casi, si finanzia il sistema degli incubatori che poi dovrebbe far ricadere questi soldi sulle imprese, in una sorta di trickle-down effect.

Eppure, le poche startup che hanno raggiunto risultati eccellenti e hanno cominciato ad affermarsi non si sono stabilite nel nostro territorio: spesso sono state vendute ad imprese/investitori esteri o si sono trasferite all’estero. Il ritorno ai cittadini che con il fisco hanno finanziato le startup non c’è stato.

Molto denaro è stato immesso nel sistema ma poco ritorna, soprattutto se le entità pubbliche che finanziano poi non sono tra gli azionisti in grado di raccogliere i frutti degli investimenti effettuati. Quale “buon padre di famiglia” investirebbe in qualcosa se non avesse certezza di possedere un titolo che gli dia diritto a ricavare i risultati dell’investimento?

Se responsabile di questa situazione fosse solo la politica, avremmo aziende italiane nei migliori posti al mondo per talenti e brevetti, posizionate ai primi posti delle nuove tecnologie.

Invece non è così: siamo un Paese fortemente incentrato su specializzazioni produttive a basso valore aggiunto, unico tra i paesi OCSE che negli ultimi 30 anni ha visto ridursi il salario medio del 2.9%, mentre Paesi come la Francia, la Spagna e la Germania hanno visto aumenti anche di diverse decine di punti percentuali.

Non è solo la Pubblica Amministrazione che ha difficoltà ad utilizzare i migliori talenti ma è tutto il sistema imprenditoriale, tranne casi rari.

Vanno in alcuni casi molto meglio le imprese partecipate dallo Stato che operano all’estero (ad es. Leonardo o ENI) e molte imprese medie specializzate e fortemente orientate all’export (ad esempio la Dallara di cui accennavo sopra).

Ricerca e sviluppo in Italia: occorre uscire dalla logica padronale e clientelare

Si impone un tema imprenditoriale e manageriale: le aziende che vanno meglio hanno attenzione verso le persone che vi lavorano, investono in ricerca e innovazione, hanno una capacità di gestione manageriale dell’impresa fuori dalla classica modalità “padronale” del basso costo e dell’ “impresa povera, proprietario ricco” emersa nei primi anni ’80.

Di fronte alle sfide delle nuove tecnologie, abbiamo bisogno non solo di competenze specialistiche ma soprattutto di competenze manageriali. La scelta dei manager, pubblici e privati, dovrebbe essere fatta partendo da competenza, esperienza e capacità organizzativa.

Un’azienda di successo come la Dallara ha a capo un manager-socio di calibro internazionale come Andrea Pontremoli, proveniente da IBM, e un fondatore che ha idee non comuni in Italia sulla visione e il futuro dell’azienda: interessante la creazione di un trust per garantire la continuità aziendale con l’idea di tenere il 20% di utili e lasciare l’80% per investimenti e crescita.

In Italia continua ad essere presente un sistema di mobilità sociale bloccato, le nomine dei manager spesso sono più legate alle relazioni che alla capacità. Le persone più competenti non hanno l’opportunità di dimostrarlo, sono costrette ad andare all’estero. Le persone che guidano le imprese provengono di solito dalle stesse università, dagli stessi ambienti, dagli stessi circoli.

Una interessante indagine dell’Autority Antitrust del 2007 (sarebbe interessante un aggiornamento) su “La corporate governance di banche e assicurazioni” descrive un intreccio tra aziende che pregiudica la competizione, meccanismi di “interlocking directorates” che legano le governance di aziende potenzialmente concorrenti.

L’indagine cita diversi meccanismi tra cui quello che vede le stesse persone sedere in organi di governance di molteplici aziende. Il report è ormai molto vecchio e sul mercato bancario e assicurativo la situazione non è molto diversa in altri settori dell’economia nazionale.

Assistiamo ad una sempre più grande difficoltà delle nostre imprese a trovare persone qualificate e, con i livelli retributivi offerti, sarà sempre più complicato.

In futuro, per chi lavora nei settori innovativi sarà molto più semplice “delocalizzare” le proprie competenze senza doversi neanche trasferire all’estero. Ciò che ci dicono molte indagini sulla forza lavoro è che, oltre ad un salario adeguato, le persone hanno bisogno di stare in aziende nelle quale siano valorizzate, premiate per l’impegno, riconosciute per il contributo e ascoltate per ciò che possono dare.

Aziende più umanizzate, in cui una migliore organizzazione e gestione consente di conciliare meglio vita e lavoro.

Il sistema di piccole e media imprese basate sul costo basso del personale e sulla produttività per fare concorrenza a prodotti con bassa specializzazione produttiva non va nella giusta direzione.

Conclusioni

Cosa è che non va nelle nostre imprese, che non le mette in condizione di cogliere le capacità di un sistema di formazione che produce giovani capaci pagandoli in modo adeguato? Cosa dobbiamo cambiare nella gestione delle imprese pubbliche e private per aprire a manager in grado di migliorarle?

Quali competenze manageriali servono per gestire aziende di tecnologie avanzate? Perché molte imprese di tecnologia si limitano a vendere competenze e non sono in grado di trasformarle in prodotti e soluzioni spendibili fuori dai confini nazionali o dal loro mercato di riferimento?

Queste sono le domande a cui dovremmo dare una risposta. O, comunque, questi sono i temi che dovrebbero riempire quotidianamente i giornali e luoghi pubblici di riflessione, i talk show. Ma anche sui giornali, sui talk show e nei dibattiti pubblici gli opinionisti sono sempre gli stessi, i ragionamenti prevalenti vanno nella medesima direzione che ha prodotto i risultati attuali.

E invece è buona norma di una economia libera quella di promuovere punti di vista diversi, aprire alla concorrenza delle idee anche quando non siamo d’accordo, promuovere un costante ricambio di persone, idee e conoscenza.

La prossima volta che vedremo o leggeremo una storia come quella della gara di intelligenze artificiali di auto autonome, nella quale l’Italia si pone ai primissimi posti, dovremmo sobbalzare dalla sedia.

Einstein affermava che “Non si possono risolvere i problemi con lo stesso approccio che li ha generati”.

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Note

  1. Tutte le auto in competizione negli Stati Uniti erano della stessa casa automobilistica italiana, la Dallara Automobili SpA. I software di controllo delle automobili da corsa sono stati sviluppati da diverse università mondiali: l’Italia era l’unico Paese oltre gli Stati Uniti con più di un’università: il Politecnico di Milano, l’università di Modena e Reggio Emilia. Per l’Europa, c’era anche l’università di Monaco. Le università italiane si sono distinte tra i primi posti, raggiungendo record mondiali in termini di velocità.

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